domenica 20 gennaio 2008

Per la Morte Totale


Qualcosa di grande, una visione di fiamma e sangue s’avanza tra le macerie dell’esistenza umana; non so, a volte veramente perdo ogni forma di interesse nel genere umano e mi tengo avvinto all’illusione di una qualche muraglia che mi separi dal resto dell’umanità. Pensi, e lo pensi con un misto di disgusto e riprovazione che non è giusto (proprio giusto pensi, dato che la giustizia non è più di questo mondo, forse non lo è mai stata e quanto tempo si impiega a gingillarsi in questa devastazione di ipocrisia nullificante) lasciarsi rivoltare dalla ipocrisia degli altri, ribellarsi per gli altri, lottare per gli altri; la massa non ama, non odia, la massa si genuflette nel silenzio caotico della paura, stalattiti di attimi fobici infranti contro mute scogliere di dolore. Socialità impazzita nel lento morire di metropoli intrise di neon, e io me ne vado da ciò, lo dico con chiarezza; triste lasciarsi alle spalle questa consapevolezza non più politica, ma non ho altra scelta.
Come scriveva Dostoevskij “ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l'uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l'uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l'uomo di carattere, l'uomo d'azione, dev'essere una creatura essenzialmente limitata. Questa è la mia quarantennale convinzione. Ora ho quarant'anni, e quarant'anni sono tutta una vita; sono la più decrepita vecchiezza. Vivere più di quarant'anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre i quarant'anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni. Lo dirò in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi venerandi, a tutti quei vegliardi profumati e dalle chiome d'argento! Lo dirò in faccia a tutto il mondo! Ho il diritto di dirlo, perché io stesso camperò fino a sessant'anni. Fino a settant'anni, vivrò! Fino a ottant'anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciatemi riprender fiato...”
Non è malinconia, depressione, algido contegno che ti porti allo sdilinquimento totalizzante, non stai fermo a contemplare da una torre di vetro l’evoluzione dell’apocalisse e il flusso della corrente che si trascina dietro i cadaveri; i paradigmi del moderno mi annoiano, lo sapete. Ma certo non mi sogno la notte improbabili ritorni ad un medioevo solo vagheggiato, sono ben felice di vivere questa fase di corruzione e di decadenza in cui persino un essere moralmente riprovevole come il sottoscritto scintilla e si illumina di quel tetro neon chiamato Differenza; oh, differente rispetto a quella massa bovina, a quella palude pontina di degoubineauiana memoria dove i popoli vanno a deturpare la memoria dei loro ultimi giorni, non certo avvinto dalla Differenza fine a se stessa che poi porta molti a confondere l’Ideologia con il Circo.
Non ho più una ideologia. Io sono circondato dal mare di tenebra che nutre il nichilismo, vedo le fiamme baluginare lungo la linea di orizzonte e invece di mettermi a suonare il de profundis di questa devastata società eccomi pronto a propiziarne, ad augurarmi (nel senso latino, quasi di vaticinio), l’accelerazione della distruzione; voglio vederle quelle fiamme ardere la carne e le ossa dei bravi cittadini, di quei bravi borghesi che già Genet indicava come vermi della peggior specie, omaggiati poi dall’essere divenuti nomi su marmo e oro dopo il transito forzato attraverso quei bei campi di morte dai nomi di Dachau, Dora, Ravensbruck. Il sole ed il cielo d’inferno già li vedo dischiudersi, come un’alba di sangue, e i borghesi invece nulla, tacciono chiusi nei loro baccelli di rispettabilità, avvinti solo dalle loro mere preoccupazioni deteriori. Esistenza ciclica e meccanica che si reitera nella non-morte assurta a non-vita, tra balletti, spot, modus vivendi plastico e tante altre idiozie.
Quanto sarà divertente vederli cadere uno dopo l’altro. Il divertimento, di preciso, starà nei loro sguardi attoniti e sorpresi. Come un gentile, grigio travet all’ultimo piano delle Twin Towers, intento nella sua becera routine quotidiana con alle spalle lo spettro di acciaio del destino.
La vita passa per tutti, ma per molti devo dirlo sarebbe meglio non iniziasse nemmeno a scorrere. Per molti intendo una percentuale affine al 99,99% dell’umanità; massa, popolo, termini che mi inquietano e che mi ispirano un sincero conato. E disgustato, nauseato, prossimo al vomito barcollo sul baratro dove potrò finalmente scaricare dall’esofago il mio senso dello Stato.
Oh, che vita. Il nichilismo ci insegna che la vita non è un valore assoluto, mentre invece il povero giudeo-cristiano terrorizzato dal ricatto del suo dio invisibile, un dio che puzza di corruzione, morte, ignavia, parassitismo, non fa altro che starsene tremante a terra, ad invocare clemenza e misericordia. Compassione e pietà, entrambe andate oltre la loro fattuale dimensione connaturata alla nobiltà dell’animo e rese solo vuote parole buone per qualche mensa. Questa sarebbe una vita? Cartellini, rate del mutuo, impegni coniugali, rituali alterati nel loro significato profondo, romanticismo intossicato, mode di pronto consumo, ipocrisia assoluta. Si, bella vita davvero.
Ma allora lasciate che la Morte, la buona Morte, si stenda come un sudario sullo sterco definito genere umano. Lasciate che lo spirito infiammato di Necaev, e di mille come lui, possa erompere dal nostro petto e vaghi ramingo per il mondo seminando il panico, il caos, l’odio. Deliziose parole queste.
Caos – la semplificazione delle dinamiche sociali, l’instaurazione delle leggi naturali, dominate e governate dalla gerarchia naturale in luogo della gerarchia meramente istituzionale.
Odio – la spinta a superare l’esistere, il vero vivere, la brama carnale di conquista e devastazione. Nessuna pace, nessuna virtù, ma solo il gusto della Potenza colto nel suo immane crescere.
Panico – liberazione dalle inutili sovrastrutture pietiste, estasi attraverso il tormento interiore ed altrui, in tempo di fogna e di palude, in tempo di pace, davvero il Guerriero , come sosteneva Nietzsche, non può che accanirsi su se stesso.
Non vivo nel trionfo del non-essere, io vivo attraverso il non-essere. Essere cosa ? Atomo incardinato nel meccanismo vaniloquente della socializzazione? No, non può essere; il nemico oggettivo è chi ci mette in questione, diceva Schmitt e lo diceva nella sua beata solitudo conventuale amorevolmente custodito dalla democrazia americana. Chi ci mette in questione oggi? Chi nega valore alla solitudine e ci impone una socializzazione che ricorda nei suoi lineamenti strutturali quella rieducazione di memoria comunista. E in tutto questo il nichilismo non indica una via ma diventa via esso stesso. Stadio della liberazione finale, e nella gloriosa distruzione siamo pronti ad agire.
Segno dei tempi è che io abbia sgranocchiato noccioline mentre vedevo le Torri di New York abbattersi al suolo in un fungo di polvere e ferro, non ho provato il minimo senso di compassione per quegli “eroi” (la società moderna qualifica come “eroe” chiunque non sia stato abbastanza sagace, forte o fortunato da sopravvivere a qualcosa) che facevano il bungee-jumping senza la corda ai piedi. Anche se mi sono chiesto; se davvero prima di morire vediamo in un flash tutta la nostra esistenza, quei poveri zombie che mai avranno visto? Perché bisogna meritarsela una buona morte, una fine dignitosa.
Dramma è che tirare a campare sia divenuto sinonimo di andare avanti; l’andare avanti era un anelito titanico, una volontà di potenza sublimata e trasfigurata che portava a superare le difficoltà contingenti. Io non lo so più cosa attende questa società, ho passato così tanto tempo a maledirla che alla fine ho raggiunto la piena armonia mantrica tra l’oggetto del mio odio e l’odio stesso. E questo è male, perché mi porta a crogiolarmi nella più pura dimensione ascetica. Lontano dal vivere altrui, alieno alla socialità, coltivo beato e contento una sdegnosa solitudine, detesto i sorrisi senza senso di chi vagola per le strade, le loro raggianti inutilità divenuti chiodi ontologici conficcati nelle carni di chi fugge dall’ontologia…Essere, tempo, dove dove sono mai finiti nell’oggi? Li senti frusciare tra le frasche e tra i rami degli alberi forse, su quei sentiri di versi notturni alla Holderlin, nel fluire dinamico della grazia post-moderna. Le piante, si davvero, ci insegnano il dolce morire dei Pagani, come scriveva Daubler; ci penso ogni volta che il vento fa stormire le fronde degli alberi al cimitero, dove vado a trovare mia nonna. Ci penso mentre vedo i loculi, le lapidi e le tombe, il tutto allineato in una composizione non più marziale, né funerea ma socializzata, una architettura che porta persino i morti a stare vicini gli uni agli altri, le cappelle votive e gli angeli di marmo scomparsi e al loro posto cubicoli di cemento grigio. Le piante che restano cantano la desolazione degli ultimi pagani, come un rullio di tamburi e poche tremule fiaccole ad irrorare di luce il cammino notturno. Anche le città che somigliano sempre più a cimiteri, orridi cimiteri, si fanno cattedrali della bruttezza; aveva ragione Caraco, non potremo mai cambiare le nostre città se non distruggendole, se non facendole a pezzi dal profondo. Solo allora non indietreggeremo davanti a nulla.


Sono talmente appagato dalla solitudine che il minimo appuntamento è per me una crocifissione.
Cioran

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