venerdì 26 febbraio 2010

Tutto è male




Colpisce alla luce del giorno,
senza lasciare alcuna traccia.
Giovani o vecchie, le loro labbra sono sigillate
il segreto della loro morte non sarà mai rivelato.


Albert De Salvo

Come un sogno inespresso, come una promessa infranta, l'acqua cade dalla grondaia e fluisce in una pozza marroncina, proprio accanto ad uno stereo che rimanda, sinuose ed ellittiche, le note di Craig Armstrong, una pastosa ballata elettronica di raffinato romanticismo.
Crepuscolare. Dolce.
Sensuale.
In evidente contrasto con le parole che sentiamo echeggiare nell'aria, e coi suoni spezzati; tuo padre colpisce e ferisce e picchia tua madre, tu alzi il volume della musica sperando che tutto cessi, che tutto sparisca, inorgoglita dalla potenza espressiva, ti lasci cullare e trastullare, ma aldilà dell'onda di suono, aldilà delle pareti di carton-gesso, ecco le urla i pianti gli strepiti le richieste di misericordia. Tua madre non ne può più, ha paura per sè e per te, quale vita è mai questa, si chiede impotente, col fiato mozzato, le gambe tremanti e la faccia insanguinata, gli occhi pesti e gonfi come melanzane.
E' interessante.
Dico sul serio.
Ti ho prestato un libro su Lawrence Bittaker. E ti ho mostrato una password per accedere ai contenuti della Kinky thai, ti ho spalancato reami di cani che defecano e vomitano nelle bocche di tailandesi sperdute, giunte fresche fresche da villaggi dove la povertà e l'ignoranza le costringono, materialmente, a piegarsi ad un genere di abiezione che avrebbe reso edulcorate le fantasie di Ted Bundy, dobbiamo concentrarci sui capezzoli ritorti e maciullati dalle pinze di Bittaker, dal vano del furgone sporco ed invaso di attrezzi da tortura e la calura del deserto messicano uno scenario ocra di sabbia e vento, le montagne, ragazze rapite convinte con trucchetti di droga e celebrità a salire sul furgone, gite nel nulla tra pueblos argillosi e vette di sadico piacere.
Sadico, si.
Tuo padre continua ad occuparsi di tua madre. La lavora ai fianchi come un pugile esperto e consumato, mena di cinghia, con il tacco delle scarpe, non ne conosco il motivo ma non mi importa. Torno a concentrarmi sul flusso gentile di musica, sul tuo sguardo vacuo ed intontito e sulle mie divagazioni poetiche di violenza sessuale estrema e pornografia clandestina.
Ti dico; togli Craig Armstrong.
Esegui, velocemente e senza discutere.
Più confacente al momento Clandestine Blaze e le note gracchianti straziate di Icons of Torture, un incancrenito registro di modulazioni putrefatte, ed urla disumane sintonizzate sulla lunghezza d'onda di tua madre. Il guaito di una donna battuta.
John Douglas, e le panzane sugli snuff movies.
Roba di grana grossa buona giusto per stabilire la relazione intercorrente tra obesità e BDSM - continuo ad immergermi nell'insondabile carnaio patrocinato dalle pinze di Bittaker, i suoi disegni francamente osceni e divertenti, la sodomia imposta da John Gacy alle sue vittime poi convenientemente bruciate nella fornace e sparse sotto terra per ironia della sorte da un costruttore edile.
Aiko Koo, la sua graziosa testa staccata dal busto. E portata a zonzo da Ed Kemper.
La morte per tortura. Come giusta retribuzione.
Tua madre continua ad urlare, il pestaggio lento e scientifico va avanti, si protrae nel tempo, ci consegna emozioni incredibilmente soddisfacenti. Ti spingo, emotivamente, a cambiare ancora, dopo le prime canzoni, voglio Bizarre Uproar, masturbiamoci su ritagli di giornale e polaroid di ragazze sorridenti.
John Douglas, e le sue patetiche puerili giustificazioni. La coloritura metaforica per spiegare i suoi decenni di insuccessi; a volte il drago vince. Ma no, John, a volte a vincere sono quelle pinze che strappano lembi di pelle e di carne facendo fiottare il sangue, volti impauriti, impazziti di sofferenza e terrore, nessuna speranza di uscire vive da questo insensato loculo di depravazione sadica.
Il nostro nichilismo si nutre di silenzio e di lacrime - nulla che ci leghi alla condizione umana, se non il godimento di vedere esistenze infrante violate fatte a pezzi.
Eyehategod.
Ted Bundy brillante. Scatenato. Furibondo libertino, in grado di vincere la nebbia del suo passato e far esplodere le contraddizioni dei suoi accusatori, di quegli estranei al loro fianco, di quelle ombre che si incuneano nella metropolitana tra bestseller e lavori rispettabili e Kimberly Leach e ancora sludge e droga di ogni genere e tipo, gli spot contro l'abuso familiare, i cartelloni pubblicitari contro la guerra e contro i bambini soldati.
Il silenzio degli innocenti, il vomito e l'orrore mostrato, conradianamente, da John Douglas per convincere i suoi interlocutori, per far capire loro, sia pure solo in modo ancillare e servente, la drammaticità equivoca del delitto seriale. Non un circo di libri film figurine e campioni d'incasso e royalties, ma un mondo oscuro di famiglie piangenti e processi dolorosi con processioni di parenti sofferenti dolorosi e coi cuori infranti.
Nebula. Noise secrezioni e deiezioni di chitarra e voce catramosa. Tua madre sta male. Tossisce catarrosamente, invoca clemenza, una pausa ma non credo tuo padre sia intenzionato ad assecondarla. Deve proprio averlo fatto incazzare.
Annunci su internet. Consensualità. La chiusura di case di produzione sadomaso stimolano dibattiti sull'amore. L'ungherese Mood Pictures, la finlandese Radikal, l'americana Landslide. Una rotazione di sessualità sporca, corrotta, meravigliosa, da inserire in agenda per stimolare ululati di costernazione tra gli hippies col frustino.
Corrupted e Tsurisaki. Collage di vittime di killer, ragazze violate e stuprate e sotterrate in boschi incantati, non Biancaneve nè video posticci dei risibili Rammstein ma una più prosaica discesa negli inferi della consistenza dell'omicidio - un sogno, di tutti noi. Un plurale onirico di sangue e stupro e pelle scuoiata, e sadismo vero intenso non più tenuto a bada dalle parole di salvezza. SSC, la morte del piacere.
La corrispondenza di Albert Fish, questi frammenti di lettere incandescenti materiale altamente infiammabile Crowbar la sporcizia immensa di un destino segnato volti adolescenti di rumeni che chiedono l'elemosina protettori spietati e ragazze minorenni ingannate finite preda di gente senza scrupoli costrette a vivere in pollai incatenate al letto muoiono come mosche nei roghi non possono fuggire perchè le catene le tengono avvinte alla prigione tua madre le prende continua a soffrire nell'altra stanza in televisione qualche quiz da poco prezzo e sgambettamenti furtivi ho la sensazione che sia tutto finito.
Tutto è male.

La prima cosa che vedi





La prima cosa che vedi è la luce sparata dritta in faccia, calata dal soffitto, ti avvolge, ti cinge, ti impedisce di vedere con chiarezza i volti degli individui che ti attorniano famelici, questa luce recita la parte amorevole e sicura di una madre fin troppo indifferente, sei stesa sul tavolo da biliardo attorno musica hip hop vociare confuso rumore di stoviglie e di piatti e di tegami e di pentole odore di sudore di adrenalina di marijuana di tabacco pesante tipicamente sudista, il ghetto è fuori nella tenebra notturna tra insegne neon crepitanti come fuochi di plastica e le ultime stelle disegnate tra le scale anti-incendio, e questa luce scorreggia una sinuosa flatulenza bianchiccia di poca speranza, nessuna empatia, le slot machine e i Naughty By Nature e Necro ed i testi di violenza posticcia, gli uomini giocano con le tue grosse flaccide pallide tette di casalinga le plasmano le manipolano imitando scadente pornografia dozzinali esempi di scopate in digitale, bevono birra sangria calda vodka rhum whisky, il conforto del Sud e il fango e le tsunami urbane, come un treno poco illuminato lasciato a marcire sotto le assi della ferrovia una stazione due stazioni tre stazioni e poi via nel ghetto e nella down-town, le fisionomie povere i falò dentro i bidoni super-eroi proletari negri venditori coreani glicemia colesterolo dieta a base di crack e hamburger, dormono stipati dentro stradine nebbiose come una Londra vittoriana cantata da Grunt, le industrie le fabbriche i taxi gialli e le luci le luminarie le desolanti distese di case abbattute l’aeroporto l’acqua dell’Hudson una baia un ponte locali porno e peep show e club per mariti annoiati dentro cui sorseggiare Martini, una corsa terminata male.
Decisamente.
Non c’è mai un vero motivo per stuprare. Se non lo stupro stesso.
Dominio, forse.
Presa di potere. Irruenta animalesca brutalità concentrata nel giro di interminabili minuti, creazione di un grado purissimo di pornografia – sei diventata la loro Tralala, scherzavi, bevevi, ti facevi toccare giocando alla trasgressiva, alla disinibita, alla equanime amante dell’interracial, hai visto troppi film come Blacks on Blondes o Ghetto Rammers o altre tipologie posticce di umanesimo aggiornato ai tempi dei cazzi ipertrofici.
Adesso è troppo tardi. Decisamente.
Hanno fiutato il sangue, e non molleranno la presa. Sono impazziti, digrignano i denti, hanno le mani sudate e spugnose, si muovono in branchi scimmieschi, ballano al ritmo di 50 Cent, battono a ripetizione il cinque si passano di mano in mano canne e bottiglie di whisky e di birra fanno mischioni preoccupanti, se li guardi negli occhi non vedi traccia di compassione di empatia alcuna forma di carità o di pietà, solo una brama abissale, sub-urbana, fatta di una esistenza deprivata, inutile, noiosa, stereotipata, di crimini istituti correzionali per minorenni o prigioni di alta sicurezza colloqui con psichiatri depressione rabbia sorda e cieca e nessuna particolare felicità per l’elezione di Obama, lavori umili sfruttati sotto-pagati, parenti morti suicidi padri abusanti madri prese a cinghiate generalmente prostitute mogli da cui divorziare o da cui tornare a notte fonda soltanto per il gusto di prenderle a cinghiate davanti i marmocchi terrorizzati, nessuna considerazione per la donna, la donna come insieme di buchi da violare da scopare da fottere disperatamente in ogni orifizio.
Mi dispiace per te, ma non se ne andranno.
Non si accontenteranno di qualche offensiva palpata.
Non bastano le tette e i capezzoli eretti e le mutandine bagnate e la fica penetrata prima con le dita sporche e luride e poi dai cazzi più avventurosi. Alcuni sono nudi, altri hanno sbottonato le patte e ti colpiscono in faccia sui capelli sulla fronte coi loro cazzi prepotentemente eretti, continuano distrattamente a sorseggiare birra e variegati alcolici assaporando il loro turno, non sai quantificarli, hai troppa paura per articolare ragionamenti che vadano oltre la tua mera sopravvivenza.
Un’esplosione di violenza. Insensata potrebbe dire qualche solone della televisione, ma la violenza ha sempre un senso. Il gusto acre, raffinato dell’abuso – guarda gli altri avventori, guardali fermi immobili cristallizzati come statue di cera, bevono parlottano di tanto in tanto ti rivolgono delle occhiate perplesse e non capisci se qualcuno stia formulando il pensiero di aiutarti o se invece si tratta di mera invidia per i negri che ti stanno scopando.
Sei coperta di sangue, sudore e lividi. Qualcuno ti ha colpito forte sulla bocca, rompendoti un labbro ed ora sanguini, senti il sapore metallico del sangue scenderti sulla lingua, mentre un cazzo enorme sudato sporco e con la cappella di dimensioni sproporzionate si fa largo tra i denti la saliva e il sangue e ti penetra la bocca con estrema foga, disegnando un grottesco makeup di sperma e liquidi umorali sulla tua faccia. Qualcuno ti fotte nella fica e nel culo, senti un dolore fortissimo, fitte e scariche, vorresti la smettessero ma non puoi parlare, non puoi parlare perché hai quel cazzo saldamente piantato in gola che ti impedisce di parlare, puoi solo emettere dei gorgoglii strozzati da troia al macello.
Stai piangendo. Singhiozzi. E la cosa aumenta il loro piacere.
Li senti scherzarci sopra. Le lacrime della puttana bianca. Eccoti l’amore del ghetto, la trasgressione di una sera diversa.
Hai mai visto i film privati di Jamie Gillis?
Ne dubito, ma se lo avessi fatto sapresti che questa massa sbavante ed urlante di poveri idioti non ha un suo motore universale, agisce preda di disarticolati impulsi sessuali – non vere voglie da soddisfare, ma solo un trofeo da esibire.
In The Humiliation of Heidi, Jamie riveste il brillante ruolo di un carnefice alle prese con la piccola, magra Heidi, una meticcia verosimilmente tossica con piccole tette e una intensa propensione al dramma morale: Jamie la lega, la frusta, ma soprattutto distrugge la sua personalità con un sapiente uso delle parole. Ogni sua parola è infatti accuratamente selezionata, gioca con le pause le attese con i singhiozzi della piccola ma non tanto innocente Heidi, affossa la sua autostima, la priva persino della rassicurante autoconvinzione che ogni porno starlette pone a fondamento della sua sopravvivenza nel business, la convinzione cioè di essere una attrice. Non c’è spazio per la finzione nel mondo di Jamie, e a differenza di questi negri sottoproletari che agiscono spinti e guidati e tiranneggiati dai loro cazzi, lui sa quel che sta facendo.
Sa premere i giusti bottoni, percorrere i sentieri che meglio di altri rivelano la consistenza debosciata della povera Heidi – senti gli schiocchi crudeli del frustino, la pelle striata blu di lividi come quella di una madre percossa i processi le cause di separazione e di affidamento dei figli, i film di Jamie e le foto di Donna Ferrato e di Vera Anderson e di Nan Goldin, volti butterati gonfi di farmaci e di droga e pestati a sangue da fidanzati e protettori e genitori e mariti figure patriarcali devotamente ancorate al canto assoluto dell’abuso, senti quei colpi menati duramente, senza sosta, senza tregua e pensi all’ipocrisia del mondo, alle favolette, al pianto dirotto e cianotico di Heidi, alle sue miserande invocazioni di pietà, alla richiesta di misericordia e dove non arriva con strepiti urla e parole ecco i suoi occhi colmi di lacrime e lucciconi, ma Jamie è giustamente indifferente e continua a punirla come si conviene.
Che cosa credevi? Questo è un film porno!
Le urla in faccia, tanto per schiarirle le idee.
Da giovane lessi a Sangue Freddo di Truman Capote e mi dissi che avrei dovuto leggere solo roba come quella, dichiara Peter Sotos.
Un’ossessione è una guida formidabile.
Questi negri sono ossessionati, mentre ti scopano in ogni buco. Mentre ti fanno urlare e piangere e disperare e mentre, concretamente, stanno rovinando la tua vita.
Un’ossessione si traduce nei colloqui con lo psichiatra, che dovrai sostenere una volta terminata questa esperienza. Nelle morbose sistematicamente reiterate domande di giornalisti procuratori distrettuali femministe amici avvocati della difesa, tutti segretamente convinti che te la sia cercata.
Domande come:
cosa ci facevi a quell’ora in quel posto?
Perché una donna come te non sta a casa col ragazzo?
Quanti cazzi ti hanno penetrata?
Hai goduto?

Sai già che sarà un calvario, una insopportabile via crucis di flash fotografici e domande sconvenienti, poste ovviamente soltanto per capire meglio la dinamica dell’accaduto. Questo è quel che dicono. La menzogna suprema.
Un’ossessione che ti cresce dentro. Che ti porterà alla ospedalizzazione coatta. Ipocondria; aver contratto qualche malattia, qualche bacillo infetto di una morte-in-vita che sballonzola tra globuli rossi e bianchi. Paranoia; essere seguita, pedinata, aver terrore che tutto questo possa accadere di nuovo.
Dovrai convincerti di essere speciale, e sperimenterai un grado di solitudine tale da ucciderti ogni giorno e farti rinascere per poi ucciderti ancora, una cento mille volte, tagli inflitti con metafisici coltelli e vetri infranti e frammenti di follia, una vita indegna di essere vissuta, una vita grigia condotta solo per ossequiare la pigrizia fisiologica del non farla finita.
Sappiamo tutti la verità.
Sade la conosceva.
E così Capote, Foucault, Jamie Gillis. Westley Dodd. E Dutroux.
Selby jr. ci è andato vicino.
Ma tu ora ci sei dentro del tutto. E’ inutile che cerchi di autoconvincerti di essere diversa, unica speciale, perché davvero fidati non lo sei, una via di fuga non esiste, resterai per sempre piegata distrutta dal ricordo crudele di ciò che hai patito e sofferto e mentre il taxi che ti porta a lavoro scorre lungo la strada tra i grattacieli e il rumore sordo del traffico e i clacson e le imprecazioni di predicatori millenaristi, mentre guardi con apatia le mura grigiastre istoriate di graffiti i locali i ristoranti i parchi e poi sopra il cielo nascosto oscurato dalle antenne dalle tettoie dalle grondaie dalle sagome imponenti dei grattacieli, mentre ti chiedi perché sia capitato proprio a te formulando una risibile cosmogonia di ingiustizia universale, percepisci la rottura del tuo spirito, della tua anima, smetti di essere umana, una persona con i suoi sogni e le aspettative e le prospettive, l’orizzonte si chiude a riccio si rinserra in assetto da guerra per una strenua difesa di autosopravvivenza.
Ecco.
Quella violenza subita ti perseguiterà. Ti ossessionerà nei rapporti con capi di lavoro, amici, colleghi, amanti. Non sopporti già adesso l’idea di un sesso, di un cazzo da leccare da succhiare da adorare. Di farti scopare.
Provi nausea, disgusto, un insondabile arcigno senso di asfissia. Le giornate si faranno tutte uguali, tutte prive di felicità. E di amore.
Amore.
Se ci pensi sopra, ti sembra quasi impossibile averlo provato in passato.
Ti domandi, piangendo e mentre il taxista corruccia la fronte in una espressione interrogativa, dove è finita la giovane te, dove è evaporata quella ragazza che sapeva essere felice con una vita piena e soddisfacente, dove è andata?
I volti bianco/nero, ritagliati dai giornali, di Channon Christian.
Tiffany Long.
Emily Rimel.
Sorridono graziosamente in espressioni sgranate dai pixel. Sommi accatasti dentro casa in cassetti e sugli scaffali libri sullo stupro sulla violenza urbana sul delitto seriale, il tuo unico conforto diventa la voce lontana e gracchiante di qualche anchor-man, di qualche presentatore sensazionalistico voglioso di avere materiale per storie intrinsecamente pornografiche.
Un dolore che non passa.
Che non tramonta.
Che non finisce. E mai finirà.

giovedì 25 febbraio 2010

Prima che il gallo canti


Quante volte hai venduto tuo figlio?
Mentre guardo quel ragazzino di circa cinque, sei anni, nudo, denutrito col volto sporco di fango, i piedi callosi, escoriazioni lividi e malattie della pelle a completare il quadro morfologico della sua non-esistenza, mi accorgo che in realtà penso a te, madre.
Una donna inutile, vestita in maniera disgustosa, sei una squallida cicciona, alcolizzata, il volto rubizzo e paonazzo, puzzi da far schifo di sudore e di alcolici da poco prezzo che ti fai regalare dal parroco nel nome della carità universale del dio dei malriusciti.
Il tuo dio, senza dubbio.
Lo preghi instancabilmente con la tua fica purulenta, con le tue braccia lardose, penso a tuo marito, a quel fallito che ti siede accanto bevendo birra, barbona incolta che gli copre le labbra screpolate, pessimi tatuaggi da galeotto russo senza traccia di estetica sulle braccia sul collo quello zuccotto nero è lercio quasi marrone a furia di raccogliere pelle morta e terra e salsedine - il tremolio cigolante di un furgone rumeno fa da colonna sonora, poche e dimenticate le onde del mare sporco di petrolio aldilà della barriera di scogli eretta dalla Protezione Civile.
Che cosa hai da dirmi?
Non posso far altro che pensare a quanto tuo figlio debba ritenersi sfortunato ad essere stato cacato dalla tua lurida malata sotto-proletaria fica di matrona oscena, quanti cazzi di pedofili deve avere assaggiato per tua schifosa volontà, per riequilibrare il menage ed il bilancio familiare durante le reclusioni di tuo marito, non avete parenti e forse, probabilmente secondo me, siete pure consanguinei, abbrutiti come minatori del 1800 americano tutti fottuti tutti legati tra voi in mille rivoli di degenerazione molecolare e genetica. Siete disforici, nonostante non sappiate cosa sia la disforia.
Protestate urlando, una casa viene giù - vivete e vivevate nella fogna dei buoni sentimenti, casotti di eternit cancro abitativo innestato nelle vostre cellule organiche nella vostra sporcizia lumpenproletariat schifata persino dal troppo alienante Marx, avete rivendicazioni confusi slogan abborracciate richieste di pessima grammatica e insano realismo politicante, insulti rivolti a tutti, non a voi stessi, voi stessi...Guardate qui, in questa pozza di acqua melmosa, non troppo scura tuttavia, riflette il cielo azzurro di una particolare bizzarra giornata invernale, calda, afosa, battuta dal vento salmastro, in lontananza Fiumicino e se giri lo sguardo il porto di Ostia, qualche brughiera di casupole pescatori e storie di marane pasoliniane.
Non c'è tempo da perdere nel brulicare di divise, la parola "deportazione" urlata in maniera mantrica e convulsa, assessori, politicanti, tecnici, funzionari, si affannano tra politiche abitative fallite vane promesse e lo spettro poco demagogico delle elezioni prossime venture, l'aria è tesa carica di energia elettrica alzate le mani per evitare di finire garrotate dall'eccessivo dispiegamento di potenza militare, antisommossa pronta a menare le mani, si stabilisce un contatto umano.
Siamo tutti esseri umani, dice il prete - come se l'essere umani fosse un valore assoluto.
Come se esistesse una qualche compassione da dover accordare ai più sventurati, per il solo fatto della loro vera o presunta sventura.
Il prete è una figura perfettamente in tema con lo scenario, Zapata con la tonaca scarafaggio finito ai margini dell'universo ecclesiastico povero lettore del Vangelo analfabeta del Dio degli Eserciti e dei Popoli divorati dalla spada e dal fuoco che punteggiano le narrazioni brutali dell'Antico Testamento, lo vedo fumare un sigaro con una sciarpaccia multicolori rappezzata e falsamente risistemata da qualche pietosa mano di suorina con la missione della redenzione ficcata in mente. Lo Zapata fuori tempo massimo conduce alla battaglia di resistenza passiva con le mani alzate e il pianto cacciato fuori da madri senza sentimenti e da balordi dimenticati da qualunque legge sociologica, lo scontro è impari ed allora non gli resta che frignare. Ciò che sa fare meglio.
Cammino stancamente nel fango, e tra le mille pozze, cercando di mantenere un equilibrio comunque precario tra i falò, le ceneri, le acque di fogna e i miasmi putridi di cani morti in avanzato stato di decomposizione e i nugoli di bambini nudi e scalzi che saltano su carcasse di auto e di barche, il mare è oleoso punteggiato di chiazze di petrolio, uno scatto di Sebastiao Salgado in presa diretta, i corpi deboli rachitici, oppure gonfi di droga e costipazione, fisica, spirituale, sociale, morale. Non c'è redenzione per questi reietti, sono fuori da qualunque ipotesi di riconduzione all'umanità.
Il prete scuote la testa. Il suo dio oggi fa sciopero.
Raccolgo da terra un'ascia e gliela mostro, proprio mentre un pallone bucato mi ruzzola al fianco spinto maldestramente dal calcetto di un moccioso col volto incrostato di dio-solo-sa-cosa. Donne si bucano di eroina accanto a cani meticci pulciosi e carichi di zecche, e sempiterni bambini usati come scudi umani. Qui Beslan deve essere proiezione di un asilo nido da paradiso.
Il prete si rinserra nelle spalle. Come a dire, cazzo vuoi da me?
Voglio. Prete.
Voglio che tu capisca quanta merda questi insetti patiscono ogni giorno, quanta ne devono ingoiare. E devono pure, secondo te, dire grazie al cielo infinito oggi azzurro ed immobile, giusto solcato dalla scia fumosa spugnosa sagittale di qualche aereo.
Un brulicare di insetti, larve, topi, cimici e blatte, dentro e fuori le case, qualche fuoco avvizzisce, rappresentanti di comitati spontanei si accapigliano bestemmiano (il prete non sente o fa finta di non sentire), bambini venduti languidamente ci vengon spacciati come amorevoli frutti di altrettanto amorevoli madri, padri galeotti in libera uscita dalla dignità fumano crack mentre rumeni e rom spingono carrette da vera deportazione stipate di paura ed effetti personali che catalogo mentalmente per non finire preda della noia.
Ora, bevo caffè; issato su uno scoglio, guardo verso la torre di San Michele, è la seconda puntata della desolazione morale in cui sono finito ad operare.
Non c'è futuro, davvero.
Non hanno speranza di futuro.
Sono tutti morti, che camminano e protestano e inveiscono. Capannelli spontanei di donne tatuate e vecchi incartapecoriti e sommesse richieste di aiuto.
Cosa faremo?
Dove andremo?
Cosa ne sarà di noi?
Non so rispondere.
Non mi importa rispondere.
Progetti di nebulosa riqualificazione urbana vengono recitati con scarsa convinzione da funzionari comunali e caritatevoli esponenti dell'emergenza abitativa. Ricorsi al TAR scanditi da accenti moldavi, la proletarizzazione delle aule di giustizia, perchè tanto siamo tutti uguali davanti alla legge, tutti inesorabilmente perdenti.
Qualcuno, accanto a me, guarda il mare placido e fuma una sigaretta. Il volto corrucciato, qualche scrupolo, rimorso di coscienza.
Tu, donna, eccoti di nuovo, hai arringato un comizio di pura violenza verbale, il prete cerca di calmarti, anche lui, anche lo Zapata col colletto bianco e nero sembra sconvolto dalla tua eccitata e frustrata irruenza. Ne hai per tutti.
Per il sindaco.
Per Dio.
Per me, molto modestamente.
Mi rivolgi occhiate cariche di odio. Ma sappi, e non lo dico per deluderti a posteriori ma solo per cronaca, che mi sei del tutto indifferente.
Irridi le proposte, in effetti ridicole, di riqualificazione e di parchi intitolati alla memoria di Pasolini, un pedofilo un pedofilo perdiamo la casa per colpa di un pedofilo di merda, continui a ripeterlo anzi ad urlarlo scandendo le singole lettere che compongo il "pedofilo" di modo che ciascuno di noi possa comprenderlo ed interiorizzarlo.
Pasolini rinnegato dalla sua stessa gente. Dall'oggetto del suo segreto ed occulto desiderio, quella massa nera informe e deforme di abisso popolare, che ora rimesta rimescola ulula e strepita, e sputa sulla sua tomba. Che in linea d'aria non so disterà cinquecento metri.
Un uomo, esaltato dal mantra della donna, invita a cacare sulla stele commemorativa del poeta. Un altro, con cinico ma convincente esercizio di umorismo nero, fa notare che al poeta magari non sarebbe dispiaciuta una manifestazione di affetto escrementizio.
Lo scenario vira surrealmente in una battaglia cacofonica di insulti contro Pasolini. Coretti mutuati dalle gradinate degli stadi per infangarne la memoria, per rinnegarlo nel modo più brutale possibile. Trovo il tutto una dimostrazione di quanto le utopie socialmente redimenti siano intrinsecamente sbagliate.
Le urla proseguono, fino a quando la noia torna a vincere le proteste. Mi siedo su una sedia rimediata prima dell'abbattimento di una baracca e mi siedo a contemplare il mare.
Alle mie spalle, tanta merda. E da qualche parte la carcassa di Pasolini.

In sangue e solitudine - il processo di Gilles de Rais





Fucking impale me on your prick
Master
Fucking break my back
Gilles de Rais
Fucking make me scream
Fucking need your prick
Burn me
Kill children
Fuck them
Gilles de Rais



WHITEHOUSE, Gilles de Rais

Il lamento di una madre è un insopportabile stridore.
Il lamento di trecento madri diventa sinfonia celestiale per le sue orecchie annoiate, ormai abituate al nulla immoto e adorno di sete del ventre di questo castello.
Gilles de Rais, il più grande mistero della storia criminale; capace di incutere timore anche in questa nostra disgraziata epoca di true crime da edicola, Picozzi, Lucarelli e giochi di ruolo con e per serial killer (in potenza), tra visioni distopiche e cupamente gotiche e tinozze di sangue e masturbazione e atti processuali divorati col candido alibi della specializzazione forense e le case editrici con politica editoriale devoluta all'eccitazione fisica e morale e sessuale di casalinghe ingorde di club privè e teste spaccate.
Gilles, il Santo, il Massacratore, l'ombra lunga e tremendamente gotica che si stende sul Medioevo, con quella cotta di maglia scintillante d'argento tra i bagliori delle candele, sinuosi arabeschi di ragazzini violentati, torturati e fatti diventare macelleria in estasi perenne, trasfigurato Gilles mentre li penetra mentre li viola mentre li nullifica in uno scenario d'inferno. La magia nera, le ossessioni voluttuose, la lussuria di coltello e sangue, tante paranoie e la campagna, di guerra e da coltivare, ultimi tramonti di un mondo che si espande e che proprio per questo muore, chierici, ciarlatani, alchimisti, satanisti, ritrovi sabbatici di streghe e ritorni spermatici di immagini votive prima che Peter Kurten venisse.
Ci disperavamo, andando di bancarella in bancarella, di biblioteca in biblioteca, per reperire qualche residua magari malmessa stropicciata copia del capolavoro di Bataille, Il Processo di Gilles de Rais, le pagine piegate ingiallite dall'odore intenso e pungente di polvere accumulata, nell'inferno degli scaffali a consumarsi a decomporsi come le legioni di corpi massacrati dal Nobile Compagno d'Armi di Giovanna. Qualche timido accademico appunto vergato a penna da tremolante e tremula mano indecisa di studente troppo piccolo per potersi adeguatamente confrontare col piacere assoluto raggiunto da Gilles; infinitesimale particella di curiosità da studioso o voyeurismo aristocratico, malmesso nel fisico, deprimente e depresso, un anno fuori corso due anni fuoricorso i dischi dei Cradle of Filth e la debauche decadente ma senza Verlaine perchè Verlaine è troppo difficile. Il che non fa una piega.
E proprio una piega deleuziana prende questo clamoroso ritorno sulla scena de Il Processo, messo in libera uscita dalla Guanda, dopo un silenzio abissale e troppo lungo; spirito dei tempi, remix di passioni incoffessabili ed esibizioni funeste di nichilismo da salotto televisivo, è giusto pur sempre che una casa editrice faccia felice il palato del pubblico. E che sparga copioso il seme della depravazione qualitativamente eccelsa.
Perchè, di piega in piega, il dispiegarsi degli eventi ci è tradotto da Klossowski e narrato/commentato da Bataille, in un crescendo sadiano, erotico, mortale di depravazione, potere e morte - libro che ebbe influsso ed influenza sul crepuscolare Salò pasoliniano, per espressa menzione del poeta di Casarsa nell'intervista rilasciata al Corriere nel marzo 1975 (Il sesso come metafora del Potere), giusto quindi pochi mesi prima di finire frollato all'Idroscalo di Ostia con lo sperma di Pelosi sulla bocca e le mutande calate, prefigurate junghianamente nel Petrolio.
Ogni vita è un frammento.
Alcune, semplicemente, meritano di essere ricomposte e narrate. Così è stato per Pasolini, così è per Gilles, figura surreale, surrealista e sadiana per eccellenza. Un conglomerato borbottante e luminoso di apocalisse ed eclissi di potere anarchico, abusante, ritorto e contorto, spezzettato, fluttuante, un serpente tentatore con l'unico fine di godere, di tornare a brillare di qualche luce dimenticata nelle terre desolate.
So che questo ritorno non è casuale.
So che questo libro è un capolavoro.
So che questo libro non è per i molti.
Le casalinghe stiano a casa, questa volta.

sabato 20 febbraio 2010

In morte di un Re





Jamie Gillis

April 20th, 1943 – February 19th, 2010

sabato 13 febbraio 2010

Un giorno che non finisce


Nel bagno pubblico tra graffiti spruzzi di merda liquami di piscio e muco, e scritte coi pennarelli tentacolari conformazioni alla ricerca di cazzi enormi e pompini da autogrill notturno, le direttrici del desiderio per Roma e attraverso Roma sul Raccordo coi lampioni dalla luminescenza arancione, cespugli pinete laghetti con risacca riverberata ed echeggiata dal vento e il palazzo delle Esposizioni ed il Fungo ed il Palalottomatica e le macchine che si scivolano addosso coi fari puntati in faccia, la solitudine metropolitana di chi non ha nulla di meglio da fare, peep show isolati fuori dal centro cittadino club privè per disperati filosofi dello scambismo e sadomaso timido occhieggiante silenzioso e gentile, delicato come un petalo di rosa, raffinato e politicamente corretto - annunci su annunci, scritti senza soluzione di continuità, millantando incredibili abilità amatorie, appuntamenti ad orari improbabili, cazzo taurino, nessuna complicazione sentimentale, ma è così difficile trovare una donna, una donna sintonizzata sulla stessa frequenza delle voglie proibite dell'uomo, una donna che al diavolo il frainteso senso di sciovinismo sessuale si faccia scopare come nei migliori film porno.
Migliori per questi imbecilli, ovviamente.
Migliori per chi non ha di meglio da fare e da guardare.
Migliori per chi crede che Tawana Brawley sia stata stuprata davvero, e la compatisce e la riverisce e la blandisce con delicate pacche sulle spalle e amorevoli menzogne di amore universale; rifriggetevi pure le vostre balle, le illusioni di una calda notte d'estate quando stavate sbracati sulla sabbia a fumarvi una canna intonando canzoni reggae davanti ad un falò, con la fiamma a rischiarare il nero tutto attorno.
Il vostro sesso è nulla. Come le vostre relazioni precipitosamente imbastite.
San Valentino, e Ian Brady.
Un film porno con Milly D'Abbraccio, ed il passamontagna di Ted Bundy.
Complessi edipici, sbronze con alcolici da poco prezzo, le lacrime disperate da camerino di strip club ed i pompini di camionisti e tra camionisti. La confusione miserabile che si esaurisce nel fragore di una eiaculazione mutila, quando lui è aggrappato alle sue natiche alle sue tette di stupida vacca e pensa intensamente non all'oggetto della sua scopata da poco, non al suo estemporaneo qui ed ora, ma al braccio di Arthur Shawcross, a quel genere di strangolamento senza bacino finale e senza safeword, pensa al corpo della puttana stramazzato a terra, gonfio, bluastro, con la bava alla bocca, pensa al rantolo disperato, alla presa di coscienza, al dolore, alla ricerca di un pò d'aria ma quel braccio è d'acciaio fortissimo e la prende cementificando le dita e la mano e il solido avambraccio, continua a pompare con foga il cazzo nel suo culo e prosegue la fantasia, pensa adesso al cadavere rinvenuto tra canne lacustri e ai lampeggianti della polizia e alle indagini e al supremo grado di godimento.
Ogni vero film porno dovrebbe cominciare con un omicidio.
Invece il senso estetico e sessuale di questi camionisti della trasgressione, di queste casalinghe di cui leggi gli annunci in serie, di queste obese casalinghe disperate rinate dopo estenuanti ma incomprensibili epifanie come Domine, non va oltre la mascherata e patetica ricerca di un amore, di una relazione di coppia nascosta sotto il tappeto delle pretenziose formule come "slave & master", "sottomissione" e persino Bondage.
Ogni film porno, ogni buon film porno dovrebbe contenere un grado talmente elevato di violenza da lasciarci a boccheggiare, fermi, immobili, col respiro mozzo, a chiederci "o mio dio o santo dio cosa abbiamo mai fatto? Cosa abbiamo mai visto?", quel genere di domanda profonda, abissale, incredibilmente focalizzata sul desiderio, e sulle nostre pulsioni. La classica domanda su cui masturbarsi tutta la notte.
Hanno bisogno, da veri umanisti filantropi, di credere che Tawana la piccola docile matta negretta sia stata stuprata da un branco di osceni e nerboruti poliziotti razzisti, hanno bisogno di vedere dietro questa storia di tipica idiozia americana un esempio di cattiva sociologia e di "società dello spettacolo", non vedono e non capiscono che il vero godimento sta nell'idea del trauma, della pazzia, della sconvolta lucidità con cui la ragazza ha messo in atto la sua sceneggiata, il sangue, lo sperma, i lividi, gli escrementi, le scritte razziste, le giurie popolari, i suicidi di poliziotti, le cause di risarcimento, la morbosità dei mass media, la conversione religiosa.
Una Domina appassionata di Paulo Coelho incontra uno slave fan di Ammaniti - la violenza è in ogni cosa, ma non in questo mondo purtroppo. Hanno bisogno di credere che una videocamera accesa sia pornografia, che uno sputo diventi dominazione, che una parolaccia sia umiliazione.
Dovrebbero, semplicemente, comprarsi un dizionario e dare una rapida scorsa alla parola "sadismo" - dovrebbero smettere di mandare lettere a Massimo Picozzi, di appassionarsi agli stupri di Luca Bianchini e cominciare a diventare coerenti.
Milly D'Abbraccio ha una parola di conforto per i suoi fan, la vediamo bella e statuaria e altera mentre al Mi-Sex firma autografi bacia pingui occhialuti e regala copiose dosi di "trasgressione", è circondata da poster che la immortalano inculata da mufloni di provincia e in esotiche gang bang con qualche pretesa di artistica ricostruzione storica, Milly sorride con quel sorriso vuoto ed inconsistente di ogni pornostar, poi compare il negro, non è un fan e lo capisci subito, è un pornoattore spacciato per fan con lo stesso successo con cui si potrebbe spacciare Chikatilo per il professore dell'anno, si apre un varco tra i veri fan tra quelle nullità che fanno a gara a farsi spennare il portafogli pur di avere una foto accanto alla loro pornostarlette preferita da esibire poi al bar quando le chiacchiere sulla campagna acquisti del Milan o della Juventus, o altri argomenti di simile spessore, sono esaurite e si paventa l'orrida prospettiva di dover dire qualcosa di persino intelligente - la scopata tra Milly ed il fan posticcio, il negro dal cazzo lunghissimo ma fino all'inverosimile, sottile come una lisca di pesce, avviene convenientemente in un motel giusto fuori la sagra del sesso, lontano dai palati buoni dei fan.
Questa sarebbe pornografia?
Cosa c'è di pornografico in una sequenza risibile, stereotipata di cliche e luoghi comuni.
Ho bisogno di altro. Penso ad altro. Voglio, disperatamente, altro.
La testa frantumata di Kimberly Leach, il suo corpo violato torturato fottuto in ogni orifizio da Ted Bundy; i legacci, le corde, le pinze, il martello, le riviste porno come surrogato di un'azione più grande. Il nesso di causa ed effetto che solo le femministe ed i veri pornografi comprendono fino in fondo. Non c'è alcuna speranza di cambiare le cose, adesso; è troppo tardi.
Per troppo tempo siamo stati dietro alle umanistiche panzane, al determinismo hippie di chi ha voluto dipingere la pornografia come un paradiso di coccole e baci in bocca.
Ma dove sono lo sperma, gli stupri promessi e raramente mantenuti, le ferite senza speranza di guarigione, le vere lacrime, i visini brutalizzati, la droga nei backstage, i problemi mentali, le carenze emotive, i colloqui con gli psichiatri, la perdita di un figlio e ,auspicabilmente, un suicidio ?
La funzione politica trasgressiva del porno - chi ha davvero bisogno di queste cazzate?
Un camionista non sa, acquista vende e permuta esistenze devastate, la sua confusione di fallito esistenziale di poca complessità, i video di stupri, i rough castings di Vince Banderos il porno proletario delle banlieu, le epopee spermatiche in pubblico di Rodney Moore, e la merda fatta ingoiare a qualche balorda starlette da Jamie Gillis. Segue i suoi impulsi primari, fatti di sordide richieste, ricatti monetari e confusione totale.
I sedicenti esperti di porno dovrebbero guardare On the Prowl, ascoltandone i dialoghi e le articolate richieste, invece di catalogare il tutto sotto l'avvilente scontata e sconcertante etichetta "gonzo" - Gillis Debord e McLuhan, certo, da dietro la videocamera a guidare pompini celebrati nell'anfratto cavo di un sex shop californiano, ventri cadenti privi di fascino e una pornostar con le ombre del trucco a celare l'uso smodato e paranoide di cocaina, rivelando la sordida consistenza della vita al giorno d'oggi, laddove basta la promessa di una scopata squallida veloce e poco gratificante per far perdere dignità.
Jamie è un genio. Raramente celebrato, messo da parte, criticato, ostracizzato.
Proprio come Ted Bundy.
Bundy e le confessioni sul porno.
Sugli alcolici.
Sulla necrofilia.
I praticanti intellettuali del porno hanno così poca intelligenza da doverci annoiare con rivoltanti balle tutte a base di schemi infranti, catarsi, demoni interiori e figure ellittiche, quando invece basterebbe stilare la classifica delle vittime di Ted Bundy e rimanere sul letto a masturbarsi pensando ai colpi di martello con cui quelle teste sono state spaccate, in un tripudio di sangue e materia grigia poltiglia spugnosa da mollusco.
Il porno, in fondo, è tutto qui.
Basta scegliere da che parte del martello stare.

lunedì 8 febbraio 2010

Con questi frammenti






Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
T.S. Eliot, La Terra Desolata

Per qualcuno, un angolo di paradiso.
Per altri, molti altri, uno squallido squarcio di degrado urbano – segmento di terra, asfalto, pineta, tronchi cavi e buste di plastica, a delimitare il perimetro che sorge a poche centinaia di metri dal mare, un mare che la selvaggia cementificazione ha reso una illusione.
Quando hai smesso di poterti dire un essere umano?
Quando hai acquistato quel genere di drammatica consapevolezza?
Guardati.
Sei praticamente nuda. E potresti essere mia madre; tessuti adiposi in eccesso, trucco sfatto a celare capillari rotti, alcolismo, leggeri flirt con la droga e penitenze e pestaggi educativi di qualche pappone i cui guadagni sono ormai inversamente proporzionali al’avanzare della tua età – il documento, testamento anagrafico di sogni e speranze, non so per quale motivo tu sia venuta qui e non mi interessa, non amo i pompini sociologici, le scopate statistiche e gli approfondimenti anali, il documento ha appiccicata una foto di una te felice, curata, vestita bene, sorridente, in posa, lo prendo e lo guardo come se stessi contemplando la migliore opera d’arte del mondo, attorno sfrecciano le macchine, fanno finta di essere tutti affaccendati nei frenetici e caotici ritmi della loro vita, le loro vacanze, le loro rate per il mutuo, il loro leasing e le finanziarie e i problemi di salute del figlio, e voi puttane adesso cessate di esistere, di rappresentare la comoda valvola di sfogo per lenire insopportabili frustrazioni sociali, sfrecciano in macchina ascoltando la radio le felici chiacchiere per l’ennesima vittoria della Roma o la classifica dei singoli maggiormente venduti o le metafore di Avatar.
Voglio davvero tu perda un po’ del tuo, non so quanto, prezioso tempo per capire quanto in basso sei scesa, un rapido raffronto con la foto del tuo documento suggerisce la linea evidente del tuo abbrutimento, la discesa nel baratro, sparata come un proiettile di fucile – la tua esistenza è funzione del sesso promiscuo e bestiale che clienti disperati, confusi, emotivamente deprivati, comprano, di queste scopate animalesche tra le fratte.
Bisogna stare inchinati per raggiungere il ventre dell’alcova improvvisata, tra divani putrefatti, materassi gonfi di pioggia e di merda di cani e di uccelli, il sole filtra a scacchi tra le fronde basse dei pini e della macchia mediterranea, invisibili sentieri si disperdono lungo l’orizzonte ed io batto ogni singolo pertugio, cammino in avanti e indietro, ansimando, gemendo, chiedendomi quale sia la drammatica ragione della mia permanenza nel sordido cuore pulsante della pineta – sei quasi nuda, l’ho detto.
E in questo contesto, è uno spettacolo francamente osceno; non sei sexy, solo patetica. Tette flaccide da vacca strizzate in un corpetto di latex nero, una minigonna sformata dal culone, autoreggenti e un volto di fame, immiserito, languidamente triste, disperato.
Chi sono i tuoi clienti?
Gente troppo povera per aspirare ad altro?
Amanti del patologico?
Imbecilli?
Combinazioni delle sopra menzionate categorie?
Hai un protettore? No, mi rispondi, con una flebile voce di bestia straniera, sono sola, sola e persa in questo grande paese di speranze e pompini che è l’Italia, duemila anni di storia e cultura e pinete a luci rosse.
Abbiamo tutti dei sogni, quali sono i tuoi?
Nessuno. Hai smesso di avere sogni quando hai dovuto per la prima volta leccare le palle sudate di un camionista di passaggio – nessuna conversazione, nessuna richiesta di aiuto, hai persino smesso di considerarti un essere umano, una donna, un’anima, uno spirito inquieto, tutto ciò che hai fatto prima, nella tua vita rispettabile, è evaporato per sempre, hai imparato che stabilire una qualche forma di empatica connessione tra cliente e puttana è un’arma a doppio taglio.
A nessun cliente importa davvero della donna che scopa – ognuno di loro da qualche parte ha una madre apprensiva, una fidanzata rompicoglioni, le pastarelle da portare ai suoceri la domenica mattina, un figlio da accudire e una morale da ristorare a messa, con la mente metaforicamente imperlata di sudore a ripensare alle scopate da pineta, nell’afrore di erba bagnata, quadri osceni di kleenex preservativi usati abbigliamento dozzinale e depressione lenita giusto giusto dai tentativi sagaci di crearsi una dimensione da dominatore.
Da quanto sei in Italia?
Non rispondi, trincerata in un mutismo che non ha traccia alcuna di dignità e di compostezza; è solo una barriera tangibile di disprezzo, di miseria, quel tentativo residuo di restare a galla, mentre attorno il mondo è in fiamme.
Sei malata?
Ci sono buone possibilità.
Scabbia.
Epatite.
Eczemi.
Non necessariamente AIDS, mi dici che molti clienti chiedono rigorosamente il preservativo; faccio fatica a crederlo, sinceramente. Ma non è questo il punto – il punto, e su questo converrai con me, è l’idea di prendere la macchina dal garage, mettere in moto dopo aver inventato una qualche risibile scusa con la moglie o la madre o il padre, ed essere venuti qui per una battuta di caccia sessuale, passando in rassegna le puttane, tutte va detto decisamente malmesse.
Me li vedo insinuarsi lentamente tra le frasche questi clienti, mentre il sole inizia a declinare in un lago rosso di sangue; passi leggeri, felpati, il rumore secco dei rametti che si spezzano sotto le loro scarpe, guidati dalla puttana che hanno scelto, la puttana è davanti a loro e nonostante l’abbigliamento scarso e il freddo e i tacchi a spillo procede velocemente. Conosce come una guida indiana i mille sentieri di questo posto di merda, si incunea, sposta i rami fittiziamente posti a celare determinati ingressi di radure dove poter scopare.
Buste piene di abbigliamento – perché le puttane si cambiano velocemente nel folto della pineta.
Sei sola?
Oppure, ed è ciò che credo, ci sono altre puttane qui nei paraggi?
Dimmelo, senza tanti giri di parole – tanto, e lo sai benissimo, le troverò.
Non ci fai mai il callo; per quanto tu voglia giocare alla donna dura, di vita, a questa estasi posticcia pasoliniana, il dolore è troppo grande, e la ferita continua a sanguinare. Ti hanno picchiata, pochi giorni fa; quattro giorni di referto, tre a Rebibbia, so che alcune puttane bulgare hanno preso male il tuo arrivo.
Le guerre etniche dei balcani perpetuate nella pineta di Ostia, nel nome dello sfruttamento sessuale. E mentre mi racconti dei colpi che hai ricevuto, sembri tradire per la prima volta una espressione umana, contrita, da cane bastonato.
Sono lucciconi quelli che vedo brillare nel profondo dei tuoi occhi neri?
Stai per piangere?
Non farlo, davvero. Non c’è bisogno; e sinceramente, a me le lacrime così gratuite, così drammaticamente immotivate, infastidiscono.
Ancora non ti ho dato un vero motivo per piangere. E posso assicurarti che quando lo avrai, potrai dare libero sfogo alla tua sofferenza.
Sei un animale.
Una bestia.
Non hai alcun valore, e non lo hai mai avuto, né per i tuoi genitori né per i figli che certamente hai da qualche merdosa parte della Romania, nessun valore, nessun diritto, nessuna sacralità del corpo umano, nessuna consistenza positivamente apprezzabile, nessun interesse o gusto che io possa reputare degno di attenzione, sei ferma, immobile, paralizzata, cristallizzata, respiri piano, con fatica, la paura che provi si percepisce lontano un miglio. Il silenzio della pineta, ed il rombo delle macchine che sfrecciano sulla strada a poche decine di metri da noi.
Ironica colonna sonora, non trovi?
Hai paura delle violenze dei trans – quando arrivano sciamando in pineta, seminudi e coi cazzi e le tette di fuori, li vedi drogati, gonfi di alcolici, disposti a tutto, e tu per loro sei una minaccia commerciale, una nemica, uno scarafaggio da fare a pezzi e schiacciare.
Hai paura delle retate, dei viaggi al fotosegnalamento, delle battute volgari e grevi dei poliziotti.
Hai paura degli altri protettori. Ma in realtà, hai paura anche del tuo protettore, che ti sfrutta senza pietà pronto a lasciarti per strada quando non gli servirai più.
Ti senti esaurita, finita, stremata.
Interiormente, vuota.
Priva di un senso. Di una qualche logica che davvero ti spinga ad andare avanti.
Nulla che ti emozioni, che ti renda felice. Vivi meccanicamente, e ti trascini di giorno in giorno per pura fisiologia dividendo un lercio appartamentino con altre otto puttane est-europee.
Arriverà un giorno, in cui diventerai trafiletto di cronaca nera. Qualche sospiro di circostanza da parte dei professionisti della compassione, e poi più nulla. Nemmeno una tomba, niente parenti a reclamare la salma. Potresti esssere sepolta qui, tra i preservativi i divani sfasciati e le merde di cane.
Non sarebbe una cattiva idea.

domenica 7 febbraio 2010

Un pompino è un pompino









Un pompino è un pompino.
Per quanto possa girarcisi attorno imbastendo allegre baracconate di spirito libertario, rivoluzione e pensiero evoluto, il succo sostanziale della pornografia resta la mercificazione del corpo umano – per fortuna aggiungo io, perché farsi le seghe col manifesto del partito comunista è esercizio potenzialmente noioso.
Lasse Braun ha contribuito a fondare una certa visione della pornografia, a renderla surrogato emotivo della globalizzazione in un afflato di superamento di steccati/barriere/pregiudizi morali, portando il verbo delle scopate in celluloide (e su carta patinata) a qualunque latitudine.
Lasse vuole renderci partecipi dei suoi passati sforzi e dato che la penna non gli fa difetto, sia in termini qualitativi che in termini più smaccatamente quantitativi (ha già composto e pubblicato vari altri libri, tra cui un monumentale affresco in salsa peplum che va sotto il nome di Lady Caligola, non casualmente prefazionato da Tinto Brass), eccolo adesso alle prese con la sua estesa e corposa autobiografia, SENZA TREGUA (per Coniglio Editore, 400 pagine al prezzo di 24,5 euro) – da quel che capisco originariamente il titolo avrebbe dovuto avere una più smaccata coloritura hippie, qualcosa come “l’uomo che amava le donne” e trovo in effetti che la ragione sociale peculiare del libro sia una tinteggiatura in chiave filosofica dell’ossessione sessuale, perché senza ombra di dubbio amare le donne, in ogni senso, pure a costo di riesumare le farlocche ed offensive panzane di W. Reich, è una storia che merita di essere raccontata soprattutto quando questa storia passa per uncini, scopate tra frattaglie, gang bang, estremizzazione dei loop, violenza e censura.
La visione ecumenica di Lasse ci porta a ripercorrere una variegata fenomenologia di partigiani, “liberazione” (che da storica diviene sessuale), viaggi nella Germania hitleriana dove addirittura il piccolo scapestrato baby (futuro) regista porno avrebbe tirato il baffo quadrato del Fuhrer.
Con alle spalle tanta partecipazione ai destini dell’Europa, Lasse non può esimersi dal narrarci la genesi della cultura pornografica tra ritagli di giornale con funzione epifanica (“sgominata a Genova pericolosa gang di pornografi”), la scansione dettagliatissima e particolareggiata della sua esistenza, la sua laurea in legge (argomento, la censura…), i primi approcci sessuali con cameriere badanti e ragazze (anche se dobbiamo annotare sul carniere, approcci bambineschi già in terra crociuncinata), le feste, la droga, il tentativo di lobbismo pro-porno con tanto di contatti con esponenti politici e proposta di legge in tasca, il perfezionamento hippie pre-sessantottino.
Non ci sono dubbi; per Lasse Braun, la pornografia è una cosa seria.
Una filosofia di vita, una rivoluzione, un fine ultimo tempestoso e demiurgico, quasi una dottrina religiosa.
Io, che sono più profano e disincantato, mi accontento delle narrazioni dei backstage, delle descrizioni vivide e dettagliate di film capolavoro come il sozzo HOOKED, meravigliosa epopea di degrado sessuale con tanto di panzone barbuto mutilato fornito di uncino prostetico alle prese con un godurioso fist-fucking (in modalità stupro) su una candida ragazzina catturata e portata nel capanno rurale, pornografia che scintilla degnamente tra Stevanin e Pickton (e di cui memorabile recensione troviamo sul secondo volume di Funeral Party) – a Braun dobbiamo pure l’introduzione di frammenti sadomaso violenti, del pissing e di altre amenità che da sempre titillano il palato di noi degenerati consumatori di buona pornografia.
Gli dobbiamo pure, e Sotos tenga a mente, la serializzazione dei loop, qui in combinato con lo spirito commerciale ed imprenditoriale dei giudeoli americani, da sempre ben disposti quando si tratta di lucrare in termini pornografici; gran parte delle lorde sale immerse nella coltre di oscurità dentro cui maschioni sub-urbani vanno a spompinarsi a vicenda, coltivando deleterie illusioni di eterosessualità soltanto perché pagano monetine per farsi scorrere davanti film porno di marca eterosessuale, devono molto, moltissimo al buon vecchio Lasse.
Noi stupratori mancati ci sediamo in religioso silenzio davanti all’evoluzione di DELPHIA THE GREEK, prima apparizione di quell’autentico rito di passaggio che è la doppia penetrazione anale-genitale – e tripudiamo in esultante estasi per l’intera serie FORCED TO SEX, la quale già nella locuzione semantica è una chiara scelta di campo.
E però...
Però.
Mi domando per quale motivo noi italiani dobbiamo sempre insinuare l’ombra tintinnante di un però, per quale motivo lambiamo l’assoluta grandezza e poi dobbiamo ritirarci sconfitti a leccarci le ferite. Perché, mentre nella pornografia di un Jamie Gillis la brutalità è brutalità senza comode sovrastrutture redimenti, mentre nelle pagine di un Peter Sotos la crudeltà è crudeltà gratificante a livello individuale, Lasse Braun ci dice chiaramente; no, ragazzi, avete sbagliato.
Noi siamo dalla parte, reazionaria, del porno come sopraffazione, come reificazione, come abuso e come violenza, mentre lui anela ad una liberazione mentale e morale attraverso lo shock.
Preso atto delle divergenze di impostazione (confermate dallo storico del porno Pietro Adamo, il quale tratteggia una differenza estetica ma pure “politica” tra la violenza pornografica anni settanta e quella odierna…una volta, dice Adamo nell’annuario del Porno edito sempre da Coniglio, la violenza era funzionalmente catartica e liberatoria, mentre oggi è commerciale, retriva, caricaturale e posta al servizio dei peggiori istinti), direi che non dobbiamo gettare con l’acqua sporca il bambino; Braun ci sa intrattenere e se bypassiamo la tendenza a voler rendere chiunque (da Hitler a Jamie Gillis!) una comparsa nella SUA esistenza, d’altronde il libro è SUO e può scriverci quel che accidenti vuole, possiamo godere delle inesauste descrizioni di un porno primitivo, clandestino, genuinamente rozzo e naif, violento (ok, non ci interessa il perché di questa violenza, ci basta la violenza in sé), promiscuità sessuale e megalomania attoriale.
Rodox, senza Lasse Braun, significherebbe poco, e di questo dobbiamo essergli riconoscenti.
Gli dobbiamo le gang bang cinefile delle notti magiche di Cannes del 1975.
Gli dobbiamo le equivoche scelte di pornostar che dimostrano meno dei loro certificati diciotto anni e le epopee di inseguimenti di trash paramafioso quando è alle prese con debitori e partner commerciali infedeli (i maligni, ma noi non siamo maligni, i maligni dicevo potrebbero notare l’intrinseca contraddizione tra certe asserzioni pseudolibertarie e l’estrema cura degli affari, cura nutrita pure da cause legali, pestaggi che Braun ci esibisce con certa gioia bambinesca…un maligno estremamente pedante potrebbe notare l’ironia di pagina 112, programmaticamente titolata “guerra ai pirati”, laddove si parla di regolamento di conti con riproduttori illegali dei film di LB, avendo previamente letto di come lo stesso LB si ritenesse a modo suo un combattente della libertà e un pirata).
Ma io, e quei quattro cinque che mi seguono, non siamo mai stati dei maligni.
Degenerati, pervertiti, molestatori virtuali, beceri, cripto-isolazionisti, tutto questo si, ma maligni accidenti no!
Il libro, va ammesso senza tante reticenze, è uno spaccato gustoso e fondamentale per chiunque coltivi con un minimo senso della decenza e della completezza la fenomenologia del mondo porno – è scritto bene, nessun dubbio sul fatto che Braun sappia scrivere ed intrattenerci, finisce per sembrare un viaggio romanzesco su un altro pianeta in cui la monomania ossessiva del protagonista filtra gli eventi reali come un caleidoscopio di tette e culi e pelo pubico.
Un mondo rovesciato, divertente, scanzonato. Ma anche cinico, violento, squallido, riprovevole.
Semplicemente, ad ognuno il suo.