giovedì 31 gennaio 2008

Gilles


Siamo abituati a considerare il Medioevo come una età oscura, ora in riferimento alla barbarie dei costumi e al fatto che spesso le controversie ed i rapporti erano regolati dalla forza ora dal fatto che le testimonianze che di quell’epoca ci arrivano sono filologicamente interpolate e appunto ammantate dalla nebbia della non perfetta conoscenza.
Dopo il lento tramonto dell’Impero romano e l’arrivo massiccio delle popolazioni germaniche, la cultura venne letteralmente rinchiusa e ghettizzata nei conventi dove i Monaci trascrivevano e commentavano gli antichi testi filosofici, religiosi e giuridici scampati agli assedi e alle devastazioni. La caratterizzazione religiosa di questi operatori finiva però sin dall’origine per determinare un mutamento del senso e del contesto delle opere che passavano per le loro mani, fino al caso estremo delle scuole dei Canonisti e dei Glossatori che con perfetta scienza e cognizione di causa ritenevano legittimo inserire i loro commenti direttamente nel testo, e non a margine.
Questo processo di stratificazione letteraria e concettuale finisce per mutare geneticamente il significato profondo di istituti giuridici, leggi della Chiesa, lo stesso nascente diritto comune (che prende le mosse dalla fusione di diritto romano, diritto barbaro e diritto canonico) non è altro che una evoluzione di commenti sedimentati su altri commenti lungo una invisibile linea di cui, ad un certo punto, si smarrisce l’orizzonte.
E’ così che biografie e opere letterarie e agiografie, spesso commissionate da governanti, nobili, ecclesiasti, giungono ai nostri giorni e vengono considerate opere di specchiata scienza e indubitabile imparzialità, mentre al contrario se si avesse la possibilità di gettare uno sguardo sulle fonti si vedrebbe che la realtà è ben diversa; ma il problema sta proprio qui, le fonti.
In molti casi, gli amanuensi trascrivono e commentano direttamente da libri che finiranno poi per scomparire, arsi in qualche incendio, rubati e passati di mano ed eclissati a seguito di qualche scorribanda o assedio; quelle che rimangono così sono opere glossate, direttamente interpolate, in cui diviene impossibile scindere la parte originale da quella aggiunta. Ed è questa carenza di fonti a determinare il senso dell’oscurità che aleggia su interi secoli del Medioevo.
E se questo vale per asettici istituti giuridici, famosi filosofi e dottrine della più varia natura, figuriamoci cosa può succedere quando oggetto della indagine diventa una figura sinistra come il Maresciallo Gilles de Rais.
Piuttosto singolarmente infatti il Maresciallo è passato atrraverso le epoche come paradigma di un male feroce, di un sadismo ante-litteram, coacervo di pratiche sataniche, omicidi, abuso di potere e leggende metropolitane che di lui hanno fatto tra l’altro base storica di Barbablù. Fiaba, mistero, racconto orrorifico, e in alcuni periodi anche sublimazione di un mistero gotico, tutto fuorchè storiografia.
Scorrendo rapidamente una bibliografia contenente il nome di Gilles, si vede che preponderante è la quota di romanzi o di opere decisamente meta-storiche, in cui la porzione scientifica è minoritaria rispetto alla ricostruzione narrativa; in alcuni casi si assiste ad un processo di romanticizzazione della figura, fatta assurgere a quella di amante paranoico e disperato che dopo la morte di Giovanna d’Arco si trasforma in lucido e scatenato massacratore di bambini (è il caso del romanzo Gilles et Joan, di Michel Tournier). Oppure, stante la non indifferente componente alchemica, satanica ed esoterica, ecco avanzarsi Crowley con le sue Letture Proibite che ebbero fugace apparizione sulla Rivista Equinox, e che pure ad oggi non sono facilmente reperibili.
Di Gilles si fece ora un pioniere del Sadismo, accomunato a Sade anche dalla scarsità e dalla incertezza di riferimenti biografici (entrambi curiosamente ebbero uguale sorte post-mortem, con la loro sepoltura devastata e ciò che di loro rimaneva disperso; la tomba di Gilles venne fatta a pezzi dai riottosi cittadini durante la Rivoluzione Francese e le sue ossa gettate nel vicino fiume, mentre le ossa di Sade a quanto sembra furono trafugate in piena invasione di Francia da un milite delle Waffen SS), ora un dannato scapigliato che sarebbe poi finito trasfigurato nel La-Bas di Huysmans o in qualche poema del decadentismo più spinto e oppiaceo.
E’ effettivamente difficile, per non dire impossibile, trovare un testo in cui poter scindere racconto finzionale da seria e ponderata ricostruzione storiografica; certo, è la figura stessa che si presta alla sovrastruttura gotica, al racconto di serial killer, alla carnografia spicciola. E’ tutta quell’epoca in cui morte, oscurità, sinistri bagliori della fiamma d’inferno si mescolano ad essere oggetto di una ricostruzione oleografica e in certa misura plastica; come scrive lo storico Pernoud nel suo saggio sulla liberazione di Orleans, a cui Giovanna d’Arco e Gilles presero parte, la stessa figura di Cristo assume le sembianze orrorifiche di un corpo straziato e violato, circondato da ossa, teschi, città in fiamme. E’ l’arte a farsi monito, e monito grave e violento.
Non esistendo una impalcatura istituzionale in grado di assicurare un ordine, molto spesso violenza, arbitrio e capriccio di nobili diventano gli unici metri di giudizio e comportamento; la vendetta ha una sua valenza accettata, proseguono i giudizi di Dio in tutta la loro cruenza, bande di mercenari ed eserciti regolari durante i loro spostamenti saccheggiano, impiccano, violentano. Non stupisce quindi che il favolista Perrault, attingendo alla mitografia che circonda Gilles, abbia fatto di lui una figura fosca e crudele come quelle che popolano le fiabe dei Grimm.
Intendiamoci, Gilles fu effettivamente, almeno nella seconda parte della sua esistenza, un crudele massacratore di ragazzini, avvinto dalle sue ossessioni alchemiche (in combutta con il mago fiorentino Francesco Prelati) e dai suoi esperimenti, arroccato nel suo maniero e circondato da una corte dissoluta e sanguinaria; ma i suoi crimini, per quanto assurdi, reiterati e brutali, non sono poi così diversi da quelli posti in essere dagli eserciti vittoriosi intenti ad infierire sulle popolazioni vinte.Come ha sottolineato M. Cazacu, nel suo Da Gilles a Barbablu, il percorso di costruzione dell’immagine satanica e mitologica del Maresciallo è stato lungo, ed affidato in prevalenza a fonti orali; leggende passate di bocca in bocca tra le spaventate popolazioni della Bretagna, dell’Angiò e della Vandea ai cui confini si situavano i possedimenti di Gilles; eppure Barbablu nasce dalla singolare crasi della vera storia di Gilles con alcune leggende bretoni concernenti spettri viandanti, massacratori di mogli e altre situazioni macabre.
Il Maresciallo, per molti anni della sua esistenza, fu un Nobile coraggioso, di buona coscienza, servì sotto le armate di Giovanna d’Arco e durante la guerra contro gli Inglesi si distinse per ardore e coraggio; si dimostrò un buon governante, ed una persona decisamente raffinata, almeno per quelli che erano i parametri dell’epoca. Poi ad un certo punto, iniziò in lui un sensibile mutamento del carattere e varie ossessioni si impadronirono della sua anima; uso questo linguaggio, ossessioni ed anima, quasi disperso tra psichiatria e metafisica perché in effetti non ci è dato sapere cosa sia accaduto in lui, che cosa lo abbia spinto a gettarsi di peso nell’omicidio e nella Magia Nera. L’amore per Giovanna d’Arco, e il pensiero della sua atroce morte, come fattore scatenante sono adombrati da vari commentatori, ma sembrano più consoni ad una favola romantica virata in nero piuttosto che ad un tentativo storiografico.
Come ha scritto Ferrero, nel suo Barbablù, la violenza di Gilles è la violenza di un’epoca; quasi non vi sarebbe bisogno di cercare ciò che criminologicamente siamo usi definire “movente”. In un periodo in cui la brutalità omicida è di casa, in cui guerre, carestie ed epidemie falcidiano la popolazione, il comportamento assassino è riprovevole e riprovato ma non esecrato quanto potrebbe esserlo oggi.
Senza considerare il fatto che l’intera storia medievale è costellata di personaggi particolarmente crudeli, responsabili di gesta raccapriccianti, e che però per un motivo o per l’altro non sono mai assurti alla celebrità omicidiaria di Gilles, della Contessa Bathory o di Vlad Tepes; un esempio è il nostro Ezzelino da Romano, individuo che in quanto ad efferatezza non avrebbe avuto nulla da invidiare all’Impalatore dei Carpazi ma che per sua fortuna o sfortuna non trovò né un Perrault né un Bram Stoker.
Non so se esiste un preciso momento in cui il Signore di Rais esce dalla storia per entrare nel mito macabro, ma sembra abbastanza certo che l’interesse nutrito dai Surrealisti per le sue vicende abbia contributo in maniera decisiva a fare di lui una sfuggente ombra satanica; come già avevano fatto con Sade, i Surrealisti si interessano al lato puramente simbolico e di decadente bellezza. L’omicidio, il sangue, le violenze, i castelli, le torce tremule e le notti insonni, abbastanza materiale per generare un orrore corposo e provocatorio come tanto piaceva agli accoliti di Breton.
Ma se nel caso di Sade, i vari Paulhan, Klossowski, lo stesso Breton si erano accapigliati in ipotesi esegetiche sulla valenza della sua opera, lasciando il dato puramente biografico e storiografico in disparte, con Gilles si assiste ad un processo esattamente opposto; anche perché il Maresciallo non era un letterato, non aveva composto altra “opera” se non i cadaveri di centinaia di ragazzini e ragazzine uccisi per delitto sadico.Un punto di svolta è certo quello di Bataille, che raccoglie e con perizia certozina cataloga e ricompone ad unità coerente gli atti del processo contro Gilles. Il suo maestoso libro Il Processo di Gilles de Rais vide la luce nella Francia degli anni sessanta, e si presentò subito come una opera sconvolgente. Non erano mancati ovviamente casi analoghi, mi viene in mente soprattutto Gide, ma sinceramente la figura di Gilles e la mole dei crimini da lui commessi non ammette confronto. Non lo ammette nemmeno per il grado atroce di crudeltà.
Basta d’altronde dare una rapida scorsa alle pagine del libro di Bataille, per trovare descrizioni come la seguente; “per il suo ardore e diletto sessuale, aveva fatto prendere un così gran numero di fanciulli che non sapeva precisare con certezza. Aveva emesso il seme spermatico nel modo più colpevole sul ventre dei fanciulli, tanto prima quanto dopo la loro morte, e anche durante la loro morte. Aveva da solo o con i suoi complici inflitto tormenti inauditi con bastoni, pugnali e coltelli, aveva impiccato i piccoli ad una pertica o a una fune e quando li aveva visti languire aveva commesso con loro il vizio di sodomia” Una lunga, inesausta descrizione di orrori, un tunnel carnografico in cui assistiamo a sevizie, dolore, umiliazione, omicidi in serie, il tutto con una voluttà feroce e ammantata dall’aura satanica.
Sul quoziente esoterico, un ruolo decisivo fu rivestito dall’alchimista Francesco Prelati, fatto venire da Gilles appositamente da Firenze per tentare la disperata operazione del creare alchemicamente l’oro; d’altronde i vizi di Gilles costavano caro, doveva mantenere uno stuolo di complici e procacciatori, di servitori, soldati, e via dicendo, e progredendo nel vizio le sue casse tendevano ad assottigliarsi in maniera preoccupante.
Messi a confronto con le sue gesta, quasi tutti i più quotati serial killer contemporanei impallidiscono e sbiadiscono, ridotti al nulla. Quante siano state le vittime della furia scientifica del Maresciallo non è dato sapere, ma stime abbastanza precise situano il totale tra le trecento e le cinquecento unità. Cifre impensabili oggi, ma che all’epoca erano possibili anche in forza del prestigio, della potenza e della posizione nobiliare dello stesso Gilles. Temuto e rispettato, arroccato nel suo maniero, attorniato da una variopinta ed inquietante corte di lenoni, assassini professionisti e negromanti, Gilles era virtualmente intoccabile; ed è assai significativo che la sua fine, il suo arresto e il conseguente processo siano stati determinati dalle mire espansionistiche del Duca di Bretagna, col quale Gilles era in guerra da tempo, e non dai crimini di cui si era macchiato.Questi crimini, di cui è probabile che tutto si sapesse, gli vennero rinfacciati solo dopo, durante il lungo e penoso dibattimento, a cui accorsero migliaia di persone, anticipando di svariati secoli i nostri Erba e Cogne; ma a differenza di quanto avviene oggi, con masse di voyeur da true crime estranei ai fatti, all’epoca invece centinaia di spettatori erano parenti dei ragazzini massacrati. E fu certo per loro una beffa atroce, vedere che Gilles si pentiva e si contriva chiedendo di morire santo; una beffa degna di Sade, immaginare che sul patibolo moriva Gilles de Rais ed effettivamente nasceva Saint Gilles. Su come sia stato possibile che a un assassino del genere si sia consentita la Santità, aldilà delle mere convenienze nobiliari, tanto Ferrero quanto Bataille ci riportano le testimonianze dei preti che assicurarono la salvezza dell’anima del Condannato; e tutte queste testimonianze concordano sull’effettivo pentimento, un pentimento enorme, incredibile, una vera trasfigurazione che Ferrero imputa alle straordinarie arti simulatorie e mimetiche di Gilles.
Se torniamo al discorso introduttivo sulla scarsità di fonti, diventa paradossale osservare come l’opus di Bataille pubblicato in Italia nei primi anni ottanta da Guanda non sia mai stato più ripubblicato; anzi, non solo non se ne sono avute riedizioni o ristampe, ma nessuna casa editrice si è dimostrata lontanamente interessata all’acquisizione di quei diritti. Il libro in Italia non esiste più, appannaggio solo di collezionisti e biblioteche pubbliche.
Paradossale e offensivo ma comprensibile, soprattutto se consideriamo la consueta pruderie moralizzatrice che contraddistingue l’Italia. Eppure sarebbe bello che in questi anni contraddistinti da amore per la criminologia, scena del crimine, sangue e morte, tornasse alla luce anche il testo di Bataille, tanto per far intendere alle massaie amanti del true crime e di Cogne che l’orrore quello vero non è mai stato piacevole.

mercoledì 30 gennaio 2008

Chet Zar







In fuga da un passato di make-up e special effects artist, rigidamente inquadrato nell'industria californiana del cinema, Chet Zar è la dimostrazione palese di come il sogno americano (e non solo il sonno della ragione) a volte possa nascondere incubi. Specializzatosi nella ritrattistica di esseri deformi ed orrorifici, agglomerati contorti di carne putrescente, riconosce il suo debito nei confronti degli anonimi autori di testi di morfologia, fisiologia, anatomia e fisiognomica; è un collezionista ed avido lettore di libri ottocenteschi, adorni di tavole in cui compaiono freak e altri scherzi della natura.
Amante di Giger, Bosch, Frazetta e dell'arte fantasy e horror più classica, non disdegna incursioni in settori fantascientifici e post-apocalittici. Espone in numerosi group-shows, al fianco di artisti del calibro di Craig La Rotonda.


Gli Idoli Anonimi



Passeggiando sulla spiaggia di Cannes, ben 58 anni fa, Andrè Breton e Luis Bunuel si trovarono a parlare del loro comune passato artistico, e con un certo afflato di malinconia certo mescolato alla brezza salmastra presero a riflettere sul significato della provocazione. La scena sarebbe stata degna di uno dei migliori film dello stesso Bunuel, o di una opera di Max Ersnt o di Otto Dix, tra chiaroscuri ambrati, profumo di mare, e le chiacchiere vuote dei vari senescenti che incuranti della grandezza di quella coppia se ne andavano a spasso là attorno; la grandezza del complesso stava in quei due volti ormai maturi, ormai passati attraverso i fuochi delle guerre (civile spagnola e mondiale), eppure ancora terribilmente agguerriti ed in lotta con la società tutta, ma senza la pretenziosità che anima l’intellettuale marxista.
Breton, tradendo la sua umana frustrazione, prese sottobraccio Bunuel e gli confidò, immagino a bassa voce per evitare di dare spettacolo e di essere udito dalle coppiette cinguettanti d’amore, che la provocazione ormai era morta. Mio caro Bunuel, disse sconsolato come l’ultimo superstite di una guerra mai iniziata, vero è che non esiste più nulla che sia provocatorio.
58 anni fa. Nei ritmi iper-accelerati dell’oggi, equivalgono ad almeno 3 o 4 secoli; e già quei due pionieri avevano gettato la pietra tombale della normalizzazione su tutta una dimensione artistica ed espressiva che invece, tra transavanguardie e giochetti risibili, avrebbe voluto seminare il panico nel consesso dei bravi borghesi.
Borghesi; Breton aveva capito che essere risucchiati nella normativa e codificata normalità della vita non avrebbe significato altro che necrosi del genio e dell’estro, e allora esorcizzava quello spettro parlandone e mettendo in faccia al suo ex sodale ormai ritiratosi nel buen retiro creativo messicano una prospettiva assai poco piacevole.
La normalizzazione uccide. Si pensa generalmente che l’impulso ribellistico sia una fisiologica fase di passaggio dell’età giovanile, ed allora si è pronti a tollerare comportamenti poco rispettosi o eterodossi ben certi che una volta cresciuti anche i più accesi rivoluzionari riconosceranno l’autorità del Sistema e ad essa si piegheranno. Questo è ciò che si pensa adesso. Eppure a scorrere la filmografia di Bunuel si vede chiaramente che i film più intensi, interessanti e provocatori li realizzò nel corso della sua senescenza, film che avevano perso ogni morfologia dell’accettabilità fino a sublimarsi nel tentativo di raggiungere lo stato della perfezione. Gran parte dei veri rivoluzionari, dei veri provocatori, non perdono mai le loro caratteristiche, al massimo le affinano e le maturano, si mettono in discussione attraverso un lungo percorso di crescita e di confronto ma non rinnegano né chinano la testa al cospetto del mondo dell’arte solo perché le loro carte di identità segnano il crescere degli anni.Eppure il trionfo della grettezza borghese, del grigiore che livella e annienta le differenze, ci fa credere che l’arte sia un lavoro come un altro, che un qualunque drammaturgo o scrittore o pittore o scultore dovrebbe essere retribuito con un salario, compiaciuto nei vernissage ed esibito come fosse un indiano nel circo Barnum. Prospettiva sconfortante ma largamente diffusa. Tanto che Breton si era visto passare davanti il fior fiore degli ex surrealisti ormai riciclatisi nel ruolo delle macchina inutili, ornamenti graziosi nel firmamento espressivo tollerato, azzimato e coccolato dalla società. Li aveva visti trascolorare come rugiada nel sole del mattino, ed ora, l’ora di quella calda mattina di 58 anni fa, se ne dispiaceva.
La provocazione effettivamente è morta. Ed è morta assieme all’intelligenza. Se Ernst Junger diceva che è meglio il delinquente del borghese, e se Breton aggiungeva da altra prospettiva che l’atto surreale per eccellenza sarebbe stato l’uscire per via armati di pistola ed ammazzare il primo che passava, si capisce intuitivamente che per rendere quelle proposizioni cardine di una visione del mondo, per dirla nel senso alla Dilthey, ci voleva tutta l’intelligenza di quei due personaggi .
Per elevare dichiarazioni simili oltre il livello della mera boutade, per far divenire arte Benjamin Peret che insulta un prete o Breton che interroga i suoi colleghi surrealisti sui loro piaceri sessuali o Bataille che metaforicamente disseziona la foto della tortura dei mille tagli o Marinetti che si crogiola nello stupro messianico di Mafarka o Junger che si pone oltre le scogliere di marmo o per riesumare Maldoror e le ossa dimenticate di Sade, ci voleva una intelligenza brillante, acuta, e oltre-umana.Oggi la provocazione ha il sapore triste di una candid camera. Oggi che l’asservimento della espressione artistica è totale e compiuto, manca persino la tentazione di provocare.
Intendiamoci, la provocazione fine a se stessa è patetica tanto quanto l’artista al guinzaglio che crede di essere libero e che invece è solo scimmietta addomesticata. I migliori provocatori sono stati quegli artisti che non avevano né intenzione né coscienza di provocare, ma che finivano per farlo e per dare scandalo semplicemente attraverso la loro esistenza e la loro piena libera espressione.
Quando Genet si bea dei bravi borghesi finiti a far tappezzeria a Dachau, non vuole provocare. Lo pensa davvero, davvero maledice la carne di quei timorati e probi cittadini che nella sua gioventù applaudivano i poliziotti intenti a spaccargli la schiena, e poi divenuti internati e cenere da camino nei campi di morte, riveriti, ricordati e amati su lapidi di marmo.
E Sade, Sade non perde tempo a sconvolgere i suoi contemporanei, i suoi denigratori; Sade scrive per vivere, per acquisire una libertà che gli è stata negata, e soprattutto per situarsi fuori dal genere umano come il migliore dei penitenti.
Oggi io non riesco davvero ad immaginare un artista che sia così onesto e genuino da scandalizzare soltanto attraverso la sua opera; abbiamo un carnevale di buffoni che tentano di provocare, e lo fanno in maniera plastica e risibile, come quei bambocci che richiamano l’attenzione sporcandosi la faccia di cioccolata. Idoli anonimi, avrebbe detto Caraco, porte attraverso cui il caos si inserisce e penetra nella nostra società devastandola e distruggendola, ma non di una distruzione sensata, rigeneratrice, ma sporca e gretta. Come la sistematica reiterazione del Milite Ignoto, questi idoli artistici senza talento né genio provocano per ricevere in cambio un salario; pagati per produrre, come qualunque meccanismo della catena di mercificazione del senso estetico. Anche l’artista è diventato un lavoratore, un proletario le cui catene sono ben salde e legate come un cordone ombelicale al grembo oscuro della normalità.
Il Milite Ignoto della società dello spettacolo si trasla dal tubo catodico alle palestre di ardimento sociali, in cui giovani sbandati divengono il paradigma di una perdizione assoluta. La società deve essere annientata, ma non dai suoi stessi meccanismi; perché se accettiamo che questi disvalori penetrino nel profondo, ad una distruzione seguirà fisiologicamente una rigenerazione in peggio, che determinerà l’emersione di una società ancora più corrotta ed inutile. E via così in una ciclicità dell’orrore.
Perché il Milite Ignoto era, quando fu pensato e realizzato nel suo senso bellicistico, un tentativo di eternare lo spirito della guerra anche nei lunghi periodi di inutile pace; e la pace nientre altro è se non ignavia, corruzione, sdilinquimento, essa porta gli individui a crogiolarsi, a non fare nulla, a subire tutte le peggiori influenze. Millenni di atroci conflitti hanno nutrito lo spirito dell’arte, hanno selezionato, non in termini genetici e morfologici ma attitudinali, i migliori e li hanno estratti dall’anonimato della massa, facendo di loro autentici Eroi. Mentre nel Milite Ignoto noi non vediamo volto, ma solo una tomba che potrebbe anche celare le spoglie di un disertore caduto per fuoco amico.
La tensione permanente determinata dal conflitto diviene una sfumatura della mania platonica, di quella sete per l’Assoluto che una volta portava i giovani a sentirsi vecchi compiuti i 25 anni; il colpo di pistola che ha posto fine alla esistenza di Weininger o di Michelstaedter, e che oggi si vive quasi come una provocazione, non fu un semplice atto di mera nullificazione, di escapismo travestito da anelito di morte, ma una dichiarazione di intenti. Per fuggire i nietzschani, mediocri ultimi uomini che promettono la felicità plastica ed irreale a Zarathustra mentre egli discende nel suo meriggio.
Gli Idoli Anonimi oggi vomitati dalla televisione sono persone espresse dalla pace, ontologicamente inconsistenti, ombre in vita che vagano per le pianure digitali del web e dei palinsesti, trascinando dietro un notevole fardello di miseria. Ci sarà d’altronde un motivo per cui negli ultimi 60 anni non sono più nati Geni, ma solo tragici ultimi uomini…un motivo per cui parliamo di Jarry, Artaud, Campana, Marinetti, Breton come di vestigia appartenenti a metastoriche civiltà, disperse tra le ombre del Mito. Noi non abbiamo più consapevolezza di quanto sana e rigeneratrice fosse quella violenza che Platone decanta nel Fedro, quello scatenamento folle ed apparentemente insensato e che pure nutriva nel profondo dell’anima gli Individui degni di tale nome.
Adesso che sentiamo ripeterci perennemente, in un mantra di autoconsapevolezza politicamente corretta, che tutti siamo uguali e che tutti abbiamo le stesse chance, che dobbiamo rispettare il nostro prossimo perché tanto 15 o 5 minuti di celebrità arrideranno a tutti, ecco comparire il volto decomposto del livellamento democratico.
Un nichilismo d’ombra e notte dovrebbe spazzare via tutto. E spazzare via tutto non per rigenerare, ma per annientare fin nel profondo la corruzione che vediamo ogni giorno farsi sempre più grande ed avvilente. Non più provocazione, ma constatazione cioraniana del fascino irresistibile del Male, e sì solo attraverso la pratica costante, amorevole e fanatica del Male potremo liberarci dalle catene e diventare, una volta per tutte, Uomini liberi.

martedì 29 gennaio 2008

La Cura dell'Odio






Chissà a cosa pensavano i tecnici ed i fonici chiamati ad installare il sistema audio dentro e fuori il Tribunale di Como in vista dell’happening criminologico del momento, il processo ad Olindo e Rosa; non è stata una normale giornata lavorativa per loro, poco ma sicuro. Circondati da gente in fila, curiosi, giornalisti, poliziotti, il consueto via vai di magistrati e avvocati, e con quella fredda aria resa ancora più pungente da tutti gli occhi d’Italia puntati addosso.
La celebrazione mediatica di un processo e la decostruzione semipornografica di un fatto di sangue non rappresentano ormai una novità; siamo abituati da anni a vedere madri assassine piangere e proclamare la loro innocenza, plastici del luogo del delitto (ciò che con insopportabile protervia si definisce scena del crimine…scena, come se si trattasse di un teatro di posa, di un locus slegato per sempre dalla sua dimensione di carne e morte e divenisse una mera replica olografica; non a caso si tratta di una dizione propria della criminologia americana), scrittori improvvisati criminologi che con l’aiuto delle unità investigative replicano come copia originante da nessun originale l’estasi ed il martirio della criminologia e ci propongono/propinano le fasi evolutive del delitto.
Siamo persino abituati a comprare, come fosse merce, l’assassinio; entrate in una libreria e fatevi un giro tra gli scaffali di sociologia e psicologia e noterete che abuso sessuale, omicidio, serial killer vanno per la maggiore e vendono benissimo. Mesi fa ho dato conto, in una breve panoramica, di quanti libri sul delitto seriale siano stati pubblicati in Italia negli ultimi tempi, intere collane precipitosamente messe su dalle case editrici quando ci si è resi conto che la domanda era impetuosa; persino collane da edicola, approfondimenti sui quotidiani. Dvd modulati sulla frequenza di un CSI genuino. Cronaca nera sbattuta in faccia senza tanti complimenti.
Quando nel 1995 iniziai a scrivere su Halogen, allora era il suo primo anno, avevo negli anni precedenti raccolto una certa mole di materiali su assassini seriali e vari delitti, e avevo composto una sorta di personale archivio, quasi una ragnatela fatta di libri (americani, per la maggior parte), corrispondenze intrattenute con autentici killer e items da collezionisti sempre di provenienza anglo-americana; internet non c’era ancora, non era diffuso come oggi e quindi la distanza faceva valere il suo peso. Quando mi capitava di andare in vacanza in Inghilterra, le prime famigerate vacanze-studio per imparare la lingua, me ne tornavo con lo zaino pieno di libri true crime; d’altronde leggere in lingua originale è un ottimo esercizio di apprendimento e ai miei genitori importava relativamente quale fosse l’oggetto dei libri che avevo comprato. Ma in Italia questo interesse non esisteva, era appannaggio di due distinte Elite, le quali generalmente non erano a contatto; da un lato gli accademici, i primi criminologi, gli psichiatri tutti raccolti nelle loro torri di sapere, dall’altro lato invece gli entusiasti underground che celebravano nella psicosi delittuosa l’incarnazione del Libertino sadiano.

Generalmente, per chi si dibatteva nell’Underground il criminologo istituzionale rappresentava (e rappresenta ancora) poco più di un voyeur ipocrita e legittimato nelle sue scorribande dall’aura santificatrice della voglia di conoscenza e dello studio. Al contrario, gli psichiatri guardavano e guardano a queste esplosioni di entusiasta empatia con gli psicopatici come fenomeni di devianza la cui intensità sarebbe bene monitorare. Non si è mai arrivati ad una resa dei conti, soprattutto perché la mole dei fans del delitto seriale in Italia non ha mai costituito numericamente e qualitativamente una seria minaccia al business della criminologia universitaria.
Così quando decisi di autopubblicare le mie analisi sull’assassinio, fui ben conscio che sarei finito in una delle due categorie; intendiamoci, non era una bella prospettiva. Da un lato il concetto stesso di “fan” mi ripugna, perché presuppone una volontà alterata, dimidiata, un supino modellarsi sulla morfologia di un soggetto altro. Dall’altro invece il grigiore dell’accademia mi ripugnava dal profondo del cuore, mi faceva schifo quel tasso insopportabile di ipocrisia che se possibile negli ultimi tempi è persino aumentato. A me non interessava parlare del delitto seriale in termini tecnici, né proporre soluzioni preventive o di cura; non mi interessa nemmeno oggi, anche perché chi tenta di delineare una cura preventiva per evitare che un delitto seriale venga commesso o non ha capito nulla oppure è in malafede. Mi interessava, assai più prosaicamente, definire una mia pornografia personale intessuta di tutte quelle emozioni così urgenti e viscerali che in teoria dovrebbero animare la buona pornografia.
Perchè in fondo il porno non dovrebbe essere innocuo, consolatorio, non dovrebbe vezzeggiare lo spettatore né coccolarlo teneramente promettendogli una comoda sega da divano; al contrario, dovrebbe aggredirlo, porlo in discussione, mettergli davanti un magma di confuse emozioni. E lo stesso, sia detto per inciso, vale per l’Arte, degradata ormai a esibizione fatua di accomodamento con lo Status Quo.
Non pretendevo di essere originale, come non lo pretendo ora. L’originalità non esiste più, ormai la vera sfida è dire ciò che è stato già detto ma in maniera adeguatamente contestualizzata alle esigenze personali, utilizzando i residui dell’intelligenza che una dieta a base di televisione e deprivazione culturale ci ha lasciato. Avrei scoperto anni dopo che autori come Peter Sotos e Dennis Cooper avevano fatto qualcosa di assai simile, e con esiti certo più brillanti. Ma come ripeto, all’epoca le informazioni circolavano in modo limitato.
Il mio punto di partenza è stato Sade. Tutto viene da lì. Precisamente da Le 120 Giornate di Sodoma, che per tanti e tanti motivi è un testo-limite, un confine oltre cui non è possibile andare. Un libro arduo, ripetitivo, monotono come solo i grandi testi sapienziali e religiosi possono essere, un viaggio sfiancante in un sottosuolo demonico. Quando si esce, se se ne esce, dalla lettura dell’opus sadiano si è cerebralmente sfiancati, provati, si è attraversato un deserto in cui il desiderio balugina come un sinistro sole d’inferno.Le prime righe di Halogen, i primi tentativi, abbozzi e persino aborti tradiscono buona volontà ma anche una ingenuità degna di miglior causa. Eppure un certo valore in quel tentativo c’era. Non mi risulta che ci siano stati molti tentativi in Italia di trattare la materia criminologica, tutto quanto va sotto la generica dizione di cronaca nera, come fosse pornografia. Non volevo celebrare gli assassini seriali, mi interessavano le loro azioni e le conseguenze, in termini emozionali, di quelle azioni; le reazioni affrante dei media, dei parenti delle vittime, le biografie delle vittime. Il carnefice finiva per scomparire, per sdilinquirsi e perdere importanza davanti all’esigenza di immedesimazione tra la mia scrittura e il piacere oscuro del delitto.
Unire tra loro in carnale simbiosi omicidio e pornografia, insegnamento princeps di Sade, attingendo ai più atroci casi di cronaca nera, era attività che negli anni novanta non veniva vista di buon occhio; forse, ad alcune condizioni, nemmeno oggi, ma allora la situazione era decisamente più preoccupante. Si considerino questi punti; l’ignoranza del comune uomo della strada in termini di delitto seriale, l’aver giusto sentito nominare la parola “serial killer”, predisponeva la società ad una ritrosia feroce. Mi capitò persino di sentirmi dire che avrei potuto creare “una epidemia”, una sorta di effetto emulazione, una fascinazione per quei delitti…ironico, se visto con il senno del poi, e alla luce di quanto ingolfa oggi i palinsesti tv. “pervertito” e “depravato” erano le definizioni che andavano per la maggiore, dopo aver distribuito i primi numeri di Halogen ebbi anche un abbozzo di analisi psichiatrica da parte di un anonimo cuor di leone che, a quanto pare, aveva letto la rivistina a casa di un abbonato; vi risparmio la solita sequela, prevedibile, di “frustrazione”, “impotenza”, e via dicendo. Nulla di nuovo, nulla di interessante, se non forse nei termini di una analisi di chi aveva scritto quelle righe.
Diciamo che all’epoca interessarsi di argomenti scabrosi come pedofilia, violenza sessuale e omicidio sadico non era il miglior biglietto da visita per entrare nel club dei socialmente rispettabili. Se poi a ciò si aggiunge che non vi era l’alibi culturale del “voler capire le ragioni” ma solo un viscerale impulso pornografico, bè fatevi due conti e tirate le vostre conclusioni su quale potesse essere la mia fama.
In realtà non sono mai stato un masochista; non lo facevo per alienarmi simpatie, per farmi tabula rasa attorno, certo ho sempre nutrito un disprezzo asoluto per il genere umano di oggi, per questo degradato ammasso di punti di carne, ma nemmeno la misantropia forniva adeguata giustificazione. E nemmeno un frainteso senso di super-omismo, magari devoluto al porre un argine che mi separasse dal consesso dei probi. Molto più semplicemente, e molto più banalmente, lo facevo perché lo volevo fare. Perché mi piaceva farlo. Mi gratificava reperire quei materiali, metterli assieme, scrivere e porre il tutto in una luce più soddisfacente per quelli che sono i miei gusti. Motivazioni profane, e incomprensibili per chi è abituato ad incasellare tutto in griglie comportamentali.
E intendiamoci bene, non mi interessava nemmeno un quoziente di provocazione fine a se stessa; non c’è nulla che sia degno di essere provocato, a meno che non si stia parlando di energie interiori ed impulsi metasessuali.
Adesso però la musica è radicalmente cambiata; in un quadro di generale accettazione di certe tematiche, in una società che tollera l’acquisto da parte di stimabili cittadini di libri che contengono descrizioni precise e vivide di cannibalismo, sevizie sessuali, stupri, omicidi, e che propone mediaticamente analisi quasi pornografiche di omicidi ed eventi di cronaca nera, tutto ciò che scrivo diventa altro. Me ne sono reso conto da ultimo.

Fornisco un commento sociologico sulle dinamiche comunicative, una critica dell’ipocrisia dei media che condanna da un lato emulazione e morbosità e poi dall’altro pastura nell’oggetto oscuro del desiderio. Non vorrei fornirlo, non mi interessa fornirlo, così come continua a non interessarmi il delineare uno scenario di shock culturale, di provocazione artistica…eppure è tutto cambiato, la Fortezza Bastiani dentro cui mi nascondevo aspettando i barbari è crollata in modo sonoro e disgustoso. L’accelerazione del degrado sociale mi ha sommerso.
Probabilmente una persona potrebbe indignarsi per ciò che ho scritto e che in una qualche misura (anche se meno di prima) continuo a scrivere, perché la pornografia non è mai tollerata, soprattutto quando è sincera ed ha qualcosa da dire; l’ipocrisia regna sovrana e la casalinga che si masturba il cervello tra Cogne e il massacro di Erba non ammetterà mai di farlo. Dirà assai semplicemente che vuole essere informata e al corrente dei fatti. Tanto per avere qualcosa di cui parlare dal parrucchiere o mentre fa la fila in posta.
Questa volgarizzazione dell’omicidio è disgustosa. E non lo dico per moralismo; non tutelo il presunto valore sacrale dell’esistenza umana. Non potrebbe interessarmene di meno, detto francamente. Ma mi infastidisce l’idea che queste schiere di persone si crogiolino nell’ipocrisia più pura, che leggano e guardino la tv senza sapere bene perché, che agiscano in punta di istinti mai del tutto compresi e razionalizzati.
Adesso davanti al processo di Erba/Como trasformato in arena rock, persino le cose che scrivevo nel 1995 impallidiscono e scolorano visibilmente. Davanti alla caccia al biglietto, nemmeno suonassero i riformati Pink Floyd, davanti alla ressa, alla calca, ai flash dei fotografi, tutto quello che ho scritto e che scrivo assume una luce diversa. Diviene altro. Altro da se stesso.
E la cosa peggiore è che adesso sono io a suonare come un moralista.

Rachel Bess







Arte sacra, arte sessuale; come una lunga inesausta esplorazione della dimensione privata, l'arte di questa giovane artista statunitense diventa locus privilegiato per considerare i limiti della fisiologia umana. E delle urgenze sessuali, appunto, che animano l'uomo contemporaneo.
Unendo in simbiosi una caratterizzazione quasi classica e ieratica, nel maestoso rosso pompeiano dei panneggi che appunto quasi come un Caravaggio post-moderno richiama il contrasto tra luce e tenebra, tra vita e morte, ed una voluttuosa sensualità smaccatamente visuale, decostruita tra feticismi e Bondage e anche semplice contemplazione silente, la Bess riesce a dare vita ad un corpus non indifferente di ritratti vitali, pieni di significato.
Non a caso la sua opera si coniuga bene alla dimensione dell'illustrazione, al servizio di scrittori ma mai divenendo puramente servente o ancillare.
Ha esibito le sue opere nelle maggiori gallerie underground americana e sue illustrazioni compaiono nelle riviste seguenti:
Stretching Canvas Magazine (First Issue!), Gennaio 2008, illustrazioni per la scrittrice Amy Young
Phoenix New Times, "Best of Phoenix" 2007
Phoenix Magazine, Ottobre 2007
Desert Living Magazine, Marzo 2007
Phoenix New Times, Novembre 2006, illustrazioni per lo scrittore Clay McNear
Kansas City Star, Settembre 21, 2006, illustrazioni per lo scrittore Alex Schubert

lunedì 28 gennaio 2008

Al-Muqanna, un nichilista islamico




Ecco a voi il Profeta islamico eretico Al-Muqanna (Hashim Ibn Hakim) su cui sembra che Lovecraft abbia costruito la figura letteraria del suo Arabo Pazzo autore del Necronomicon. Originariamente governatore della città di Khorasan, guidò una feroce rivolta contro il Madhi (siamo in epoca immediatamente post-maometto) , fino a proporsi come nuova incarnazione della Divinità: il suo credo consisteva in una radicale mescolanza di misticismo islamico e di zoroastrismo, e venne col tempo radicalizzandosi predicando l'uccisione di chi non aderiva alla sua visione del mondo (si registrano in effetti centinaia di uccisioni...) e arrivando a sostenere che l'immagine di Dio non deve mai essere riflessa o replicata. Per questo vietò gli specchi, l'arte e...la procreazione.
Ragion per cui, il Califfato decise di toglierlo di mezzo e gli dichiarò una guerra senza quartiere. Braccato e senza scampo, Al-Muqanna (il Dio Velato) si avvelenò e pose fine ai suoi giorni.Di lui parlano Thomas Moore nel poema Veiled Prophet of Khorasan e soprattutto Borges nel suo capolavoro Storia universale dell'Infamia, nel racconto Hakim of Merv.
Il compositore Stanford gli ha dedicato una intera opera Requiem / The Veiled Prophet of Khorassan .
Dopo la morte, i seguaci superstiti sprofondarono nel puro messianismo attendendo il ritorno del loro Guru.
Da decenni è attiva in America una Confraternita che porta il suo nome e che organizza, ironia della sorte, il Mardi Gras di St Louis.

Krzysztof Wlodarski







Wlodarski è un giovane artista di origine polacca evidentemente influenzato tanto dalle recenti correnti medical fetish quanto dall'iconografia classica, propria e della martirologia cristiana medievale e dell'arte più a noi vicina nel tempo (Goya, richiami espressi all'Azionismo Viennese); in alcuni tratti ricorda un Saturno Buttò meno pastoso e meno definito, ma più avvinto da cascate di ombra, indefinibili schegge alla Bacon. Come ha modo di affermare, nei suoi dipinti cerca di ricreare quel senso di solitudine che anche nel sesso è possibile sperimentare (d'altronde basta leggere Sexe et Solitude di Benderson per comprendere che è perfettamente vero), l'alienazione della mania sessuale e quelle urgenze viscerali che emergono dal profondo del senso esistenziale deprivato.

Peter Marcek
















Peter Marcek è nato a Zilina, in Slovacchia, nel 1943; ha studiato a Bratislava e si è laureato in Architettura. Anche se il suo amore per disegno, pittura e scultura risale alla tenera infanzia; i suoi dipinti sono un evidente florilegio di post-surrealismo, in cui elementi pop si uniscono a strutture più classicamente surreali (da Dalì a Beksinski) e a sfumature tipologicamente ascrivibili ai Maestri del Rinascimento. Lavora come grafico pubblicitario e ha realizzato anche lavori istituzionali, come una serie di emblemi per Università slovacche e per festival musicali. Ha esposto in Canada e negli Stati Uniti.



domenica 27 gennaio 2008

martedì 22 gennaio 2008

49


1 – La pioggia scroscia sulla tettoia della fattoria, tra spessi strati di nebbia e miasmi putrescenti di carne e fanghiglia.
2 – Un urlo carico di orrore e di dolore fende la solitudine artefatta. Dolore; parola che assume nuove inusitate vette di deliziosa consistenza, una volta che sia messa a confronto con la potenza dell’Uomo che adesso fuma un sigaro e ascolta musica da uno stereo mezzo rotto, fermo sulla soglia di casa. Guarda la linea d’orizzonte, la boscaglia nebbiosa, il cielo plumbeo, e si compiace nella modulazione dei singhiozzi, nella loro infinita varietà. D’un tratto una scarna figura femminile completamente nuda gli balza davanti, il volto scarmigliato, coperto di escrementi, sangue rappreso ed una furia gonfia di umiliazione. L’uomo non presta attenzione alla richiesta di soccorso e di pietà, si limita a gettare al suolo la cicca e ad imbracciare la carabina.
3 – Scoppio. Sordo. Roco. Echeggia, unito al suono di morte, bocca rattrappita nella sofferenza e nella sorpresa. Ragazza stesa in una pozza di sangue e fanghiglia. Un maiale grufolante le si accosta e inizia a lappare l’acqua tinta di rosso.
4 – Smembramento sistematico operato con certo grado di perizia e di conoscenza anatomica, sega gli arti, estroflette la carcassa e le ossa, accuratamente seleziona i quarti migliori da gettare nella porcilaia, mentre il sangue zampilla nella pioggia, ed i maiali che hanno fiutato il prossimo pasto si accalcano contro la recinzione di legno.
5 – Spegne lo stereo.
6 – Raccoglie i vestiti e li ripone in un baule, già ingombro di reggiseni, patetiche tshirt hippies, stivali di latex e alcuni ridicoli corsetti fetish. Pensa che lo spazio a disposizione sta per finire e a breve sarà necessario comprarne un altro. Dei vestiti non sa cosa fare. Sbarazzarsene, venderli in qualche mercatino dell’usato, metterseli per una serata divertente di necro-travestitismo. Molte possibilità, la tentazione di andare giù in paese a disseminare la strada con quei cimeli gridando in faccia alla popolazione “ohhh, guardate cosa faccio alle vostre figlie, guardate come mi diverto”, ma cambia idea quasi subito. Quelle non erano figlie, erano solo puttane della peggior specie. Nessuno sente la loro mancanza, nemmeno i loro genitori. Probabilmente ne sentiranno la mancanza solo quando la polizia lo arresterà, se mai ciò avverrà, e qualche televisione si offrirà dietro lauto compenso di intervistarli e di renderli premurosi genitori affranti e colpiti al cuore da un sadico bruto.
7 – Un maiale non si pone il problema di assaggiare carne umana. Un maiale non si pone alcun genere di problema. Scanna, trangugia, morde, strappa come uno squalo in piena frenesia. Meno elegante di uno squalo, ma non meno efficace. Della puttana non resta che una poltiglia putrida e nauseabonda, frattaglie aggrovigliate gettate alla rinfusa sul fondo della porcilaia.
8 – La salsiccia è un piatto che piace molto giù in paese. La prossima sarà una salsiccia ripiena. Sorpresa, sorpresa!
9 – La sua solitudine non è tanto male. Accudire le bestie, spaventare le faine e i rari lupi, dare una sistemata al generatore elettrico, preparare i pasti, pulire dentro casa, abbordare qualche idiota puttana tossica, ballare con lei, fumarsi una canna, fotterla, poi prenderla a bastonate, seviziarla con le cesoie, strangolarla, farla a pezzi e darla in pasto alle sue meravigliose bestie. Una routine tutto sommato affascinante, non troppo varia ma d’altronde la società moderna questo offre.
10 – Va in bagno a scaricarsi la vescica. Non soffre di euresi notturna. Non ha mai torturato animali. Non ha avuto una infanzia particolarmente traumatica. Certo, dei problemi ci sono stati ma come se ne trovano al giorno d’oggi. Nulla che nei parametri dei Geni della criminologia contemporanea possano giustificare quella dissoluta carnografia. Tanti saluti al cliche.
11 – Interno soggiorno, fioca luce arancione, è intento a sorseggiare caffè caldo e a leggere il giornale. Annunci di persone scomparse. Ricerche della polizia. Economia. Le previsione metereologiche.
12 – Dove ha lasciato il pacchetto di sigarette ? Controlla nell’aia, sul davanzale dove fa crescere una piantina di marijuana, poi dentro, batte stanza per stanza. Alla fine le trova in bagno, sul lavandino. Certe volte è così sbadato.
13 – Una donna che urla di dolore, che chiede pietà, che ricerca una miserabile compassione sapendo bene di essere spacciata. Ecco il suo hobby.
14 – E’ notte ormai. Fuori continua a piovere. Deve farsi una doccia, lavare i vestiti. E’ sporco di piccole stille rosse e di una crema fangosa, ha il volto insudiciato. Poi verrà il tempo della cena, del telegiornale, e del sonno.
15 – I rumori della notte in campagna, acuiti dal ticchettare ritmico della pioggia, sono infernali. Chi parla di calma e quiete dovrebbe trascorrere un po’ più di tempo tra i boschi. Frasche agitate dagli animali e dal vento, un gufo che non lo lascia in pace da giorni ormai, il sibilo stesso del vento che si incanala tra le assi della porcilaia producendo una sgraziata cacofonia.
16 – Alba grigia. Foschia a cingere i confini del bosco e della strada. Sguardo distratto e ancora assonnnato. Il caffè sta bollendo.
17 – La tettoia della porcilaia necessita di una sistemata. Ora però non ne ha tempo, deve tenerlo a mente. Si fa un rapido conto mentale della spesa necessaria, deve comprare il caffè, le sigarette, altra corda, la maionese. Poi che altro? Non ricorda. Non è un problema, la memoria gli tornerà strada facendo.
18 – Il pick up pure non se la passa troppo bene. Il motore va su di giri emettendo una sorte di tosse catarrosa, ed ogni volta che spinge sull’acceleratore ecco che sembra avvicinarsi la fine. No, cazzo, non mi mollare proprio adesso, pensa bestemmiando. Prova un profondo senso di frustrazione. Certo misto a rabbia.
19 – E’ una persona gentile. A parte quando ammazza.
20 – Detesta la città, agglomerato confuso e grigio di miserie umane affastellate in un criptozoo per esperimenti sociologici; benedice il suo buen retiro, oh si viva la buona e dignitosa solitudine boschiva. Viva la muerte.21 – Entra in un bar. Ha parcheggiato il pick up in una piazzola poco distante, sperando che qualche moccioso cittadino non gli tiri un brutto scherzo. L’ultima volta gli avevano sgonfiato le gomme anteriori ed aveva dovuto perdere tutta la mattinata per ripararle. Quello era stato un pessimo giorno, davvero.
22 – Nel bar, ci sono ispanici, slavati esemplari di cittadini avvezzi all’ignavia più pura, un paio di puttane, il barista che è un ciccione ributtante con il volto coperto di sudore e brufoli. Si siede al bancone, ordina una birra, si guarda un po’ attorno mentre proseguono le partite a biliardo con sottofondo di pessima musica techno.
23 – Non deve avere una ottima cera, visto che nemmeno una delle puttane lo approccia chiedendogli se abbia voglia di divertirsi. Ad ogni modo, poco male; non ha voglia di divertirsi, e non con loro. Gli assassini mica sono stupidi; qui c’è troppa gente, potenziali testimoni, chè se solo si azzardasse a caricarsene una lo riconoscerebbero subito.
24 – Non gli è mai andato a genio il personaggio del Dottor Lechter, il cannibale pozzo di scienza de Il Silenzio degli Innocenti. La storia è stupida e banale, e nessuno dei personaggi è anche solo lontanamente credibile. Generalmente un serial killer non sa di essere un serial killer. Altrimenti in giro ci sarebbero libri migliori.
25 – Beve la sua birra, paga il conto e poi esce frettolosamente.
26 – Il contatto con il genere umano lo deprime, vedere quei puntolini di carne, esistenze insignificanti che si trascinano nel nulla cittadino, no non è uno spettacolo edificante. Preferisce i suoi maiali, decisamente.
27 – Quando un mondo è così stupido da considerare criminale chi netta le strade da quelle disgustose prostitute, allora significa che il tempo dell’Apocalisse è giunto. Intendiamoci, lui non sente imperiose voci che gli ordinano di agire, e nemmeno percepisce lo stridore di ordine morale che sempre accompagna i giustizieri. Lui non lo fa per giustizia o per pulizia metropolitana, lo fa per il suo piacere. Perché gli piace farlo. Ma ha ancora un minimo di amor proprio e sa che la società in cui vive è davvero ripugnante. Se invece fosse una società equa, non lo ostacolerebbero nella sua caccia perenne.
28 – Dove è la sua pietà ? Probabilmente è rimasta in quella cabina di peep show, tra tette siliconate, musica di serie z, kleenex sporchi di sperma e pagine strappate del Libro di Mormon.
29 – Le strade cittadine si inseguono lungo impercettibili variazioni, muri graffitati, carcasse metalliche di auto, sferragliare della ferrovia e bus e pedoni e periferia del cuore sedimentata lungo le direttrici della morbosità.
30 – Chiosco di giornali e riviste. Compra un paio di giornaletti sadomaso. Distrattamente, come un broker newyorchese avrebbe acquistato il Wall Street Journal. Ah, che miseria la vita della persona socialmente rispettabile !
31 – La pornografia lo annoia. Per questo preferisce crearsela da solo, con i suoi parties a base di donnine, marijuana, ottima musica e morte.32 – Passa in rassegna i suoi fornitori, depenna le cose che doveva comprare man mano che le compra. Poi va in macelleria, anzi nelle macellerie che lui stesso rifornisce di carne suina. Pacche sulle spalle, discorsetti di circostanza, si sente chiedere come vanno le cose giù in fattoria. Risponde banalmente che non c’è male. Perché in fondo non c’è un male, ma prima di inabissarsi nel baratro nietzschano ne riemerge facendo presente che dal mese prossimo aumenterà il prezzo delle consegne.
33 – Gesù è morto per noi, recita un cartello neon fluorescente. Roba tutta da meditare.
34 – Le sue letture preferite sono i libri gialli, le riviste porno, quelle di allevamento e quelle di armi. E’ abbastanza appassionato di armi, anche se preferisce strangolare. Gli ultimi sussulti pre-agonici della vittima rappresentano il vero trofeo del killer, e gli dispiace sempre quando deve finire qualcuna con una fucilata. Ma capita, può in effetti capitare, che sia troppo stanco per profondere la giusta energia tanto nella violenza sessuale quanto nello strangolamento, che per essere soddisfacente deve essere lento e godurioso; dare una minima illusione di sopravvivenza alla vittima, allentando un po’ la presa, farle dolorosamente assaporare l’aria per poi tornare a negargliela. Si eccita al solo pensiero.
35 – Adora Johnny Cash. Ma non ha un lettore cd, quindi si accontenta molto diplomaticamente di ciò che la radio passa.
36 – Ammette che circuire una puttana non sia gran cosa. E’ molto facile. Quasi scontato. Ma non può immaginare vittima migliore.
37 – Irruzione nelle case per rapire rispettate teenager che studiano all’università; ma di cosa stiamo parlando ? Il motivo per cui spogliarelliste, puttane e autostoppiste sono vittime privilegiate sta proprio nel loro essere disponibili, ingenue e pronte alla scommessa. Ted Bundy aveva l’aspetto rassicurante e gentile di un avvocato, una notevole parlantina e modi affabili, ecco lui sì che poteva mirare ad un target più alto.
38 – Un allevatore di maiali quale target può mai avere se non delle tossiche e delle prostitute ?
39 – Finita la spesa, caricato il pick up, mette in moto e si dirige dove ama cacciare; lungo la ferrovia, tra i ponti, dove le puttane più a buon mercato vendono le loro macilente carni.
40 – Tossicodipendenti vanno bene, ma non da crack. Non ama quel genere di supina sottomissione, non cerca manichini ma donne che per quanto abiette e devastate dalla vita siano poi in grado di opporre un minimo di resistenza, che possano lottare per la loro sopravvivenza.
41 – Non fa distinzione tra bianche e negre. Non è razzista.
42 – Contrattare è sempre divertente, perché lui parte da una posizione privilegiata; sa già che non le dovrà pagare davvero, quindi può avventurarsi a proporre cifre convincenti. D’altronde quando fa presente che andranno da lui, in campagna, diventa necessario vincere il fisiologico scetticismo. Lui lo vince mettendo sul piatto diverse banconote.
43 – Passa in rassegna eserciti di carne semi-nuda.
44 – Ogni volta si sincera che nessuno annoti la sua targa; per questo cerca di comportarsi in modo tranquillo, di essere a suo agio. Di non creare casini o incidenti di nessun tipo.
45 – Si avvicina ad una negra dall’aspetto non troppo eccitante. In sovrappeso, cellulitica, evidentemente tossicodipendente, probabile abbia una estesa famiglia da mantenere.
46 – La abborda. Gentilmente chiede quanto vuole per una prestazione, le dice che andranno da lei ed offre un notevole extra. Poi parla di marijuana.
47 – Puttane schizzinose non esistono, per sua fortuna. Quella accetta, sale sul pick up.
48 – Fa manovra, torna sulla strada principale, diretto fuori città. Si va a casa, pensa con una certa soddisfazione.
49 – Ha smesso di piovere.

domenica 20 gennaio 2008

Per la Morte Totale


Qualcosa di grande, una visione di fiamma e sangue s’avanza tra le macerie dell’esistenza umana; non so, a volte veramente perdo ogni forma di interesse nel genere umano e mi tengo avvinto all’illusione di una qualche muraglia che mi separi dal resto dell’umanità. Pensi, e lo pensi con un misto di disgusto e riprovazione che non è giusto (proprio giusto pensi, dato che la giustizia non è più di questo mondo, forse non lo è mai stata e quanto tempo si impiega a gingillarsi in questa devastazione di ipocrisia nullificante) lasciarsi rivoltare dalla ipocrisia degli altri, ribellarsi per gli altri, lottare per gli altri; la massa non ama, non odia, la massa si genuflette nel silenzio caotico della paura, stalattiti di attimi fobici infranti contro mute scogliere di dolore. Socialità impazzita nel lento morire di metropoli intrise di neon, e io me ne vado da ciò, lo dico con chiarezza; triste lasciarsi alle spalle questa consapevolezza non più politica, ma non ho altra scelta.
Come scriveva Dostoevskij “ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l'uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l'uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l'uomo di carattere, l'uomo d'azione, dev'essere una creatura essenzialmente limitata. Questa è la mia quarantennale convinzione. Ora ho quarant'anni, e quarant'anni sono tutta una vita; sono la più decrepita vecchiezza. Vivere più di quarant'anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre i quarant'anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni. Lo dirò in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi venerandi, a tutti quei vegliardi profumati e dalle chiome d'argento! Lo dirò in faccia a tutto il mondo! Ho il diritto di dirlo, perché io stesso camperò fino a sessant'anni. Fino a settant'anni, vivrò! Fino a ottant'anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciatemi riprender fiato...”
Non è malinconia, depressione, algido contegno che ti porti allo sdilinquimento totalizzante, non stai fermo a contemplare da una torre di vetro l’evoluzione dell’apocalisse e il flusso della corrente che si trascina dietro i cadaveri; i paradigmi del moderno mi annoiano, lo sapete. Ma certo non mi sogno la notte improbabili ritorni ad un medioevo solo vagheggiato, sono ben felice di vivere questa fase di corruzione e di decadenza in cui persino un essere moralmente riprovevole come il sottoscritto scintilla e si illumina di quel tetro neon chiamato Differenza; oh, differente rispetto a quella massa bovina, a quella palude pontina di degoubineauiana memoria dove i popoli vanno a deturpare la memoria dei loro ultimi giorni, non certo avvinto dalla Differenza fine a se stessa che poi porta molti a confondere l’Ideologia con il Circo.
Non ho più una ideologia. Io sono circondato dal mare di tenebra che nutre il nichilismo, vedo le fiamme baluginare lungo la linea di orizzonte e invece di mettermi a suonare il de profundis di questa devastata società eccomi pronto a propiziarne, ad augurarmi (nel senso latino, quasi di vaticinio), l’accelerazione della distruzione; voglio vederle quelle fiamme ardere la carne e le ossa dei bravi cittadini, di quei bravi borghesi che già Genet indicava come vermi della peggior specie, omaggiati poi dall’essere divenuti nomi su marmo e oro dopo il transito forzato attraverso quei bei campi di morte dai nomi di Dachau, Dora, Ravensbruck. Il sole ed il cielo d’inferno già li vedo dischiudersi, come un’alba di sangue, e i borghesi invece nulla, tacciono chiusi nei loro baccelli di rispettabilità, avvinti solo dalle loro mere preoccupazioni deteriori. Esistenza ciclica e meccanica che si reitera nella non-morte assurta a non-vita, tra balletti, spot, modus vivendi plastico e tante altre idiozie.
Quanto sarà divertente vederli cadere uno dopo l’altro. Il divertimento, di preciso, starà nei loro sguardi attoniti e sorpresi. Come un gentile, grigio travet all’ultimo piano delle Twin Towers, intento nella sua becera routine quotidiana con alle spalle lo spettro di acciaio del destino.
La vita passa per tutti, ma per molti devo dirlo sarebbe meglio non iniziasse nemmeno a scorrere. Per molti intendo una percentuale affine al 99,99% dell’umanità; massa, popolo, termini che mi inquietano e che mi ispirano un sincero conato. E disgustato, nauseato, prossimo al vomito barcollo sul baratro dove potrò finalmente scaricare dall’esofago il mio senso dello Stato.
Oh, che vita. Il nichilismo ci insegna che la vita non è un valore assoluto, mentre invece il povero giudeo-cristiano terrorizzato dal ricatto del suo dio invisibile, un dio che puzza di corruzione, morte, ignavia, parassitismo, non fa altro che starsene tremante a terra, ad invocare clemenza e misericordia. Compassione e pietà, entrambe andate oltre la loro fattuale dimensione connaturata alla nobiltà dell’animo e rese solo vuote parole buone per qualche mensa. Questa sarebbe una vita? Cartellini, rate del mutuo, impegni coniugali, rituali alterati nel loro significato profondo, romanticismo intossicato, mode di pronto consumo, ipocrisia assoluta. Si, bella vita davvero.
Ma allora lasciate che la Morte, la buona Morte, si stenda come un sudario sullo sterco definito genere umano. Lasciate che lo spirito infiammato di Necaev, e di mille come lui, possa erompere dal nostro petto e vaghi ramingo per il mondo seminando il panico, il caos, l’odio. Deliziose parole queste.
Caos – la semplificazione delle dinamiche sociali, l’instaurazione delle leggi naturali, dominate e governate dalla gerarchia naturale in luogo della gerarchia meramente istituzionale.
Odio – la spinta a superare l’esistere, il vero vivere, la brama carnale di conquista e devastazione. Nessuna pace, nessuna virtù, ma solo il gusto della Potenza colto nel suo immane crescere.
Panico – liberazione dalle inutili sovrastrutture pietiste, estasi attraverso il tormento interiore ed altrui, in tempo di fogna e di palude, in tempo di pace, davvero il Guerriero , come sosteneva Nietzsche, non può che accanirsi su se stesso.
Non vivo nel trionfo del non-essere, io vivo attraverso il non-essere. Essere cosa ? Atomo incardinato nel meccanismo vaniloquente della socializzazione? No, non può essere; il nemico oggettivo è chi ci mette in questione, diceva Schmitt e lo diceva nella sua beata solitudo conventuale amorevolmente custodito dalla democrazia americana. Chi ci mette in questione oggi? Chi nega valore alla solitudine e ci impone una socializzazione che ricorda nei suoi lineamenti strutturali quella rieducazione di memoria comunista. E in tutto questo il nichilismo non indica una via ma diventa via esso stesso. Stadio della liberazione finale, e nella gloriosa distruzione siamo pronti ad agire.
Segno dei tempi è che io abbia sgranocchiato noccioline mentre vedevo le Torri di New York abbattersi al suolo in un fungo di polvere e ferro, non ho provato il minimo senso di compassione per quegli “eroi” (la società moderna qualifica come “eroe” chiunque non sia stato abbastanza sagace, forte o fortunato da sopravvivere a qualcosa) che facevano il bungee-jumping senza la corda ai piedi. Anche se mi sono chiesto; se davvero prima di morire vediamo in un flash tutta la nostra esistenza, quei poveri zombie che mai avranno visto? Perché bisogna meritarsela una buona morte, una fine dignitosa.
Dramma è che tirare a campare sia divenuto sinonimo di andare avanti; l’andare avanti era un anelito titanico, una volontà di potenza sublimata e trasfigurata che portava a superare le difficoltà contingenti. Io non lo so più cosa attende questa società, ho passato così tanto tempo a maledirla che alla fine ho raggiunto la piena armonia mantrica tra l’oggetto del mio odio e l’odio stesso. E questo è male, perché mi porta a crogiolarmi nella più pura dimensione ascetica. Lontano dal vivere altrui, alieno alla socialità, coltivo beato e contento una sdegnosa solitudine, detesto i sorrisi senza senso di chi vagola per le strade, le loro raggianti inutilità divenuti chiodi ontologici conficcati nelle carni di chi fugge dall’ontologia…Essere, tempo, dove dove sono mai finiti nell’oggi? Li senti frusciare tra le frasche e tra i rami degli alberi forse, su quei sentiri di versi notturni alla Holderlin, nel fluire dinamico della grazia post-moderna. Le piante, si davvero, ci insegnano il dolce morire dei Pagani, come scriveva Daubler; ci penso ogni volta che il vento fa stormire le fronde degli alberi al cimitero, dove vado a trovare mia nonna. Ci penso mentre vedo i loculi, le lapidi e le tombe, il tutto allineato in una composizione non più marziale, né funerea ma socializzata, una architettura che porta persino i morti a stare vicini gli uni agli altri, le cappelle votive e gli angeli di marmo scomparsi e al loro posto cubicoli di cemento grigio. Le piante che restano cantano la desolazione degli ultimi pagani, come un rullio di tamburi e poche tremule fiaccole ad irrorare di luce il cammino notturno. Anche le città che somigliano sempre più a cimiteri, orridi cimiteri, si fanno cattedrali della bruttezza; aveva ragione Caraco, non potremo mai cambiare le nostre città se non distruggendole, se non facendole a pezzi dal profondo. Solo allora non indietreggeremo davanti a nulla.


Sono talmente appagato dalla solitudine che il minimo appuntamento è per me una crocifissione.
Cioran

giovedì 17 gennaio 2008

Il Mucchio Selvaggio - la PornoControcultura





Da una parte i fan del rap dall'altra i ravers tatuati, con i loro suoni impossibili. In mezzo gli sbirri corrotti e le loro malsane abitudini. Nelle borgate romane si combatte come nel Bronx al tempo dei Guerrieri della Notte. In salsa eroticopulp e con un pizzico di humor grottesco. Il resto sono colpi di pistola, pestaggi e concerti, sullo sfondo di una metropoli allo sbando che assomiglia a quella che Pasolini aveva cominciato ad immaginare tanti anni fa. E poi il sesso: hard.
Perchè altrimenti che porno sarebbe? Sono questi gli ingredienti di uno dei film più interessanti degli ultimi anni: Mucchio Selvaggio, prodotto da Silvio Bandinelli.
Nel cast, Elena Grimaldi, Laura Perego, Omar Galanti, Marco Nero, Fausto Moreno e Franco Trentalance,Dirige Matteo Swaitz, uno che la scena rave la conosce veramente.
Club Dogo, Violetta Beauregarde, Truceklan, Metal Carter...
I Dogo sono stati da paura; Jake la Furia ha interpretato la sua parte benissimo, poi era mezza improvvisata ed è andato alla grande. Duke Montana che è uno dei protagonisti è stato quasi ogni giorno sul set e lo voglio ringraziare per la disponibilità. Con i Truce poi c’è un sodalizio cementato, oltre a questo film infatti ho girato per loro alcuni videoclip, poi siamo amici e ci vediamo quasi tutti i giorni per fare disastri insieme. E' stato strano girare la scena con Violetta che non è un’attrice hard ma un’amica. La parte più bella è stato pagarla per quello che fa nel film: hahahahah!

sabato 12 gennaio 2008

Wiligut - Il Signore delle Rune





Ci sono state molte speculazioni sulla “radici occulte” del Nazionalsocialismo, ma, fino ad ora, la documentazione originale per studiare il fenomeno è sempre stata molto ridotta. Questo volume in lingua inglese ha richiesto dieci anni di lavoro e contiene la raccolta degli scritti occultistici di Karl Mari Wiligut, l’iniziato delle rune ed oscuro “re segreto” della Germania.
I suoi scritti furono pubblicati nelle rare riviste ariosofiche Hag All All Hag e Hagal.
Heinrich Himmler – capo della SS e verosimilmente la persona più potente del terzo Reich – commissionò a Wiligut lavori privati sulle Rune, la tradizione germanica esoterica, e la preistoria. Fu per questa sua posizione influente che Wiligut divenne conosciuto dopo la sua morte come “il Rasputin di Himmler”. Accuratamente tradotti dallo storico ed esperto in antichità tedesca Dr. Stephen E. Flowers e pubblicati da Michael Moynihan questi scritti gettano un fascio di luce sullo strano mondo magico che affascinava gli alti ranghi della Germania nazionalsocialista.
Il volume contiene: una completa e dettagliata biografia della turbolenta vita di Wiligut ed un’analisi della sua visione del mondo fatta da esponenti dell’ariosofia del passato e del presente, la traduzione dei suoi principali scritti, il testo della misteriosa invocazione di Wiligut “Halgarita”, documenti privati inoltrati direttamente a Himmler, un documento di Himmler sulla cerimonia del conferimento del nome all’interno dei capi SS diretta dallo stesso Wiligut, un intervista esclusiva con Gabriele Winckler-Dechend amico intimo di Wiligut al tempo del suo servizio nelle SS.


The Secret King : Karl Maria Wiligut, Himmler's Lord of the Runes (Il Re Segreto: Karl Maria Wiligut, il Signore delle Rune di Himmler) tradotto in inglese dal Dr. Stephen E. Flowers., redatto da Michael Moynihan. Pubblicazione congiunta della case editrici Dominion Press e Runa-Raven Press, 2003

venerdì 11 gennaio 2008

Lo Stupro della Cultura





Benigni che legge Dante.
Potete immaginare uno schifo piu' assoluto e corrotto di quella faccia finto-emaciata che tenta di lambiccarsi in borborigmi intellettualoidi, senza pero' partecipazione, senza comprensione, senza nulla che renda Dante degno di essere letto ? Il flusso costante dell'amorevole balla, parole che si fondono le une con le altre deprivate del significato sotteso, e tutto diventa elogio dell'inutile, del grigio, inferno, paradiso, purgatorio, tutto frullato e centrifugato e lavato con l'ammorbidente anestetico del politicamente corretto.
Metrica, zero.
Studio del linguaggio e dei fenomeni, via.
Ogni asperita', ogni significante esoterico o criptico come le fauci di Lucifero piallato con i residui del mastro Geppetto del suo mediocre Pinocchio.
Non dico Carmelo Bene, perche' li' stiamo in un Altrove magico ed impenetrabile come una Muraglia dipinta dall'aurora boreale, ma nemmeno Sermonti o Gassmann si erano mai cimentati nella volgarizzazione da Armata Brancaleone del verbo dantesco. Perche', diciamolo, Dante non e' Zelig, non e' una poesiola da leggio in mogano da appendere sul crinale delle buone intenzioni.
C'e' un mondo la' dietro.
Un cosmo di idee e frammenti e gelidi carsici fiumi delle possibilita' interrotte, come l'Ulisse di fiamma che non arresta il suo cammino davanti alla prospettiva di una dannazione che non conosce e non riconosce.
Ma Benigni...Benigni legge Dante come se Paola e Francesca fossero gli Amici di Maria De Filippi o in subordine i personaggi di Moccia; li senti quei versi, "recitati" in quel modo e ad un certo punto attendi con fiducia che s'avanzi un qualche lucchetto da Ponte Milvio.
La cultura non e' per le masse. E la televisione rende volgare tutto. E Benigni rende volgare e plebea persino la televisione.
Una donna sulla metro, in mano stretto l'ultimo libro di Fabio Volo, conversa amabilmente con la sua vicina di posto e le dice che Benigni l'ha fatta andare in fissa (letterale) con Dante.
Eccoli i frutti...Meglio la buona ignoranza, il coerente analfabetismo piuttosto che questa rincorsa verso la plastica totale.
Anni fa, subito dopo il successo della prima edizione de Il Grande Fratello, la Mondadori che stampava e stampa 1984 di Orwell, con trovata degna di miglior causa, fece apporre al libro in questione una fascetta gialla con su scritto "da questo libro e' tratto Il Grande Fratello".
Come resistere alla tentazione di iniziare a bruciarli i libri?

giovedì 10 gennaio 2008

Junk Film - Tsurisaki




Recensione a cura di Filosofo Gabriel

(chi fosse interessato ai film di Tsurisaki, Junk Films e Orozco, li può chiedere a Mondo Bizzarro Gallery il cui sito web trovate nella lista contatti in fondo alla pagina di questo blog)


Ho visto ieri sera il filmino maledetto.> Non ai livelli di Orozco, mi pare.> Comunque molto meno trucibaldo.> Trattasi di piccoli documentari su incidenti stradali colombiani, con> annesso cadavere più o meno squassato, disarticolato e visceralmente> estroflesso.> Il tutto gaiamente mixato, a fini di compassionevole diletto> pesudoumanitario, con repertorio di atrocità miste made in India, tra cui:> 1) un vecchiaccio sedicente fachiro colle unghie abbastanza lunghe da> operarsi da solo alla prostata;> 2) un mendico monco di fresco colla ferita ancora rubizza e aspra;> 3) un terzetto di pire funerarie con piedini arrostiti che spuntano > ridevoli> dalle fiamme, rigirati, di tanto in tanto, da un nonnetto non meno fetente> addetto a rinfocolare le braci;> 4) molteplici dementi d'ogni età che sguazzano goduriosi e inconsapevoli> nelle acque merdose del Gange;> 5) collettiva esumazione da ingluvie fangosa, e conseguente > scarnificazione> smembrante, di carogne umane per fini incomprensibili - essendo i> sottotitoli esplicativi della cosa in dialetto giapponese;> 6) confezione in scatola di cartone, tipo Mont Blanc, dei resti ossei di > un> tizio di cui certamente non sentiremo la mancanza,> e altre consimili amenità, che il regista riprende gongolante, colla pietà> umana di una scolopendra golosa.> Meritevole di attenzione l'episodio di rinvenimento notturno di uno > zozzone> opportunamente sottratto al mondo a colpi di cric.> Non solo il cervelletto del sicuro pappone giace esanime a qualche metro > da> lui (cosa che presumibilmente gli accadeva anche da vivo), ma allorché i> poliziotti rigirano la carcassa, la capocchia del tizio si fissura,> squaderna e sgarabulla anguriosa in due granulose parti di argomento> bustuale. Le medesime risultano tenute insieme solo da quel che resta di> antiche adenoidi, rivelando in fondo un grosso vuoto interiore.> L'assassino, per nulla pentito del suo debito formativo, viene ripreso da> Tsurisaki, estasiato, mentre una macchina della polizia lo conduce come> d'uopo al gabbio.> Bella anche la scena conclusiva, in cui il regista, mostrandosi riflesso > in> una vetrina del centro di Calcutta, svela infine al pubblico il suo > segreto:> tutti i filmini sono stati girati occultando la videocamera (cm 50 x 65 x> 38) nell'ano.

martedì 1 gennaio 2008

Un Canto di Morte




Elevo un canto di morte su ciò che sta morendo, e di fronte ai nostri reggenti da strapazzo, di fronte ai nostri impostori mitrati e di fronte ai nostri scienziati, i più dei quali non hanno raggiunto l’età della ragione, io, solitario e misconosciuto, profeta della mia generazione, murato vivo nel silenzio anziché essere arso vivo sul rogo, pronuncio le ineffabili parole che domani i giovani ripeteranno in coro. La mia unica consolazione è che la prossima volta moriranno con noi, i reggenti e gli impostori e gli scienziati, non rimarrà sotterraneo in cui questi maledetti possano sottrarsi alla catastrofe, non rimarrà isola dell’oceano in grado di accoglierli né deserto capace di inghiottire loro, i loro tesori e la loro famiglia. Rotoleremo tutti insieme nelle tenebre da cui non si ritorna, e il pozzo buio ci accoglierà, noi e i nostri dèi assurdi, noi e i nostri valori criminali, noi e le nostre speranze ridicole. Allora e soltanto allora giustizia sarà fatta, e verremo ricordati come un modello da non imitare più per nessun motivo, saremo il monito delle generazioni future e si verranno a contemplare gli orridi resti delle nostre metropoli, queste figlie del caos partorite da quale ordine!


Abert Caraco