lunedì 19 novembre 2007

Luce Rossa, ti rendo grazie





Non saprei quantificare il tempo che trascorro nel ventre cavo e polveroso dei sex shop che circondano la Stazione Termini, quell’ammasso tentacolare di debosciata consistenza che si incunea nel fianco di Roma, non proprio salotto veltroniano per vernissage con Valentino e qualche intellettuale socialmente consapevole che abbia appena terminato di redigere, firmare e far circolare una petizione contro il risorgente razzismo ma va bene lo stesso, va bene mi dico per convincermi mentre scavallo la porta, meglio dirsi sarebbe portone, colore nero verniciato di fresco citofono sfasciato e gracchiante, dentro un ambrato lucore neon che si infrange contro una vetrina e contro le copertine patinate delle riviste porno.
Perché ci vengo? Sono di passaggio. Tutti siamo di passaggio, dopotutto.
Il silenzio è davvero assordante dentro i porno shop, ha una sua fisionomia dirompente come massa critica di qualche bomba nucleare del solipsismo urbano, sagome sfuggenti come fantasmi gotici, si alzano baluginio di luci morenti, tremolanti, prossime alla morte e granelli di polvere impercettibili che ballano nell’aria nemmeno fosse una parodia hardcore della Danza di Shiva.
Il quoziente di esotismo sta dietro la cassa. O bancone, a seconda dei sex shop. Commesso cingalese, immigrato geneticamente modificato che a dispetto della pelle color caffè sarà ben disposto a smozzicare le quattro parole di italiano che conosce in un grottesco romanesco; sono sempre infastidito, e dal tono mellifluo che contraddistingue i venditori e dalle richieste accorate e disperate dei clienti. Per non farsi sentire, per non disturabre l’anonimato totalitario delle altre sagome, definirle persone non si potrebbe perché non sappiamo nulla di loro, né gusti (se si prescinde da un po’ di appostamento voyeuristico tanto per vedere che razza di dvd e riviste tirano fuori dal cilindro delle scelte), né interessi, né cenni biografici, e allora li liquido come sagome silenti e furtive, ecco che i clienti supplici bisbigliano sussurrano si annichiliscono soffiando aliti di pornografia nelle orecchie del cassiere/commesso.
L’ultima volta, ho fatto visita ad un sex shop che non è proprio situato vicino la Stazione Termini, mi piace, è una sorta di ridicola mansarda ingombra di cellophan e dvd razziati al discount dei fallimenti, cataste intere, in un ambiente malsano, caldo, umido, incredibilmente chiuso, claustrofobico, segnato da odori indicibili e da un tubolare neon messo di traverso sul soffitto. Le pareti sono scrostate e poco coreografiche, adorne di una maestosa scenografia di riviste, dvd e poche cassette, con addirittura reminiscenze di rarità ormai parte integrante dell’archeologia porno.
Ci arrivi salendo una scaletta traballante, e se credete che stia esagerando siete calorosamente invitati a farci un giro. Ogni scalino è una piccola avventura, metti il piede e non sai se ti sfracellerai; non è tanto il pensiero di rompersi una gamba a preoccupare chi osi avventurarsi di sopra, quanto l’idea di rompersela in quel contesto. Essere fuori posto e decisamente poco rispettosi della contemplazione carnografica posta in essere da altri rispettabili debosciati.
C’è ovviamente una componente rituale nello stare l’intero pomeriggio ad affondare le mani tra quelle cataste impolverate di culi infranti, bocche violate, vomito a profusione, scacazzamenti di diarrea e di sperma a ripetizione e degrado elevato all’ennesima potenza; queste figure transitorie che si sdilinquiscono nell’osservazione compulsiva, che annotano nomi e numeri di serie, che si sfuggono le une con le altre e che quando mi vedono arrivare imponente e sorridente distolgono lo sguardo, sentono le assi del pavimento scricchiolare sotto i miei anfibi ed infastiditi e pensosi mi rivolgono occhiate maligne, di sfuggita, per non dover incontrare i miei occhi.
Pretenzioso da parte mia ma devo ammettere che se vado lì, e per lì non intendo quello specifico posto ma tutti i sex shop che abbiano superato le crisi di mercato, ci vado proprio per ammirare ed osservare, quasi fossi un entomologo della disperazione metropolitana, questi poveracci che lontani da famiglie, posti di lavoro e vite inconsistenti tragicamente reiterate nel mantra della solitudine si accapigliano mentalmente per comprendere il significato della loro esistenza. Come scommettitori di cavalli, anche questi pornografi incalliti hanno smesso di assegnare un qualche valore all’oggetto del loro desiderio; se qualcuno di voi ha mai avuto occasione di visitare una sala corse dovrebbe sapere bene, quantomeno per averli visti quei volti di miseria spirituale e dinamiche mentali confuse, che non è la corsa, non è il cavallo, non la cifra scommessa o che potenzialmente si può vincere a tenerli incollati con gli occhi allo schermo. Ma è proprio l’ambiente, quella gabbia etologica in cui si consuma una valenza rituale fortissima e in cui i gesti, le imprecazioni, le bestemmie, lo studio delle schede delle singole corse collimano con l’oggetto del desiderio, ne diventano parte inscindibile, per poi sostituirlo ed essere a tutti gli effetti desiderio nella sua accezione più pura.
Ma almeno nelle corse vi è una parvenza di socializzazione, di relazioni inter-personali, ci si scambia dritte vere o fasulle, menzogne che si rifriggono tanto per darsi un contegno, ricordi e memorie di passate vincite, si scherza, si umilia più o meno bonariamente chi perde e ci si illude quelle poche volte che si vince che una nuova vita stia per cominciare. Nei sex shop invece nulla di tutto questo, le persone sono rigorosamente chiuse in una solitudine ermetica, sigillata, a prova di contatto umano; provatevi a rivolgere la parola ad uno di questi porno-fantasmi, provate ad instaurare un simulacro di conversazione, e vedrete facciazze arrossate e gonfie di vergogna, sentendo come unica colonna sonora un confuso balbettio di frasi inutili e prive di senso.
Come fossero in una chiesa, in una cripta, questi individui fiutano l’aria mistica del porno e tentano di capire, interrogandosi in maniera dura e disperata, il motivo per cui si sono inventati sonore balle con moglie, capoufficio o fidanzate per venirsene via dal lavoro o da casa e ficcarsi senza tentennamenti in questo loculo di pura perversione. Ad un certo punto, devo dire di aver sviluppato una notevole sicurezza nell’affrontare questi falliti; non ne ho pena, non li compatisco, a dire il vero non mi interessano nelle loro vite esterne a questi pomeriggi pomeridiani, mi piacciono solo qui, quando sono vulnerabili, indifesi, spauriti. Li vedi angosciati a scegliere un video, chi opta per ragazzine giovanissime coperte di sperma, altre torturate a sangue, poi ci sono gli inevitabili omosessuali repressi che scovano gli esempi più clamorosi di shitting o di leather boys. A me di tutta questa pornografia interessa relativamente.
Per rapide seghe c’è internet. Asettico, comodo e anonimo; fosse il mero scaricarsi le palle, potremmo stare tutti a casa e non incontrarci mai. Dico sul serio.
Ed invece loro devono venire qui, a consumare le trasgressioni di plastica che un annoiato stile di vita borghese gli concede ed io devo venire a guardarli; sono così avvinto dall’idea che questi poveracci non abbiano nulla di meglio da fare o che proprio fuggano da chissà quale merdosità esistenziale, così conquistato, così emotivamente partecipe da dover raggiungerli e starmeli a guardare.
Intendiamoci, non è che me li fisso ripetutamente; anche io gioco il mio ruolo di insacca-mani nel mucchio selvaggio di video porno, mi squadro e rimiro le copertine, cerco le cose più umilianti e degradanti, ma poi appena posso, appena noto con la coda dell’occhio qualche succulento particolare inizio la mia opera di entomologo. Classifico, catalogo, fantastico, mi piace lasciare da parte ogni residuo brandello di empatia. Giuro su dio, mi piace credere a volte che questi coglioni verrebbero qui anche se la madre stesse crepando di tumore in qualche corsia di ospedale o se il figlio fosse stato appena rinvenuto cadavere dentro i rottami di una macchina, li sento così luridamente disperati, così proni al loro oscuro desiderio, non mi fanno schifo; più che altro li trovo meravigliosamente corrotti, debosciati, svuotati all’interno come fossero una mela bacata.
Al giorno d’oggi c’è poca pornografia che mi interessi. Tutto ciò che implica una siliconata starlette desiderosa di farsi scopare su video, con aspirazioni e grandeur meta-cinematografica, mi sfugge lontano, mi guardo bene dal coltivare il minimo interesse per questa spazzatura hippie intrisa di buoni sentimenti. Anche l’amatoriale, i video di stupri, il bondage, lo shitting, l’animal nel corso degli anni hanno iniziato ad annoiarmi, perché cercando qualcosa che mi disgustasse, che mi desse un briciolo di emozione in questa routine borghese che ci avvolge tutti come una amorevolmente ipocrita placenta ho finito per perdere ogni partecipazione emotiva, ogni trasporto, ogni possibilità di eccitazione. Ma soprattutto ho trovato loro, i meravigliosi clienti-zombies.
Sono stati in grado di farmi perdere il residuo, poco, interesse che nutrivo per le evoluzioni sessuali immortalate su video. Se capita, se posso, ancora acquisto qualcosa, piccole gemme di luminosa depravazione, ma è raro; il video deve proprio superare l’umana comprensione per farmi aprire il portafogli. Scene di vomito provenienti dalla Francia, qualche efferata tortura tedesca in cui però il quoziente plastificato di dolore non sia reso inoperante da qualche stupido particolare, da qualche caduta di stile, da qualche imbecille troppo pieno di sé; perché non sopporto il trash, voglio che tutto sia rifinito e curato e che anche la più incredibilmente insopportabile scena di mutilazione, sangue o sopraffazione diventi un affronto lucido e metodologicamente corretto a quanto ancora di umanitario esiste nel mondo.
Creo io stesso situazioni che mi pongano oltre la sequenza di porno video; vado lì con qualche ragazza, amiche o puttanelle in cerca di stupide trasgressioni, il solo apparire di una figura femminile in quei pertugi fiocamente illuminati crea uno scompiglio di decadente e suggestiva potenza. Una atmosfera di tensione, di isolamento compulsivo prende ad aleggiare ed i volti paonazzi quasi cianotici dei clienti sono impagabili, messi a confronto con una vera ragazza, una fica in carne ed ossa, loro che al massimo sono abituati a comprare sesso in video, corpi che come ologrammi cessano di esistere ogni volta che la parola FINE si compone sullo schermo di casa.
Senti i respiri corti, affannosi, li vedi agitarsi, frugare senza riuscire più a focalizzare copertine, mentre me ne sto lì a colloquiare con la ragazza, parliamo, scambiamo esperienze, gusti, improvvisiamo in una ridefinizione artaudiana della crudeltà, li mettiamo in difficoltà in ogni modo possibile, e questo voglio, voglio si sentano soli e luridamente disperati, merde sotto-umane ridotte allo sterco compassionevole di qualche immigrata da cui ricevere un pompino tra le frasche o in pineta.
L’ultima volta c’era un tizio assolutamente incapace di comprendere che una vera donna fosse lì vicino a lui; nel momento stesso in cui la testa della mia amica ha fatto capolino dalla sommità delle scale, mentre io la incalzavo da dietro e ancora non potevo vedere quante e quali persone ci fossero dentro, sento un borbottio confuso, un ringhio sordo di disappunto, poi saliamo entrambi e li vedo tutti in agitazione, ma il tizio che ho puntato e che ho poi eletto mio eroe di giornata vince a mani basse il confronto, perché sta lì che boccheggia, ansima, davvero lo avrei dato per infartuato.
Abbassa la testa sugli scaffali, sulle copertine, sui cataloghi traboccanti titoli porno, ma poi quella testa si solleva di nuovo e controlla che non si sia trattato solo di una visione, di una effimera illusione.
Al coglione è persino squillato il cellulare. Figura di merda di proporzioni cosmiche, perché in quell’istante lo abbiamo sentito tutti dire, imbarazzato e con voce flebile e rotta, “si, mi potrebbe richiamare questa sera all’ora di cena, perché sono al lavoro e sono piuttosto occupato”; me lo sono rimirato bene bene mentre liquidava il seccatore, ormai cinereo, senza più fiato, privo di qualunque giustificazione, umiliato davanti ad altri inoperosi escrementi antisociali. Avrà avuto cinquant’anni, cinquantacinque al massimo, magari una famiglia, certamente un lavoro da cui si era scollato alla velocità della luce pur di ficcarsi in quell’anfratto.
Probabilmente sarà uno di quelli che redigono annunci per single su Porta Portese o sui gruppi di discussione internet, entusiasti del sesso virtuale i quali ogni volta che arrivano vicini alla realizzazione pratica di qualche loro fantasia “trasgressiva” se la fanno addosso.
Con il tempo ho sviluppato quasi una sensibilità femminista nei confronti della pornografia; gran parte di questi coglioni infatti sublimano davvero la loro impotenza relazionale e varie frustrazioni cercando ologrammi e simulacri di revanche sessuale in video tutti uguali. Non è una bella cosa devo dire. Né per loro, né per me che mi sono avvelenato ormai un sano pornazzo, ma d’altronde non ce la faccio a condividere con questa schiuma la gloria di uno schizzo di sperma.
Ci separano intelligenza, impostazione, serietà, determinazione nel tentativo di raggiungere i nostri obiettivi. Poi assai probabilmente io pure avrò le mie fisime e finisco spesso, lo riconosco, per assegnare al porno dei significati oggettivi che invece sono solo mie soggettivissime e opinabili considerazioni, bagliori dell’abisso che mi porto dentro e che mi costringe a vagare per il ventre scuro di questa città del cazzo alla ricerca della disperazione altrui.
Come mi sento nel vederli a pezzi? Emotivamente a pezzi, intendo.
Non troppo bene, ma non malaccio. Non è una ventata di energia, se è quello che volevate sapere. Ma nel bene e nel male, la loro disperazione li rende drammaticamente umani, li rende reali, assegna loro un valore, il mio piacere, la mia soddisfazione. Nel mio microcosmo di derive esistenziali non ci sono naufragi con superstiti, anzi finiscono tutti malissimo.
Peggio finiscono loro, meglio mi sento io. Molto umano, trovo. Troppo umano, forse.
La verità è che sto ancora cercando la mia strada per dire addio al genere umano, per non preoccuparmi delle sue sorti, per andarmene solo e libero e fiero lungo il crinale del mio destino, ma alla fine sono legato a questi posti, a queste terre di nessuno obliquamente protese tra la ricerca del piacere e la negazione assoluta di ogni sentimento. Se sono cresciuto come sono cresciuto, oltre alle letture, lo devo pure a tutte le ore passate qui, non lo metto in dubbio.
Come diceva il buon Artaud, poco ho studiato ma molto ho vissuto e questo pur qualcosa mi ha insegnato. Io ho studiato e letto, molto, ma in termini pratici, emotivi, di crescita, tutti i miei trascorsi in queste languide psicogeografie romane intessute di neon e tramonti rosso sangue non reggono il confronto con la migliore università del mondo e diventano grandioso monumento al potere, alla emersione prepotente dell’Io individuale.
Non ci credo davvero all’amore, alla coppia, alle relazioni, non lo dico o scrivo per darmi un tono da maudit, da naufrago dell’esistenza. Sono cose di cui non sento la mancanza.
Ma ho anche smesso di compatirmi. Non sto cercando l’anima gemella. Chissenefrega di tutto il resto.
Viviamo in una fogna di mondo in cui solo l’uomo libero sopravvive, solo chi ha reciso ogni legame con la debolezza dei rapporti umani, chi non ha rimpianti, chi è forte abbastanza da capire che una relazione è un ghetto di persistente e perenne castrazione emozionale, un compromesso fatto sistema.
E l’amore? Che me ne faccio? Che è l’amore? Non ho visto amori durare, anche quelli che sembravano destinati ad eternarsi sono franati, si sono distrutti o sono stati infranti, oppure peggio ancora si sono incanalati mortalmente nel grigiore della routine, in qualche matrimonio-prigione in cui l’amore non è altro che gargarismo buono per giustificare il pagamento condiviso di un mutuo o delle rate della macchina.
L’amore l’ho scaricato nella tazza del cesso, assieme a tutti gli altri inutili gingilli di cui abbonda la società moderna.
Posso assicurarvi che non è tanto male vivere così, all’ombra della luce rossa. Indietro non torno, e se avete un briciolo di amor proprio fareste bene ad iniziare ad incamminarvi pure voi.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

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Anonimo ha detto...

andrea...la prox. volta ci vai insieme a me!
:-)il resto in privato

love, m.

AV ha detto...

assolutamente si, è una tappa obbligata nel ventre oscuro di una Roma ben lontana dalla gloria architettonica dell'Impero romano...eppure è una Roma vera, criptica, che scorre maligna e carsica lontana dagli occhi dei turisti

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.