martedì 14 ottobre 2008

La parola tradita - contro il conformismo intellettuale

(contrariamente a quanto riportato nella didascalia della foto sopra postata, originariamente apparsa sul quotidiano Epolis, non si tratta di tifosi italiani ma bulgari, alla faccia della verità...)



Se partiamo dall’assunto poundiano secondo cui “la miglior misura di un uomo o di una nazione è il loro rispetto per l’affermazione esatta” dovremmo concludere senza possibilità di appello che i giornalisti e gli intellettuali contemporanei rappresentano la peggiore, e più evidente, negazione della grandezza; e in questi giorni non c’è che l’imbarazzo della scelta per arrivare a formulare simili giudizi, basta aprire un qualunque quotidiano o periodico o collegarsi ad internet e spulciare agenzie di stampa o i blog personali dei vari scribacchini elevatisi ormai a guru della informazione non-mediata.
Ondate di moralismo censorio si abbattono, giorno dopo giorno, contro il “dilagante razzismo” e contro “la violenza degli ultras”, due fenomeni ormai così strettamente collegati tra loro da essere divenuti interscambiabili; il razzismo come spiegazione socio-psicologica, come coloritura mondana per spiegare i retroscena di un qualche fatto criminale, paga da sempre perché fa leva sugli istinti latenti di autocolpevolizzazione che serpeggiano nel corpo sociale italiano. Pontificano i soloni, naturalmente dall’alto delle loro lussuose case così poco proletarie, e parlano di accoglienza, di necessaria integrazione, illustrano con dovizia di particolari le beatitudini del meticciato e del multiculturalismo, castigando gli xenofobi italiani rei a loro dire di detestare e odiare visceralmente zingari, ebrei, immigrati, omosessuali e tutto ciò che genericamente è “diverso”.
Il razzismo anti-italiano dei profeti dell’integrazione e dei diluvi migratori è, se vogliamo, una divertente contraddizione in termini ma non mi ci soffermerò sopra perché è di marchiana evidenza, trovo più utile parlare della loro metodologia; prontissimi a spacciare come assoluta verità la prima velina circolata su aggressioni a sfondo razziale, quando poi lo sfondo è tutto da verificare e analizzare, questi solerti amanti della mescolanza si guardano bene dal presentare un quadro oggettivo e veritiero. Sono professionisti della menzogna, istigatori all’odio e al conflitto un tempo di classe ora di razza.
Quando narravano le violente gesta di fantomatiche bande di neonazisti, scorrazzanti impunemente per il popolare quartiere romano del Pigneto e dediti a devastazioni e aggressioni razziste, non ci si era minimamente chiesti se il movente di quelle azioni fosse declinabile effettivamente su base razziale o se al contrario non fosse altro che una violenta manifestazione di esacerbazione umana. Si è preferito procedere coi soliti “dossier democratici”, le schedature di chi non la pensa in modo conforme alla vulgata egualitaria (sia chiaro, solo per tutelare meglio la democrazia…), descrivere infernali scenari di internazionali nere che pescano ormai aderenti nelle banlieu italiche e nelle curve calcistiche, sfidando spesso il senso del ridicolo; così, anche quando si è scoperto che il giustiziere del Pigneto non solo non era un militante nazista ma che addirittura si trattava di un pregiudicato per reati comuni con simpatie comuniste, un solido background proletario alle spalle e persino un Che Guevara tatuato sul braccio, i giornali hanno continuato a scrivere idiozie sui foulard con le svastiche e sulle spedizioni punitive scientificamente pianificate. D’altronde è facile, facilissimo scrivere fantasie strumentali perché la deontologia professionale dei giornalisti tra tutte le favole è la più grande.
Un cittadino cinese viene pestato da una baby-gang a Tor Bella Monaca? Si salta a piè pari la decostruzione del degradato contesto sociale e urbano della zona, si omette il fatto che quella stessa gang si era resa responsabile in precedenza di aggressioni a cittadini italiani (non fa notizia, vende meno del razzismo), aveva spaccato e fatto a pezzi strutture edili, vetri delle macchine della polizia municipale, dedita quindi a mero teppismo metropolitano privo di qualunque connotazione ideologica o razzista e si preferisce intonare il tragico peana universale del montante razzismo. Persino quando si è scoperto che uno dei componenti della gang è di origine araba, si è continuato a cianciare di neofascismo e di razzismo.
Chiunque abbia un minimo di familiarità con le dinamiche dell’insulto (e non c’è bisogno di scomodare Schopenauer) sa perfettamente che per fare male all’interlocutore bisogna colpirlo nel profondo , la qual cosa presupporrebbe un certo grado di conoscenza tra chi aggredisce e chi è aggredito; ma quando lo scontro avviene tra persone che si incontrano per la prima volta in strada, senza sapere se ci sono madri morte da ingiuriare, padri in galera da sfottere, ci si basa su caratteristiche evidenti, fisiche o appunto razziali. Eppure non vedo i giornalisti prendere le accorate difese di nasoni o orecchioni comunemente insultati e magari pestati, non si parla nemmeno di razzismo in quei casi ma solo di bullismo (quando se ne parla poi…).
Il raid punitivo “nazista” è stato enfatizzato, portato ad evidente riprova che in Italia esiste un cuore nero razzista, ci si sono imbastite sopra le solite trasmissioni televisive, il solito carosello vergognoso di melma intellettuale (ah, questa feccia intellettuale, se non esistessero razzismo e fascismo di cosa camperebbe mai?), qualche petizione che fa modello Lotta Continua-contro-Calabresi, tanto il milieu di riferimento culturale e politico è sempre quello; mettere una firma in calce è facilissimo, quasi uno status, proprio come scrivere un fiume in piena di stronzate, al massimo se la petizione dovesse sfociare in qualcosa di controproducente o l’articolo si rivelasse un cumulo di menzogne sbugiardate dalla realtà oggettiva dei fatti si potrà sempre prenderne le distanze o dire “ma io parlavo in generale”.
D’altronde noi siamo un Paese in cui la classe intellettuale vive perennemente a 90 gradi rispetto al comune sentire che domina in un certo momento storico, abbeverandosi al capezzolo generoso dell’imbecillità umana; abbiamo teorici della guerriglia partigiana difensori della democrazia che fino a qualche anno prima recensivano entusiasticamente I Protocolli dei Savi di Sion, abbiamo indefessi censori della brutalità poliziesca e militare che bellamente tacciono quando gli stessi eventi (o pure più gravi) avvengono nel cuore di quello Stato che si è soliti definire “unica democrazia in Medioriente” e con cui avvertono una forte empatia etno-religiosa, abbiamo una classe politica che da un lato pontifica di rispetto dei diritti umani e poi ordina stermini di massa per esportare la democrazia. Ovvio che la cortina fumogena della menzogna sia nell’ordine delle cose, è pura propaganda utile per giustificare il mantenimento dello status quo.
Ho dovuto leggere Saviano (autore che per altri versi apprezzo) tutto eccitato perché i “ribelli dalla pelle nera” avevano inscenato la prima vera manifestazione contro la Camorra, mentre quegli inetti di bianchi napoletani se la sono fatta sotto per così tanti anni in omertoso silenzio; mi verrebbe da chiedere a Saviano se certe idiozie le pensa davvero o se al contrario si tratta solo di un pavloviano riflesso condizionato, il riflesso di chi comunque tra la dignità della propria razza e l’offesa alla razza stessa sceglierà sempre e comunque questa seconda strada.
Perché in fondo, l’aggressione omicida perpetrata a Castel Volturno di razzista aveva poco, pochino, proprio nulla verrebbe da dire, e lo direi pure se questi intellettuali già non lo sapessero; se gli spacciatori ammazzati (non tutti gli uccisi erano spacciatori, ma alcuni si) avessero devoluto parte dei loro compensi ai clan che governano quel territorio non ci sarebbe stato alcun raid. Pecunia non olet, vige questa aurea regola per gli affaristi del crimine organizzato e rimango costernato a pensare che un raffinato analista di cose di camorra come Saviano non l’abbia specificato; o se qualcuno invece pensa che i camorristi agiscano motivati da furor razziale, bè dovrebbe spiegarmi per quale motivo non abbiano agito anni prima quando l’alluvione africano in quei territori era colto nella sua fase nascente.
In quanto alla presunta rivolta, a me risulta che durante la loro impunita passeggiata devastatrice lungo la Domiziana i ribelli tanto cari a Saviano abbiano urlato “italiani bastardi” e non “camorristi bastardi”; ovviamente secondo i caritatevoli commentatori dei giornali dovremmo giustificarli perché erano esasperati e furiosi. Certo, però la giustificazione si badi bene vale solo se siete immigrati; perché se al contrario siete italiani e un qualche zingaro o immigrato vi violenta la figlia, vi ammazza la nuora, vi ruba l’auto, vi aggredisce per strada e voi esasperati urlate “zingari e/o immigrati di merda” verrete processati per istigazione all’odio razziale e additati, in tv e sui giornali, come feroci nazisti. Sarà addirittura riesumato qualche padre costituente o qualche simile cariatide socialmente consapevole per darvi addosso.
Così le “oceaniche” manifestazioni pro-immigrati e contro il razzismo organizzate da centri sociali, pretame (brutta cosa se togliessero alle varie Caritas e Comunità di Sant’Egidio queste schiere di “nuovi fedeli”; ma stupirebbe il contrario, quando si ha un Papa che dichiara l’accoglienza bene supremo, e dice che il denaro non conta nulla, salvo poi assistere alla ristrutturazione finanziaria del Vaticano con dismissioni del patrimonio azionario, minacciato dalla crisi globale, ed incetta di oro, non ci si può crucciare più di tanto), associazionismo che non si è mai capito chi associ e nel nome di cosa poi, sono state un triste carnevale di autocolpevolizzazione e di furibondo razzismo anti-italiano.
Arriverà un giorno in cui qualche cuore coraggioso, e ovviamente “razzista”, pure un po’ masochista visto che mettersi contro certi soggetti equivale alla morte civile, scriverà del business che si cela dietro questa fandonia dell’accoglienza, e da parte mia spero che quel giorno arrivi presto perché l’Italia ha più bisogno della lucidità di un Franco Freda che non delle tirate buffonesche di cento Ascanio Celestini.
Guardando in tv le scene delle manifestazioni antirazziste, mi è capitato di leggere cartelli su cui era scritto che gli immigrati di colore sperimentano l’inferno qui in Italia, che soffrono terribilmente il nostro razzismo; poverini, una lacrimuccia mi è scesa sul volto contrito.
Sono sicuro che la loro situazione di ospiti in Italia sia davvero pesante e dolorosa, senza dubbio più dolorosa di quella garantita loro da accoglienti paesi natale come il Sudan, il Rwanda, il Congo, quella vasta congerie psicogeografica di terre devastate da guerra, carestie, fame e miseria, in cui non è cosa poi così peregrina trovare una donna spaccata in due a colpi di machete ed appesa ad una capanna, dopo essere stata ripetutamente violentata, o dove i bambini rachitici muoiono ancora appesi al seno raggrinzito delle madri, ma ovviamente sono assai più crudeli i razzisti italiani, mi sembra un giudizio equo e ponderato. Chiedere più diritti umani venendo da paesi che non sanno nemmeno cosa sia un diritto umano è quasi un paradosso Zen, che solo in Italia avremmo potuto rendere rivendicazione politica.
Verrebbe voglia di prenderli questi immigrati e dire loro, direttamente, brutalmente, “vi trovate male qui? Allora tornate nel vostro paradiso”. Ma tutto sommato non sarebbe corretto; perché questo piagnisteo del razzismo non è farina del loro sacco, non sono loro a cercare revanscismi politici soffiando sul fuoco dello scontro di razza, alimentando il sospetto e la frizione tra italiani e immigrati.
Sono piuttosto quelle residue scorie di ultrasinistra, militante e/o “intellettuale” che dopo essere state giustamente prese a calci in culo dagli operai e da qualunque altra categoria sociale tipologicamente ascrivibile all’elettorato di riferimento della sinistra, cerca negli immigrati l’ultimo baluardo per rientrare prepotentemente sulla scena; loro “politicizzano” e dotano di “coscienza critica” gli immigrati, organizzano le manifestazioni, preparano le magliette, scrivono slogan (come il “fuori gli Italiani dal quartiere!” che fino a qualche tempo fa campeggiava sulle mura dell’Esquilino, qui a Roma) e seminano odio e disperazione, loro stavano a Castel Volturno a “portare solidarietà”, loro stavano a Milano confusi nella caotica manifestazione che ha spaccato motorini e macchine e che in teoria avrebbe dovuto protestare contro l’uccisione di quell’italiano “di seconda generazione”, ucciso in circostanze non ancora chiarite ma per loro già martire del razzismo. Esattamente come a Parma, dove le responsabilità del pestaggio di un giovane studente di colore ad opera di agenti della polizia locale sono in via di accertamento ma loro, loro ultrasinistra cenciosa di piazza e di studio televisivo, il processo l’hanno già celebrato e la sentenza già emessa. Un po’ come ai tempi di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio.
Poco importa in questo quadro che la prostituta negra stesa a terra, seminuda e degradata, divenuta fotografia celebre e paradigmatica del clima di intolleranza, si sia inventata tutto, e che una spacciatrice internazionale di origine somala a Ciampino di sia detta oggetto di razzismo da parte della polizia. La verità, quando non è funzionale allo scopo preposto, non è verità, devono pensare questi rivoluzionari mancati prestati alle redazioni dei giornali, in perfetto accordo con le direttive leniniste che tanta parte hanno avuto nella loro formazione.Razzismo diventa parola magica, parola-mondo in grado di suscitare empatici slanci di affetto verso questi esseri umani così sfortunati che sbarcano sulle nostre coste, un grimaldello attraverso cui scardinare le fisiologiche resistenze dettate dal rispetto di sé e del buon senso; perché, e questo i soloni dell’integrazione non lo spiegano mai, è più razzista decidere di smettere di accogliere orde di disperati oppure accoglierli e poi farli vivere in favelas invase da topi, escrementi, malattie di vario genere?
Più facile ululare che gli immigrati non rubano nessun posto di lavoro; che non rubino posti di lavoro è cosa che posso condividere, ma io devo pure aggiungere che l’immigrato abbassa drasticamente il costo della forza lavoro, generando concorrenza sleale nel mercato delle opportunità lavorative e così creando un circuito vizioso di sempre minori chances per l’italiano. Colpa del capitalista bianco che sfrutta, perfetto, e pure però dell’intellettuale progressista che compra la borsetta sanguinosamente creata dall’immigrato schiavizzato.
Ma l’intellettuale ha pronta una geniale soluzione; firmare una petizione contro il razzismo o redigere un editoriale contro i naziskin.
Fa bene alla coscienza, è un delizioso balsamo che netta la mente dalle preoccupazioni che sorgono, o che potrebbero sorgere, quando i moralisti si trovano davanti le baraccopoli indegne dentro cui la loro accoglienza ha relegato a vivere gli immigrati; senza gli atti di razzismo, veri o presunti, questi aficionados della gauche caviar nemmeno si accorgerebbero che in Italia vivono degli immigrati, visto che loro conducono eteree esistenze in attici super-lussuosi o in esotiche tenute circondate da acri di vigneti, mentre i loro protetti pasteggiano a pane raffermo e topi di fogna.
Strane amicizie di letto, in grado di sfidare la logica, sono generate dall’isteria antirazzista; ad esempio, come capofila dell’indignazione troviamo alcuni intellettuali di origine ebraica prodighi nell’esaltare la bellezza sublime del meticciato (tanto che uno di loro fa vanto del termine “bastardo” caricato appunto di sovrastruttura ideologica), curioso dicevo visto che la loro religione è quanto di più settario e segregazionista esista. Potremmo ricordare a questi amanti della mescolanza, le parole con cui Ehud Olmert, primo ministro israeliano, si è espresso a proposito del meticciato durante i lavori del trentacinquesimo congresso sionista :” Today, the State of Israel is already closer to being the place in which the majority of Jews in the world live. I would like this fact to be determined solely by an increasing stream of Aliyah, but unfortunately, this is not to be at this time. Demographics point to processes of shrinking Jewish communities in the Diaspora due to low birth rates, assimilation, mixed marriages or unintentional alienation from their Jewish identity.” Queste frasi sono pubbliche, registrate e pubblicate non in qualche sito cospirazionista di matrice antisemita ma sul sito web ufficiale del primo ministro stesso.
Senza contare poi , passando dal dato religioso a quello più strettamente politico, la rigidissima politica in tema di immigrazione che vige in Israele; proprio ieri leggevo che è stato arrestato e trattenuto per ore in uno scalo israeliano l’ex calciatore Lothar Mattheus, ora allenatore di una squadra locale, dato che il suo permesso di soggiorno appariva scaduto, fosse accaduto in Italia adesso saremmo sommersi da approfondimenti televisivi e fondi editoriali colmi di indignazione.
Cronaca del caso Mattheus è consultabile qui: xhttp://www.corriere.it/sport/08_ottobre_13/matthaeus_arrestato_israele%20_d6b75ef4-993c-11dd-bf8a-00144f02aabc.shtml
O, per lasciare ai margini queste situazioni sconfinanti nel gossip, potremmo chiedere cosa pensano della condizione lavorativa e sociale dei palestinesi impiegati in Israele; può essere istruttiva la lettura della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, che a quanto mi consta non è covo di fanatici neonazisti : xhttp://www.domenicogallo.it/download/CIG-Muro.pdf
Ma ovviamente ci diranno che il razzismo è solo questione di uomini bianchi indoeuropei, e che quindi non può esistere un ebreo razzista o un negro razzista. Chapeau.
Altra strana amicizia è quella che si modula nella vasta congerie dell’ultrasinistra militante, in cui convivono il favore per l’immigrato che deve essere libero di poter esprimere le sue usanze tradizionali (anche quando queste implicano la violazione dei principii per cui questi illuministi di rimbalzo si battono), i diritti degli omosessuali e le femministe; un quadro che farebbe invidia alla Zattera della Medusa.
Riuscire a mettere nello stesso calderone l’integralista islamico che considera la donna un oggetto da utilizzare a piacimento e che impiccherebbe ad una gru qualunque omosessuale capitatogli tra le mani, le teorizzazioni pedo-coprofaghe e di liberazione omosessuale alla Mario Mieli, e il femminismo radicale è un esercizio di equilibrismo davvero difficile. Sarebbe istruttivo chiedere ad un Talebano cosa ne pensa degli Elementi di Critica Omosessuale di Mieli, sono certo che la sua risposta sarebbe molto più eloquente di cento editoriali con cui ampollosamente un qualche intellettuale progressista tenta di farci ingoiare il multiculturalismo.
Questa armata brancaleone si è trovata un nemico potente visto che non può vivere nel Pro di una qualche proposta , ma solo sedimentandosi attorno al pericolo comune e quindi nell’incombenza di un Contro e di un Anti; il neonazismo, nelle sue varianti di neofascismo, razzismo, xenofobia, politiche securitarie, estremismo di destra, radicalismo di destra. A dar retta ai soloni dei giornali, i neonazisti italiani sarebbero decine di migliaia; per dare corpo ai fantasmi statistici che producono si sono gettati nella dimostrazione di come gli Ultras rappresentino il braccio armato del neonazismo. D’altronde una curva affollata, se adeguatamente spacciata per covo di intolleranti, è un bel colpo d’occhio. E può confermare tante teorie, che altrimenti rimarrebbero strampalata aria fritta.
Sono anni che la sinistra intellettuale dedica reportage, articoli, saggi ed interi libri all’improbo sforzo di mostrare l’intrinseco fascismo del mondo ultras, o in subordine il tentativo di penetrazione culturale della destra radicale nelle curve; eppure, nonostante i grandi sforzi di tanti pseudosociologi e di un infamello passato a miglior vita, ci si è dovuti arenare davanti alla mera constatazione che la destra radicale nelle curve non ha mai aggregato nessuno e che i fascisti che vanno in curva erano fascisti ancor prima di mettere piede sulle gradinate. Fascinazione, simbolismo, ma poi nel necessario salto di qualità che separa teppismo rumoroso e plebeo dal rigore della militanza si torna al punto di partenza, e chi era già militante politico rimane militante politico, chi teppista di stadio teppista di stadio.
Ovviamente non tutti gli ultras sono teppisti, ma questo non ditelo mai ai Geni della sinistra; per loro la differenza va bene ed è da celebrare solo fino a quando possono esperire pieno controllo sul fenomeno che analizzano, altrimenti hic sunt leones. Come d’altronde tutta la menata sulla violenza degli stadi, con gli ultras dipinti al pari di terroristi ed eversori, mentre tutti i giornalisti sportivi che sputano fiele ed istigano all’odio in modo reiterato e sistematico sono santificati dalla presunta aura intellettuale.Così questa grottesca vicenda degli scontri di Sofia diventa l’ennesimo caso che conferma pochezza e malafede strumentale dei pennivendoli da un lato, e dei politici dall’altro. Ci sono state mostrate immagini di tifosi inferociti, saluti romani, svastiche e celtiche, bandiere bruciate, e chi più ne ha più ne metta; peccato che il repertorio nazisteggiante ascritto frettolosamente agli italiani lo abbiano messo in atto i bulgari, tanto che ho scelto come degno corollario iconografico di questo articolo la foto apparsa su Epolis, commentata dalla scritta “tifosi italiani” mentre si tratta in tutta evidenza di supporters bulgari. Non errore, ma mistificazione consapevole visto che pure in tv abbiamo dovuto sopportare la lagna incessante delle violenze e delle apologie perpetrate dai presunti Unni italiani calati sulla sonnolenta Sofia, quando in realtà le cose sono andate in modo molto molto diverso.
Ma per quanta energia intellettuali e giornalisti impieghino nello scaldare i cuori con la favoletta del razzismo, non c’è nulla da fare; l’Italia non è un paese razzista, non c’è intolleranza.
E sfortunatamente, aggiungo; perché servirebbe un grado enorme di intolleranza contro la stupidità umana, contro l’ipocrisia, contro la strumentalizzazione capziosa per liberarci di tutta questa cappa di oppressione e di mediocrità. I parassiti, lo sappiano, saranno i primi ad accorgersene quando davvero l’Italia sarà diventata un paese intollerante.

lunedì 13 ottobre 2008

Sade e la pornografia religiosa




Anni fa, il triste scrittore Maggiani (triste principalmente per i suoi output letterari) affermò durante un dibattito televisivo che Sade sarebbe un autore "pornografico" con l'evidente, e fallace, scopo di denigrarlo; pornografia è divenuto termine polisenso, sfuggente, liminale, dalla consistenza pastosa ed oscura, e che necessita sempre di qualche eterointegrazione.
Da quando le femministe hanno prima inscenato roghi intellettuali contro la lordura del porno e poi hanno riabilitato il coito esibito (come forma di liberazione sessuale), le acque si sono colorate di melma ancor più fitta...prima paradigma della reificazione, della ossessiva plasticizzazione del piacere, umiliazione della donna, in seguito la pornografia è divenuta una variante hippie delle teorie di empowerment. Nel linguaggio comune ovviamente "pornografico" è aggettivo deteriore, sinonimo di volgare, osceno, deteriore, descrizione peggiorativa.
Eppure per quanto Maggiani volesse denigrare il Divin Marchese rendendolo un letterato limitato alla mono-dimensione della ossessività eroticizzante, ha sbagliato su tutta la linea; Sade non scrive pornografia.
Innanzitutto, se consideriamo l'origine semantica della parola vediamo che essa deriva dal greco "pernanai", scrivere di prostitute, verbo concettualmente declinabile in due sensi; o letteratura sessualmente esplicita devoluta alla eccitazione del lettore oppure letteratura commerciale mercificata, di struttura veloce e forma sciatta. Sade non rientra nella fisiologia di nessuna delle due prospettive; certo, scrive di prostitute, basta pensare alle narratrici de Le 120 Giornate, ma la funzione della Duclos e delle sue sodali, come è stato ampiamente dimostrato, diventa semplicemente lo smantellamento fisiologico dell'esercizio comunicativo. In principio fu il Verbo, recitano i testi sapienziali cristiani; e per Sade in principio fu la Parola, ma una parola sudicia, lorda, sporca di fango e sperma. Il rovesciamento prospettico sadiano è totale ed organico, pur mantenendosi all'interno della prospettiva meccanicistica che andava per la maggiore nel 1700; il suo è un ateismo di facciata, che ha bisogno di Dio, di un qualche Dio da insozzare. E Dio può essere raggiunto, e adorato o odiato, solo per mezzo di parola.
D'altronde Nietzsche, anni dopo, partirà proprio dalla filologia nella sua titanica opera di smantellamento della "metafisica" cristiana.
Nicoletti, nella sua prefazione a Le 120 Giornate di Sodoma, nella edizione Newton Compton, sottolinea che termine più soddisfacente sarebbe erotografia, una visione che mi sento di condividere non fosse altro che per la forte reminiscenza linguistica batailliana (anche se prendo le distanze dalle altre teorie di Nicoletti sull'opera di Sade).
Tuttavia, come ho scritto più volte, Sade non fu un letterato, ma un Penitente avvinto dalla personale ricerca di una sua interiore liberazione; il flusso brutale della sua opera si situa in un delicato punto di intersezione tra narrativa e dottrina religiosa. Come sottolinea Klossowski, il problema principale dei fraintendimenti cui Sade è andato incontro origina dal suo stile settecentesco apparentemente intriso di razionalismo enciclopedico e di illuminismo meccanicistico (palesi richiami alle dottrine di La Mettrie compaiono proprio ne Le 120 Giornate, quando conversando amabilmente tra loro i Libertini arrivano a parlare dell'orgasmo come concatenazione di stimolazioni neurali), un linguaggio che si è preferito lasciar relegato e chiuso nello scrigno del 1700; e che tuttavia se attentamente studiato presenta dei lati di interesse non comuni.
Innanzitutto Sade è uno scrittore estremamente morale; certo, di un moralismo swiftiano, crudo, crudele, paradossale, ma nessun lucido critico può osar negare che il Marchese non abbia dimostrato una predisposizione alla analisi dei comportamenti umani, dando un giudizio articolato e complesso. Sade dimostra di conoscere l'etica spinoziana, il dualismo tra realtà umana e Natura, la seconda infinita e costante, la prima limitata, castrata, dimidiata e ancillare rispetto alla seconda; i suoi libertini sono prigionieri di una entità assoluta, di una teologia di sangue ed escrementi che essi stessi scelgono e da cui sono scelti (essendone prigionieri).
La natura in Sade è una distesa infinita, che travalica la possibilità di comprensione; per questo i libertini si recludono nel castello di Silling, proprio per determinare e percepire il senso di una (artificiale) finitezza. Questo è un punto notevole; Deleuze ci si è interrogato sopra in modo indefesso, e partendo da Masoch che secondo me è il punto peggiore per approcciarsi a Sade. Tuttavia pone degli spunti interessanti il Deleuze, notando cose che effettivamente poi riprende Barthes; la condizione dell'innamorato, dice Barthes, è totalizzante come quella dell'internato a Dachau. Sade non era innamorato nel senso che si intende comunemente ma era prigioniero, dal punto di vista pratico e da quello spirituale, e come tale non voleva aprirsi orizzonti ma chiuderli, annientando tutto quello che trovava sul suo cammino.
Proprio come i suoi libertini autoreclusi a Silling, pure Sade trova la sua dimensione solo nella limitazione delle prospettive.
Sade è stilisticamente ridondante, prolisso e ripetitivo, esattamente come l'andamento di un mantra.
Si serve di una "materia" pastosa e caotica, spugnosa, che metabolizza spunti tra loro diversi che egli filtra per il suo proprio piacere.
Più volte, parlando e scrivendo di Sade ho richiamato l'esperienza degli Stiliti; una suggestione che suggerisce Klossowski quando "legge" Sade in chiave cristiana.
Mantra, stiliti, sofferenza, degrado, alla fine c'è un orientamento evidente che conduce in un tunnel sempre più scuro, in cui la suggestione religiosa si confonde col dato esistenziale; solo che mentre nella ricerca religiosa si perde il senso dell'ironia, nel sadico permane il profondo senso del divertimento che è appunto bagliore del suo piacere. Non a caso Sade ispirò ai surrealisti lo humour nero e Breton accluse con posto d'onore un lungo passo della Justine nella sua Antologia. In fondo, come diceva Cioran, "il male, al contrario del bene, ha il duplice privilegio di essere affascinante e contagioso". Semplicemente, il Male, oltre che liberatorio, dà piacere ed è divertente.
L'ironia in fondo è un esercizio che quando combinato col Male può produrre morale; si pensi a Le Sventure della Virtù, in cui la sfortunata protagonista dopo essere passata per indicibili tormenti, umiliazioni torture muore alla fine bruciata da un lampo, davanti agli occhi della sorella...c'è l'andamento tortuoso, e sinistramente ironico, di una parabola caricata di umorismo nero, da cui la sorella viziosa e pervertita trae l'insegnamento della punizione divina, dopo che la sua sorellina è stata arrostita da quella punizione stessa nonostante per tutta la sua esistenza si sia comportata come una sorta di Maria Goretti.

giovedì 9 ottobre 2008

Intolleranza


Mettersi a nudo è un esercizio di raffinata crudeltà di cui non tutti evidentemente sono capaci; per mille San Francesco disposti a denudarsi platealmente, senza metafora slegata dalle carni impinguite ben ben tra ozio e bella vita, purtroppo troveremo solo uno Zarathustra magistralmente collerico e pronto ad affermare che l’unico elemento degno d’amore nell’uomo è il suo essere transizione e tramonto. Gettare in un fiume vestiti e intenzioni di vita mondana è la via più breve verso l’accettazione della morale plebea, è la favola del Re Nudo invertita negli aspetti fenomenici ma rimasta uguale nel significato; non ci sono paramenti regali a celare la nudità, ma si sente puzza di santità, come un aceto rancoroso lasciato a marcire nel ventre della fogna. Ecco a voi la nudità della santità, che è essenzialmente fumo gettato negli occhi.
Nel santo nudo non c’è tramonto, ma solo un intermezzo di canti lontani e di sinfonie vicine; perché questo uomo che finisce col dirsi incredibilmente vicino a dio, è in realtà talmente calato nella sua parte di umano, talmente conficcato nella radice della croce, da aver perso di vista l’orizzonte sovra-umano delle idee. Ha accettato un dogma, e si comporta di conseguenza.
Avessero una dignità questi santi si affollerebbero sul Golgotha non per contemplare la carcassa del Cristo, lasciata a sanguinare tra corvi e spettatori divertiti, ma per guardare lontano, verso le linee infinite del prossimo giorno; e pietiscono invece le vesti sanguinose di Cristo, le vorrebbero indossare, così capiamo che si spogliano delle loro solo perché sono invidiosi di quelle indossate dal loro redentore.
Ma Cristo era più nudo del Re.
E a me poco importano i peccati emendati, i debiti rimessi e riconosciuti, le vie profane tra ulivi secchi e vermi e asini rinsecchiti, la voce del deserto, folate di vento caldo, orde di santi-zombies anacoreti poveri mistici andati lontano ma rimasti vicino, troppo vicino; verrebbe da dire che hanno scambiato la parte col tutto, ed invece di chiedersi cosa mai è il genere umano avrebbero dovuto domandarsi, una volta messi in marcia protetti solo dalla vera nudità, dove è finito il genere umano. Facendo riechieggiare il peso tragico della domanda sofoclea; dove fuggire e dove essendo fuggire rimanere?
Questi uomini, santi ma pur sempre uomini, laici o cristianizzati che siano, ci portano il verbo dell’uguaglianza; affermano che la nudità dimostra che siamo tutti inequivocabilmente uguali. Nati uguali, viventi allo stesso modo, morenti e morti nella stessa misura di disperazione. Hanno smarrito, se ma ne avevano un briciolo, il senso della assialità, guardano le stelle solo per orientarsi nel cammino notturno e non si pongono la delicata questione di raggiungere quelle stelle, lasciandosi alle spalle la plebe tumultuante. Non oltre-uomini, ma fallaci epigoni degli ultimi uomini, tentatori loro stessi inviati dalle potenze ctonie.
Io non ho rispetto per l’uguaglianza. Né per chi la predica. L’uguaglianza, semplicemente, è un cancro. Non esiste, non è mai esistita, non abbiamo prove che possa esistere; nel momento in cui uno afferma di essere uguale agli altri proprio con ciò afferma la sua differenza visto che impone questo suo giudizio di valore ad altri senza averglielo previamente chiesto. Spirito di sofferenza giacobino, e come tutto ciò che viene dal fondo di rappresentazione giacobino terribilmente ipocrita; l’uguaglianza tollera tutto fuorchè la differenza, esattamente come la mediocrità tutto tollera fuorchè il Genio.
Essendo profondamente anti-naturale, la democrazia, che della uguaglianza è l’istituzionalizzazione politica, predica la necessità dell’ammaestramento; “la morale dell’allevamento e quella dell’addomesticamento sono perfettamente degne l’una dell’altra quanto ai mezzi per imporsi: come massimo principio noi possiamo additare quello secondo cui per fare della morale bisogna avere l’assoluta volontà del contrario”, scrive Nietzsche ne Il Crepuscolo degli Idoli. La democrazia è la volontà popolare elevata sull’immaginifico trono della responsabilità governativa, si insedia un parlamento fittiziamente investito di legittimità e di sovranità, si spogliano i migliori delle loro funzioni e li si relega a paria di una forma istituzionale in cui solo il mediocre può contare qualcosa. Governo di “calpestati, miseri, falliti, malriusciti”, governo oligarchico che ha imprigionato chi può qualcosa ed ha elevato la schiuma, la bava putrescente della storia.
La nudità della democrazia, e della uguaglianza, è esattamente come quella di San Francesco; posticcia, plastica, artificiale, vomitevole. Pastori di anime e pifferai popolari, teorici delle moltitudine allegre, entusiasti delle migrazioni totalitarie e degli incistamenti sediziosi, banchettano sul cadavere della Volontà di Potenza da loro stessi avvelenata; in fondo, avendo smarrito l’anima barbara è persino inutile stare a chiedersi quali prospettive abbia questo genere umano intorpidito dalla vulgata dell’egualitarismo, delle costituzioni francesi e delle Bastiglie franate, smarrite le radici terribili e violente che sole edificano una razza dominatrice (Nietzsche, Volontà di Potenza), non resta ai pochi iperborei superstiti, scampati al furibondo ammaestramento, scegliere la Wildnis, la via della selva e attendere che gli uomini, gli uguali, si uccidano tra loro consumando l’olocausto finale.
Non sarebbe male che la televisione trasmettesse show di morte e di distruzione, una educazione spartana votata alla fine di ogni valore moderno; mostrare il volto decomposto di un morto come potente ammirazione, come via di fuga dalla metropoli-cattedrale della empatia. Aprire una finestra sugli olocausti del presente.
Con la balla dell’amore, il cavallo di Troia dell’uguaglianza ha vinto una battaglia decisiva; “mi sembra che siamo stati allevati come quelle bestie feroci che con astuzia calcolata vengono private dei loro istinti più profondi, per poterle picchiare impunemente con la frusta, una volta addomesticate. Così ci hanno limato i denti e gli artigli e ci hanno predicato l’amore! Ci hanno tolto dalle spalle l’armatura di ferro della nostra forza e ci hanno predicato: amore! Ci hanno strappato dalle mani la lancia di diamante della nostra orgogliosa volontà e ci hanno predicato: amore! E così semplici e nudi siamo stati gettati nella tempesta della vita in cui imperversano i colpi di clava del destino –e ci hanno predicato; amore! (Rainer Maria Rilke, Danze Macabre).
La vivisezione della forza, gli esperimenti nel labirinto-laboratorio dei sentimenti, hanno prodotto il torpore generalizzato, l’agonia di ogni spirito superiore, la stella sagittale del caotico titanismo non ha fatto altro poi che accodarsi alle esigenze restauratrici dell’ordine borghese.
Intendiamoci; il problema non è la mancanza di tolleranza, ma proprio la mancanza di intolleranza. La durezza deve raggiungere vette mai esplorate prima, spersonalizzazione e indurimento totalizzante, odio come unica ragione di vita per superare la linea del nichilismo e portarsi nel punto in cui si attacca, intolleranza per i deboli, per i vili, per i pezzenti dell’anima, per gli ipocriti, per questo mondo debosciato di sotto-uomini. Per tutto ciò che emana il fetore della democrazia, della fratellanza universale, della compassione.
Democrazia. Fango di fogna spacciato per soluzione e panacea di tutti i mali, abbrutimento delle arti e della creazione, necrosi del desiderio. In arte non esiste, non può esistere democrazia, come aveva ragione Ezra Pound; e la modernità invece, esaurite le avanguardie e le provocazioni concettuali, ha fatto credere che chiunque ha un talento nascosto, una qualche passione che sia degna di essere esposta pubblicamente e analiticamente decostruita da qualche critico prezzolato. Azzeramento della vita privata e del pudore, non di quello sessuale ma di quello spirituale, perché la mostruosità della mediocrità non dovrebbe avere diritto di cittadinanza, dovrebbe essere eugeneticamente cancellata. Per quale motivo dovremmo credere che nel concetto di “differenza” è insita pure la stupidità? Questo è quello che dicono gli stupidi, messi con le spalle al muro, all’ultimo metro di tavola sopra l’oceano in tempesta. Dovremmo fare loro la grazia, e spingerli tra le fauci degli squali. Avocando a noi la missione di pietra, quella missione propugnata dal giurista statunitense Holiver Wendell Holmes; troppe generazioni di ottusi, è venuto il tempo di sfrondare. E dalla radice questa volta.
L’ordalia risolutiva ci porta ad annullare tutti i sentimenti di trasporto verso i malriusciti, i quali non sono simili a noi, non sono nulla, non si pongono problemi, non fanno altro che vagolare istupiditi e drogati dalle chiacchiere politicamente corrette, temono e affossano il Genio, l’unica cosa che sono in grado di creare è un triste panico sociale per perpetuare il controllo delle istituzioni.
La vita, per noi, deve essere il libro che richiede solitudine e silenzio di cui parla Strindberg in Inferno, quel libro in cui è contenuta la formula rituale per il raggiungimento di un mondo nuovo in cui nessuno potrà seguirci. Ripugnanza per il prossimo e volontà irriducibile di liberarci da chiunque ci stia attorno, ecco gli unici veri comandamenti. Ma questa volta non ci sarà cespuglio in fiamme che tenga, solo il sibilo malinconico del vento che va a morire lontano.
Proprio come questo inutile genere umano.