lunedì 15 giugno 2009

Total BDSM


L’afa romana è stata testimone dell’ennesima bizzarria politico-sessuale, l’assalto al cielo portato dai praticanti di BDSM i quali evidentemente stufi delle discriminazioni subite nella società italiana si sono accodati alla comunità gay; senza forconi né baluginanti fiaccole, ma con più prosaici completi di cuoio addosso e frustini neri stretti in pugno i bdsmers hanno scalato la loro personale Bastiglia, in uno slancio assoluto di devozione ai principii egualitari del 1789 francese.
E’ da tempo che segnali sempre più nefandi ci arrivano dalla sedicente comunità dei praticanti di BDSM – convegni, workshop sul modello di quelli americani, tendenza all’associazionismo culturale e appunto rivendicativo, libri, saggi, attenzione che vira dall’aspetto sessuale a quello controculturale, una preoccupante caduta nel baratro del presunto antagonismo urbano per cui il BDSM diventa una trasgressione al vivere civile, borghese e stereotipato. Continuo a ritenere, come già faceva il R. Vaneigem de Il Libro dei Piaceri, che la trasgressione dei tabù sia il modello principale di reiterazione dello status quo capitalistico, valvola di sfogo facile e plastica per chi annoiato dalla routine potrebbe cominciare a pensare seriamente che non viviamo nel migliore dei mondi possibili – ed ecco allora l’anestetico dei sensi, la morfina dei genitali e delle sinapsi, non la pratica BDSM in sé quanto l’orripilante sovrastruttura intellettualistica che va insinuandosi al suo interno.
Hanno rivendicazioni da fare questi emuli nerovestiti del maggio francese - e se una volta al potere doveva salire l’immaginazione, adesso probabilmente ritengono più confacente allo spirito dei tempi il flogger; eccoci servite persino analisi psicosessualsociologiche di Abu Ghraib e delle torture CIA, il quoziente di liberazione sessuale della vittoria di Obama, e quindi la possibilità di evitare il ripetersi di quegli abusi polizieschi se la società accettasse ed abbracciasse le libere pratiche sessuali “alternative”. Ma se questa gente posasse per un attimo il libro, uno qualsiasi, di W. Reich e si concentrasse più acutamente sul senso interiore ed intrinseco delle pratiche BDSM capirebbe che spirito intellettuale ed idiozia quando parliamo di sesso vanno a braccetto; “molto spesso maschere di cuoio, fruste e attrezzi vari fanno apparire i praticanti di sadomaso assolutamente ridicoli se pensiamo che essi sono consenzienti” ha scritto Peter Sotos.
Non c’è dubbio che l’esibizione di una qualche consapevolezza politica sia un dolce nettare in grado di ripulire parecchie coscienze; non una liberazione verso e per l’esterno, ma una placida accettazione di se stessi perché si è intimamente troppo borghesi, troppo stupidi e troppo insicuri e si finisce per provare vergogna quando ci si confronta coi propri piaceri. Li si vive in modo colpevole, preferendo arricchirli ed abbellirli con formule politiche ed intellettuali che ci rendano meno “sporchi”.
Ed allora ecco scattare la rivendicazione sociale per potersi dire pienamente integrati e socialmente consapevoli pur se i sabati sera invece che a giocare a calcetto si va in qualche dungeon abbigliati come il Macina di “8mm-delitto a luci rosse”; e così nel paradiso carnale di muffe e lucori ambrati, tra gemiti, sussurri e grida, e nel fervore escatologico delle frustate e del dolore è tutto un susseguirsi (metaforico, ma nemmeno tanto...) di “salve ragioniere”, “buonasera avvocato”, spogliatoio, salette appartate e poi via, una volta fuori in giacca e cravatta, prole da educare, macchina e ferie agostane assieme al vicino di casa in qualche villaggio turistico Valtour.
L’integrazione sessuale significa normalizzazione, non normalità; accodarsi alle rivendicazioni sociali avrebbe un senso se esistesse un pericolo di criminalizzazione ed allora si decidesse in maniera organica di autotutelarsi per evitare la galera o la morte sociale. D’altronde i Gay Pride (oggi solo Pride) nascono da un episodio ben preciso e che con l’integrazione degli stili di vita ha poco a che vedere, se non addirittura nulla. E nemmeno possiamo dire che il BDSM sia un orientamento sessuale come lo è l’omosessualità; perché se lo fosse molti dovrebbero ammettere, ma sono certo non farebbe loro piacere, che il vero bdsmer sarebbe Peter Kurten o Ted Bundy e non un panciuto Master di Frosinone desideroso di sperimentare epifanie in cuoio.
Il BDSM è un gioco di matrice sessuale, può essere uno stile di vita ma non va oltre questo; altrimenti dovremmo rimetterci a considerare quelle quattro paroline che ne compongono l’acronimo ed interrogarci sul significato di masochismo e sadismo. Dovremmo prendere un Lawrence Bittaker, i suoi lussuriosi piaceri di dominio totale, tortura estrema e uccisione di teenager e confrontarlo con una qualche attempata casalinga che dopo aver martoriato la schiena del suo slave cambia tono e gli dice “caro non mi ero accorta che è così tardi, scendi a prendermi il pane”.
Il confronto non regge. Se esistesse al mondo un barlume di dignità nemmeno dovrebbe essere tentato. Ma evidentemente il senso della misura, che non è limitazione ma comprensione della propria natura (e che come tale potrebbe aiutare a godere molto di più), non abita più qui.
Ed ecco quindi le associazioni esponenziali di maritini a chiappe di fuori, e donnine in completi leather, le si vede accapigliarsi per la primogenitura dell’idea di creare una comunità, hanno uno statuto giuridicamente vincolante, degli organi di autocontrollo, forse pure di arbitrato…viene da chiedersi, ci sarà pure la necessità di registrazione del contratto master-slave? E in caso di inadempimento contrattuale quale sarà il foro competente? Qualche colpo di flogger in più rispetto a quanto pattuito determina l’insorgere di una responsabilità contrattuale o, nel caso si fosse solo alle prime timide scaramucce, di una responsabilità precontrattuale? Dai preliminari sessuali al preliminare del contratto…e la safe-word ha natura di negozio giuridico recettizio o meno ? Sono domande inquietanti che, ne sono certo, popoleranno le già molto popolose aule di giurisprudenza di una nuova stirpe di studenti. D’altronde non stupisce; chi studia legge già di suo non può che essere o un masochista o un sadico.
Queste associazioni cosa chiedono? Rispetto, evidentemente. Ma rispetto di cosa ? Si intende per rispetto il fatto che mia madre potrebbe andare in salumeria e tra due etti di salame e uno di fesa di tacchino mettersi a colloquiare amorevolmente di scudisciate con la sua vicina di fila senza che nessuno abbia da ridire ? Questa sarebbe la normalità tanto agognata ?
Anche perché oggettivamente non ricordo di retate contro sadomasochisti, omicidi di sadomasochisti e via dicendo (i problemi legati invece alla realizzazione di video e rivste si inseriscono nell’altro contesto della pornografia e della oscenità) – e il lamentarsi perché non si può parlare di nerbate e serate spese nei locali SM mentre si redige il bilancio consolidato in azienda scusatemi ma non mi sembra una grande conquista sociale, anzi mi pare piuttosto un modo per rendere il tutto più grigio, insipido, borghese. Un modo per gettare le perle ai porci.
La prima contestazione che viene mossa a questa mia impostazione è tipicamente egualitaria e progressista; tutti hanno diritto di sperimentare forme alternative di sessualità, quindi è giusto e lecito che se ne parli pubblicamente, che si sviluppi una comunità in grado di guidare passo passo chi si avvicina per la prima volta. Naturalmente questa impostazione potrebbe avere una sua qualche serietà se stessimo parlando di diritti fondamentali per la persona (ma nella mia prospettiva non esistono nemmeno quelli, come non esistono nemmeno i sedicenti diritti umani…rimando a tal proposito alla lettura di Indagine sui diritti dell'uomo di Stefano Vaj, per una piena confutazione della ridicola categoria dei diritti umani), non di piaceri sessuali (piaceri, non diritti !) che sono rigorosamente individuali; non avrei mai potuto pensare che l’ultima frontiera del progressismo sarebbe stata la collettivizzazione dell’orgasmo, difficile da pensare soprattutto perché stiamo parlando di sedicenti libertari.
Ma in fondo se il senso della comunità BDSM fosse solo quello di fornire consigli, confrontare esperienze, propiziare incontri sarebbe qualcosa di accettabile; il problema invece è proprio questa parvenza totalizzante di appartenenza ad un club giacobino. L’errore strutturale di questa impostazione sta nel fatto che il BDSM ha a che fare col potere; dato che questo termine evoca, soprattutto nel patetico mondo anglo-americano, ricordi legati ai regimi nazionalsocialisti e fascisti, si è preferito dar vita alla categorizzazione dello “scambio di potere”, qualcosa di più tollerabile e che soprattutto implica un orizzonte relazionale simmetrico. Non sia mai che un qualche afflato antropologico-negativo finisca per insinuare l’ombra delle relazioni asimmetriche in camera da letto; e poco importano paradossi hegeliani di servi che in realtà comandano e di squilibrio nelle relazioni perché qui in gioco è la rivendicazione della parità dei ruoli. Qualcosa di totalmente inaccettabile.
E se così ormai siamo ridotti a brancolare tra mute richieste di amore in una straniante versione BDSM della new age e delle favolette col principe azzurro, non ci è nemmeno dato lo spazio per controbattere o proporre visioni più confacenti all’etica del sadismo; perché i nuovi giacobini della frusta, nel solito impeto di manicheismo ideologico che sempre contraddistingue il giacobino, riconoscono dignità dialettica soltanto a chi la pensa come loro. Gli altri semplicemente non esistono e non meritano alcuna chance.
E così il moralismo si è impadronito del sotto-mondo BDSM, le casalinghe rinate come dominatrici criticano, condannano, mettono all’indice gli impuri, mentre i Master-Soloni sono lieti di ancorare le torture ai capezzoli all’emancipazione femminile e alle canne che si fumavano tra le aule universitarie nel 1968 – un nesso di continuità, di pensiero “libertario”, di trasgressione larvatamente politica, di eversione della comune sessualità eterosessuale, che nella loro (ottusa) ottica accomuna le esperienze del passato e le serate trascorse nei club sadomaso. E vorranno convincerci che il riferirsi alla slave con epiteti tipo “puttana”, “miserabile troia”, “cagna” è soltanto un articolato e complesso esercizio catartico che non mette in dubbio l’intrinseco valore della donna, non sia mai pure qui che qualche femminista dovesse incazzarsi.
La si chiama “cagna” ma in realtà si pensa che sia la migliore, la più brava, la più bella; questo comportamento ha un nome, autoinganno. Ai limiti dell’infantilismo compulsivo, non più gioco ma solo ipocrisia e illusione strettamente avvinghiate per definire un nuovo quadro di nullità. Il doppio volto kierkegaardiano raggiunge nuove vette.
Slave e Mistress che cercano l’amore, la relazione in pianta stabile, l’uomo della loro vita che alterni sapientemente coccole e caning, giustamente anche il matrimonio sadomaso, e l’adozione sadomaso col ciucciotto in leather – disgustoso, e ridicolo. Gli annunci da leggere in codice, ultra contro aenigma, ogni parola ne sottende un’altra, dominazione come blando surrogato dell’affetto, dimostrazione di considerazione mediante il dolore e la sofferenza; ma che senso ha? Alcuni rispondono, il piacere.
Già, ma quale piacere ? Seguendo la linea concettuale del sadomaso all’acqua di rose si arriva grosso modo al grado di piacere che si potrebbe avere dallo scambiarsi la moglie o la fidanzata, dalla normale relazione sessuale eterosessuale. Non pretendo di stabilire assoluti che siano validi per tutti, ma è evidente che non avendo deciso io che BDSM sia acronimo di Bondage Domination Sado-Masochism ed essendoci in questa sigla dei termini ben precisi che implicano alcune cose altrettanto precise direi con buona sicurezza che non sono io ad avere dei problemi. Si sarebbe potuto chiamare Amore Tenerezza Schiaffetti, forse sarebbe stato più confacente alle effettive richieste ed aspettative di molti “praticanti”.
Un cerchio di rigorosa idiozia – si rivendicano diritti, si ama il proprio dominante, si spera di mettere su famiglia con lui e di godere dei diritti rivendicati ed ottenuti. La famigliola sadomaso come specchio dei tempi. Aveva ragione Marx, "la storia tende a ripetersi, la prima v0lta è tragedia, la seconda farsa".

sabato 13 giugno 2009

Chiamata d'odio per i figli dello shock


Nella stagnante palude della letteratura horror capita di tanto in tanto qualche stella cadente capace di increspare le acque melmose e di agitare emozionalmente il cuore dei lettori – intendiamoci, molto spesso la fiction orrorifica ha una disgustosa consistenza di “favola morale”, ellittica, presuntuosa e pretenziosa, sequela strutturale di rassicuranti trovate messe su carta per convincere il probo cittadino medio che tutto va bene e che la gioia del quotidiano può essere sconvolta solo da mefitiche creature dell’occulto (le quali saranno comunque sconfitte).
Persino l’orrore del reale, le scatenate scorribande di sadismo e violenza dei serial killer, è stato ricondotto a miti consigli tra true crime e narrativa new horror; Robert Bloch, l’autore di Psycho, si domandava sconsolato “che cosa verrà fuori da questa gente convinta che La Notte dei Morti Viventi non sia abbastanza?”, la mia personale e modesta risposta all’angosciato quesito è proprio “non abbastanza”.
Infatti se ancora oggi stiamo a preoccuparci di libri-scandalo il cui quoziente di violenza è evidentemente plastico, artefatto, istupidito da convenzioni (sociali) e convenienze (commerciali), allora dovremmo concludere che la carnografia tremolante dello splatter prima e del mondo movie poi non sono serviti ad aprire gli occhi ed il senso estetico, ma se mai a chiuderli e sigillarli col cemento armato. Le eccezioni, per fortuna, non mancano, e di certo il fatto che arrivino inaspettate a battere piste non troppo frequentate conferisce un valore aggiunto, il valore dell’essersi sottratte all’inflazione.
Dio benedica l’avidità di qualche direttore editoriale italiano che ravanando gli scaffali metaforici delle proposte internazionali a metà degli anni novanta decise di importare in Italia quattro fenomenali e fondamentali antologie del nuovo horror contemporaneo – non mi starò a dilungare su nuovo horror, splatterpunk, dark fantasy e definizioni affini, come scrive Lansdale “io mi limito a scrivere e lascio che siano gli altri a definire ciò che scrivo”, ed in fondo la riconduzione di uno scritto ad un genere, ad una etichetta è operazione didascalica o di marketing commerciale, ben lontana dal presentare il minimo interesse.
La prima di queste antologie è PROFONDO HORROR, edita da Bompiani nel 1993 (la versione originale americana è del 1986…); si tratta della trasposizione a pizzaland di Cutting Edge, titolo decisamente più affine alle reali intenzioni del curatore, Dennis Etchison. Infatti, nel 1986, i limiti si stava cercando di abbatterli sul serio e molti scrittori non-mimetici avevano deciso, con esiti altalenanti, di frequentare abitualmente la lama del rasoio. Il tratto caratterizzante di Cutting Edge è la volontà precisa e deliberata di proporre una visione non scontata né stereotipica dell’horror; presupposto non marginale, la celebrazione della brutalità omicidiaria e una conseguente attenzione morbosa alla violazione della anatomia umana. Un sociologo potrebbe leggerci dietro una qualche metafora di reazione contro il Reaganismo imperante e contro l’edonismo di quegli anni, ma dato che io non sono un sociologo queste conclusioni traetevele da soli se lo volete e se lo ritenete di qualche importanza.
Il libro è diviso in 4 sezioni, “tutto ritorna”, “stanno venendo per te”, “alla luce dei fari”, “continuando a morire”, per un totale di 20 racconti la cui qualità media si situa decisamente sopra la media, sfiorando in alcuni casi l’assoluta eccellenza; uno di questi casi è rappresentato dallo straordinario “musica registrata per squartamenti artistici” di Mark Laidlaw, e trovo sia al tempo stesso paradossale e rivelatorio notare come Laidlaw NON sia uno scrittore horror ma bensì uno dei più promettenti esponenti del post-cyberpunk, autore del grottesco e magistrale affresco post-nucleare di UNA FAMIGLIA NUCLEARE. Il racconto presente nell’antologia è irriverente, brutale, sanguinolento e cinicamente umoristico, una piccola depravata gemma letteraria Altro racconto da segnalare è lo splendido “Irrelatività”, di Nicholas Royle; se amate le atmosfere ballardiane di straniante critica sociale, procuratevi il suo SMEMBRAMENTI pubblicato da Einaudi qualche anno fa. “Irrelatività” invece è un breve racconto di atmosfere cupe e meditabonde, che parte come un divertissement ballardiano per finire in un (onirico) bagno di sangue alla Hostel. E menzione al merito per “addio, oscuro amore”, di Roberta Lannes; il brevissimo scritto, quasi una sorta di allegorico schizzo, riesce a convogliare in poche pagine un crescendo delirante di abuso familiare, sadismo, incesto, omicidio e necrofilia.
Antologia che fece epoca, e poco scandalo in Italia ma tanto negli USA, è EROTIC HORROR, Bompiani 1994; altro titolo fuorviante, visto che l’originale è Hot Blood. In realtà la Bompiani in questo caso decise di realizzare una sorta di collettanea segando i tre volumi originali (Hot Blood, Hotter Blood e Hottest Blood) ed assemblando una sorta di “best of”.
Qui il livello medio dei 18 racconti sfiora il sublime. Personalmente ritengo che chi segue Halogen, e quindi per mia pura presunzione di sapere qualcosa dei gusti di chi legge, troverà delizioso “La Vasca” di Richard Laymon; Laymon è un autore horror prematuramente scomparso che si merita un autonomo articolo monografico, vista la eccellente qualità della sua produzione (racconti e romanzi). Ma intanto, posso dire che se avete presente “Il Gioco di Gerald” di King, bè l’idea è quella ma Laymon la sintetizza, la rende mille volte più efficace e lasciva, e accorpa in 20 pagine tanto sangue quanto King non sarebbe in grado di mettere in 20 libri. Una scrittura scarna, essenziale, incisiva, che in alcuni punti fa davvero male.
Altro autore a distinguersi è l’incostante Robert McCammon, col suo “L’aggeggio”; incostante perché mentre nel racconto breve è un autentico genio, nei romanzi diventa pedante, noioso e derivativo ai limiti del plagio (prevalentemente nei confronti dei libri di King). Ad ogni modo “l’aggeggio” ci presenta un vizioso e aristocratico degenerato alle prese con vizi privati che farebbero impallidire Albert Fish…
Come si evince dal titolo dell’antologia, il filo conduttore è il sesso; a volte descritto nei canoni dell’erotismo, in altri casi andandoci giù in stile pornografico. Da un lato il sorprendente “Carnaio” del duo Skipp-Spector, i fondatori dello splatterpunk, una breve ed euforica discesa nel sesso promiscuo da bar visto da una angolazione quasi filosofica, dall’altro “è bello trovare un uomo duro” farsa necropornografica decisamente incisiva e divertente (divertente se avete un senso dell’umorismo virato al nero…).
Capolavoro nel suo insieme è IL LIBRO DEI MORTI VIVENTI, curata da John Skipp e Craig Spector e ad oggi ritenuta l’antologia fondamentale, e fondante, dello splatterpunk; pubblicata in Italia sempre da Bompiani nel 1995 (l’originale Book of the Dead è del 1989) consiste di 16 racconti (TUTTI davvero meritevoli), l’introduzione dei curatori e una prefazione di George Romero a cui il libro, per ovvi motivi, è dedicato. Il tema dell’antologia è quello dei morti viventi, anzi; i morti viventi per come ci sono stati mostrati da Romero nei suoi film, quindi istupiditi, brutali, cannibali e scatenati in contesti sociali impazziti e alla deriva. Volendo scegliere i “migliori”, a gusto ovviamente personale, da citare ancora una volta Richard Laymon col suo celebre e allucinante “La Mensa”, non proprio il genere di racconto che il fan medio dell’horror era abituato a leggere nel 1989 (o in Italia nel 1995…ma probabilmente con poche eccezioni, in Italia ancora non si è abituati); vivida e dettagliata storia di un serial killer, Il Mietitore, che rapisce le sue vittime, le porta in una radura e le tortura a morte lasciando poi i resti umani a disposizione di avvoltoi e animali selvatici…fino a quando non troverà la sua giusta “punizione”ad opera di alcuni zombie. Si segnalano anche “Mangiami” di McCammon e “Sassofono” di Royle, che costituisce il nucleo embrionale attorno cui poi avrebbe sviluppato Smembramenti; ma le due perle dell’antologia sono senza tema di smentita il delirante “Vermone e i figli di Jerry” di David J. Show (uno degli autori più interessanti del nuovo horror, oltre che uno dei meno pubblicati in Italia…di suo si trovano solo racconti nelle antologie Newton Compton…) e l’eccelso “nel deserto cadillac coi morti” di Joe Lansdale.
Per finire, LO SCHERMO DELL’INCUBO (titolo originale; Silver Scream, edita nel 1988 negli USA), curata proprio da David J. Show e importata in Italia da Einaudi soltanto nel 1998, sull’onda dell’entusiasmo collettivo per i “cannibali” nostrani – ma ringraziando iddio la Einaudi ci ha risparmiato in questo caso una introduzione o una post-fazione di Ammaniti, cosa che purtroppo non ci ha risparmiato nel caso de LA NOTTE DEL DRIVE-IN di Lansdale ahimè…
Lo Schermo dell’Incubo, come lascia agevolmente intuire il titolo, è una antologia concernente il cinema; nel suo senso fisico di cinema come posto dove vedere film oppure nel senso di arte. Gli autori presenti, da Clive Barker a Karl Edward Wagner (assolutamente fenomenale il suo “Abuso”, viaggio accurato nell’abisso della pornografia clandestina, roba da far relegare in un cantuccio per la vergogna “8mm-delitto a luci rosse”) passando per Joe Lansdale (col celebrato e brutale “La notte che persero il film horror”, apologo delirante e nichilistico con supreme vette di razzismo, misoginia e ironia ultravioletta) e Ray Garton col suo “Voglia di cinema” satira feroce e dai toni swiftiani contro gli avventisti del settimo giorno, ce la mettono davvero tutta per rendere meno serena la serata dei lettori.

domenica 7 giugno 2009

L'ultima casa a sinistra (2009)


E' possibile rivedere radicalmente il proprio giudizio su di un film nell'arco di due giorni ? A me è successo, proprio con il remake di The Last House on the Left - ringraziando il cielo il neonato film festival di Ostia mi ha permesso di vedermelo due volte, gratis, in anteprima (ho visto pure il secondo capitolo della saga di Ken il Guerriero e su quello invece stendiamo un velo pietoso), lasciando spazio sia alle impressioni negative sia a quelle positive.
Soltanto che poi sul lungo periodo a prevalere sono state queste ultime.
Come noto si tratta del remake del capolavoro di Wes Craven, diretto nel 1972, sordida storia di abuso omicida, misoginia estrema e delinquenza allo stato brado, in cui una banda di spietati criminali dopo aver propiziato l'evasione di uno di loro si imbatte, non proprio per caso, in due liceali alla ricerca di qualche emozione forte in città - e che invece nella migliore tradizione dei film di umiliazione/riscatto/vendetta, a partire da La Fontana della Vergine che è la "matrice" di questo sotto-genere, finiranno nelle grinfie dei perfidi delinquenti, i quali non troveranno di meglio che abusarle, rapirle, ed infine torturarle a morte, con tanto di scatenata e selvaggia fuga tra i boschi.
Il remake è prodotto dallo stesso Craven, il che implica un esplicito placet alla regia di Iliadis - quello che inizialmente, e forse devo dire pregiudizialmente, non mi era piaciuto era il tono più solare e meno morboso rispetto all'allucinato tono cupo dell'originale. Infatti nella versione del 1972, la discesa in città era stata più plumbea, la città stessa era decisamente più degradata, oscura, lercia, ed il contrasto con la festa di compleanno iniziale, il giochino psicologico con la polizia, era stato una manna dal cielo per malati mentali come il sottoscritto. Qui invece si ha il timore di una virata verso lo slasher movie...
Ma se un merito va ascritto ad Iliadis è proprio quello di aver evitato qualunque sterzata in tal senso - pur riaggiornato e ricontestualizzato, e leggermente ripulito (si veda la figura del ragazzino, che nell'originale non era il "redento" che qui invece appare e che addirittura si salva - o anche il destino di Mari...), il film mantiene un carico di eccellente crudeltà, a partire dalle sequenze iniziali e dalle foto delle bambine mostrate, in uno slancio di puro sadismo, al poliziotto morente.
Un appunto negativo è la mancanza della preordinazione omicidiaria del padre di Mari - nel film originale la sua vendetta è fredda, lucida e pianificata (vedasi ad esempio il congegno elettrico), mentre qui è più azione di impulso e strettamente legata alla sopravvivenza. Un margine di brutale violenza cinica e fredda resta soltanto nel modo in cui uccide Krug.
Va inoltre dato atto al regista di aver mantenuto un carico di violenza notevole, certamente eccedente i ridicoli parametri yankee - ma se possibile, dove si eccelle è la scena dello stupro, dove l'abuso è mostrato senza particolari sconti allo spettatore e il volto umiliato, angosciato, piangente, sporco di terriccio e muschio della ragazza è un colpo duro per chi è magari cresciuto soltanto con i pupazzetti degli slasher. La morte del primo bandito poi è un piccolo tripudio di carnografia omicidiaria, il momento della verità per i genitori disperati - in cui nasce un nuovo padre, non più timoroso o spaventato ma follemente determinato a spazzare via gli intrusi.
E la settimana prossima è la volta di MARTYRS...