venerdì 25 aprile 2008

Gotico Romagnolo




Per me, gli anni Ottanta finirono già lì, nel 1983, durante quel fine-settimana dove, sotto l'apparenza di una fiesta mobile di ragazzi allegri, e anche scatenati, si rivelarono la follia dei rapporti, l'eccesso di certi riti e anche la paura. Dopo fu solamente il momento dell'osservazione e della riflessione, del lavoro sul materiale più o meno autobiografico...nonostante quel che si potrebbe pensare queste parole di Tondelli non possono, e non debbono rappresentare nè l'epitaffio di una Emilia Romagna scomparsa nel clima post-rurale, post-vacanziero e post-tutto germogliato alla fine degli anni settanta tra Dams e lotta di strada e creatività sparata per l'inurbamento delle plebi intellettuali da un lato e dall'altro la paciosa agreste abulia dei paesi dispersi tra i colli romagnoli con la riviera dispersa nel candore arancio di mille albe, laggiù da qualche parte come un ologramma (ri)vitalizzato dalla pecunia germanica e scandinava nè un qualche esercizio estetico e di stile per prendere le distanze dall'oggetto della propria analisi.
Oggettivamente ha ragione Guccini; tra la Via Emilia ed il West, un locus topografico e spirituale in cui l'underground si frammischia all'overground, i rave si gemellano alle feste contadine pre-cristiane, il vino rosso scende in gola copulando con la speranza di una emersione dal nulla decantato tra cantine e centri sociali, memorie resistenziali e tombe mussoliniane, la carnalità carnascialesca che se non frenata si avvita su se stessa come un elicottero schiantato, la spiaggia di massa e le baie e le insenature invase dalla prepotenza totalitaria dei beat, le scampagnate, l'isolazionismo degli Appennini, tutto allucinato affabulato arricchito da un modus vivendi che sconta la contraddizione di una universalità provinciale. Mi spiace per i Ligabue e i Brizzi, ma la loro visione detournata, poco personale e molto cliche, non rende il senso penoso, mistico, altero, plebeo ed aristocratico al tempo stesso della invisibile linea che divide e separa e scarnifica Emilia e Romagna.
Devo invece essere grato al Tondelli del Week end Postmoderno perchè attraverso le sue decostruzioni, attraverso gli articoli sofferti, ora ironici iperbolici grotteschi, ora colmi di rimpianto abissale e malinconia per un mondo che arretra nella nebbia e scompare, vividi quadri di situazioni esistenze autori posti e non-posti ho dato un senso a tutto il tempo che ho trascorso in Romagna.
L'aspetto che mi ha sempre molto colpito nell'opera tondelliana è la densità dei riferimenti e delle suggestioni, cosa molto importante per chi come me ama molto un Ballard e quella commistione di elementi metanarrativi, intreccio furioso e infiammato di pop-culture, recensioni musicali e letterarie e narrativa tout-court; ogni riga è studiata, lasciata poco al caos, analizzata e riscritta una, due , forse cinque volte, immagino Tondelli intento a scrivere e lo vedo ansioso angosciato desideroso di raggiungere quel nitore che è sempre incubo di chiunque scriva.
E questa terra, Cesenatico, Rimini, Correggio, si affolla come una Zattera della Medusa della memoria, si scompongono i momenti apicali della esistenza, e se ne fa rapido carico di malinconie ; gran parte delle sue opere, e certamente delle opere che compongono il Weekend, Tondelli le scrisse lontano dall'amata Emilia-Romagna, le scrisse ora a Firenze, ora a Milano, ora a Roma.
Non a caso, aldilà di questioni strettamente personali ed emotive, occupa così tanto spazio e così tanta importanza l'opera barthesiana sull'amore, i Frammenti, che diventano sacra sindone di un locus lontano, che si porta nel cuore interiormente, come i gelidi fiordi norvegesi per Knut Hamsun. Nel Weekend vi è una stratificata carrellata di personaggi, luoghi ed emozioni; memorie letterarie su Rimini, i riti sanguinari e rurali della Romagna contadina nella straordinaria intervista con l'ensemble teatrale Magazzini, i campi di morte per la macellazione animale fatti divenire scenario privilegiato per la messa in opera di una piece su Genet, le discoteche, le tendenze giovanili, i concerti, la desolazione della provincia afflitta da grandeur giocata tutta sul delicato crinale della tentazione e delle effettive possibilità.
Come è stato autorevolmente notato, il Weekend è un viaggio per frammenti, reportage, illuminazione interiori, riflessioni, descrizioni partecipi e dirette, nella parte degli anni Ottanta più creativa e sperimentale. È un viaggio nella provincia italiana, fra i suoi gruppi teatrali, fra i suoi artisti, i filmaker, i videoartisti, le garage band, i fumettari, i pubblicitari, la fauna trend che da Pordenone a Lecce, da Udine a Napoli, da Firenze a Bologna ha contribuito a rivestire quegli stessi anni Ottanta, vacui e superficiali in apparenza, di contenuti e sperimentazioni, al punto da proporre, come capitale morale del decennio, non più una città, ma l'intera provincia italiana.

mercoledì 23 aprile 2008

L'Omicidio come una delle Belle Arti


(il brano seguente era stato originariamente scritto per il libro Omicida & Artista, MaGi edizioni, ma è stato escluso, come altri frammenti, per ragioni di spazio)






Il tentativo di spingere la razionalizzazione degli impulsi atavici umani fino alle estreme conseguenze, ovvero per addivenire alla scoperta dell’abisso che, nietzschanamente considerato, finisce per riverberarsi nell’animo di chi osi guardare dentro se stesso, ha un ottimo precursore in quel Tomas De Quincey già abbondantemente incensato da Baudelaire e dai Surrealisti francesi; De Quincey , nelle sue memorie ( l’una del 1827 e l’altra del 1839 ) raccolte in antologia denominata significativamente L’assassinio considerato come una delle belle Arti, raggiunge un grado di consapevolezza riguardante l’omicidio che, citando Breton, diventa “ astrazione dall’orrore fin troppo convenzionale che suscita, richiede una trattazione estetica e un apprezzamento qualitativo come un’opera plastica o un caso clinico. Diventando così oggetto di pura speculazione, avrà valore nella misura in cui, prima di tutto , appaga determinate esigenze; mistero, indeterminatezza dei moventi, difficoltà superate, grandezza e smalto dei risultati “ ( Andre Breton, Antologia dello Humor Nero , Einaudi ).
Scrive assai esplicitamente De Quincey nelle memorie che “ lo scopo finale dell’assassinio, dal punto di vista delle belle arti, è precisamente quello della tragedia nella definizione di Aristotele, purificare gli animi per mezzo della pietà e del terrore “. E’ evidente, secondo De Quincey e secondo anche la gran parte dei Surrealisti che cercarono nell’omicidio una energia ed una forza in grado di ridestare la linfa vitale degli uomini, l’artisticità del gesto omicidiario, scevro di qualunque connotazione morale o giudizio di valore, pronto per essere immesso in una ipotetica galleria di atti assoluti, ovvero non giudicabili secondo i parametri dell’etica; è in questo che lo scrittore inglese si affanna a delineare un bon-ton dell’omicidio, delineando i passi e i doveri comportamentali di un assassino affinchè egli possa raggiungere una piena gratificazione.
Analogia e differenza con Sade che appaiono palesi; analogo a quello di Sade è il tentativo di non frenare nell’azione assoluta il contingente umano, ovvero il rimorso o il dolore proprio dell’aver commesso un gesto esecrabile, l’innalzare a vette di inusitata poesia ( illanguidita dalla debauche e dalla coazione a ripetere in Sade, obnubilata da una poesia intrisa di spleen in De Quincey ) un’azione che il genere umano, sin dai tempi di Caino, condanna come odiosa e degna della massima sanzione, ed innalzarla attraverso una lunga serie di consigli, suggestioni, descrizioni che finiranno per essere un catalogo di liberazione individuale.
La differenza, invece, risulta chiara laddove si consideri il ruolo che Sade assegna all’esistere umano nel suo sistema filosofico, una macchina tritaossa portata avanti con piglio hegeliano pur senza possedere il rigore formale di Hegel; De Quincey considera l’omicidio come una necessaria appendice dell’impulso creativo-artistico, una sorta di elevazione dell’uomo che, attraverso questo gesto realmente iniziatico sublima il suo mero “ esistere “ in un vivere di senso compiuto. Non a caso, fornisce una lunga serie di pareri e di suggerimenti ( e perfino di regole ermeneutiche ) affinchè l’aspirante omicida possa dire che l’omicidio da lui commesso è effettivamente un gesto d’Arte.
In Sade invece, dove il ribollente calderone tellurico di istinti atavici e voglie ancestrali, lascia campo ad un meccanico esistere, nemmeno il Libertino più realizzato, perverso e morbosamente fantasioso, può dire di essere in grado di fare il salto che comunica dall’esistere al vivere; in Sade l’omicidio è un gesto meccanico, rituale nel senso di doverosa ciclicità, poiché l’uomo, il vero uomo, non può fare a meno, essendo il suo ruolo nella realtà fenomenica quello del Carnefice, mentre tutti gli altri, le masse rispettose di etica, religione e morale finiscono per essere Vittime.
L’artisticità decadente di De Quincey, il suo riecheggiare i fasti medievali della Setta degli Assassini, i casi di cronaca filtrati attraverso l’ultravioletta luce del gusto estetico perdono senso nel Sade disadorno asettico e spoglio la cui unica funzione semberebbe essere il catalogare fino allo sfinimento le modalità di distruzione del genere umano, dei suoi simili, una Estetica dimidiata dall’accecamento, dalla luce bianca dell’annullamento.
In questo, Sade è più oltre-umano e, paradossalmente, artistico. Proprio perché non cercando nessun bon-ton, nessun buongusto dell’omicidio, non andando avanti a tentoni per raggiungere una ipotetica scala gerarchica degli omicidi “ artistici “ e di quelli da considerarsi dozzinali, sposta l’attenzione dal singolo gesto, dall’essere che costituisce la vittima, quindi da ogni orpello realmente umano, ad un piano ulteriore, ovvero l’omicidio inteso come unione di premeditazione, fantasia, cattura, sevizie, uccisione.
A differenza di un De Quincey che avrebbe ritenuto, con tutta probabilità, troppo plebeo un serial killer, elevandone solo alcuni alle vette del Gesto Artistico, per Sade sarebbe comunque valsa la considerazione del tutto alle spese del singolo.
Questo introduce, in certo senso, il tema del Piacere all’interno della riformulazione dei canoni ( o se si preferisce, nella necessità di superamento e della loro distruzione/elisione ) dell’atto artistico che è stato proprio delle avanguardie, dal Dada fino al Surrealismo; con Duchamp, ad esempio, non solo l’irrazionale, la causalità, irrompono nei marmorei saloni della perfezione, ma è proprio il Piacere, inteso come Arbitrio, che inizia a regnare sovrano.
Ed è l’Arbitrio, il poter godere fino alla totale distruzione dell’oggetto desiderato, che informa l’omicidio seriale, quel dogma ben noto intriso di Dominio e Manipolazione; un Duchamp che formula l’ironia dell’affermazione, in cui l’oggetto che deve acquisire valore artistico è soggetto appunto ad una formulazione programmatico-ironica, ovvero una spiegazione-idea che travalica il significato dell’opera stessa ( e che finisce inevitabilmente per ricontestualizzare l’idea stessa ).
Basterebbe pensare agli agglomerati di fili metallici lasciati cadere che finiscono per disporsi casualmente, a seconda del loro volere intrinseco e del piacimento delle leggi fisiche, secondo un arbitrio che l’uomo non può prevedere e di cui diventa vittima, a volte consapevolmente altre volte inconsapevolmente.
Il Duchamp dei ready-made, ovvero oggetti esistenti in natura ( un orinatoio, ad esempio e tanto per rimanere nella sequenza delle sue opere più celebri ), segnala con grande arguzia il problema della realtà, del fenomeno e quello della possibilità, un problema che ( a livello inconscio, ovvio ) è anche il motore guida di un omicida seriale nella sua modalità espressiva ( l’omicidio-oggetto che passa dalla realtà, in cui è qualificato appunto come omicidio alla possibilità, attraverso l’arbitrio e attraverso la riassegnazione di significato ).
La nobilitazione dell’oggetto scelto, orinatoio o pettine o attaccapanni, al pari dell’omicidio, avviene aprioristicamente, nel momento stesso in cui l’idea è formulata.
E non mi sembra un caso che un efferato omicida come Danny Rolling, uno di quegli assassini che in modo più problematico di altri, ha tentato di razionalizzare gli impulsi che porta dentro di sé, parlando dell’atto creativo richiami la potenza della Visione, echeggiando inconsapevolmente il filo conduttore delle nuove modalità espressive ed artistiche che da tempo immemore tentano di riattualizzare la lezione umana e che Jonathan Swift aveva descritto , prendendo ad oggetto la Visione stessa, come “ l’arte di vedere le cose invisibili “ ( in Pensieri su vari argomenti ).

martedì 22 aprile 2008

Il Manifesto Essemian





Meno annoiato di Crowley, e decisamente meno avventuroso, me ne stavo a guardare il profilo austero e nebbioso di San Francisco da un punto imprecisato del Golden Gate, i primi gorghi arancioni del sole mattutino ad allungarsi nel cielo proprio sopra la mia testa. Lo sciabordio dell’oceano, più che canto di sirene, vera epifania di scintille argentee fagocitava le sagome di navi da trasporto ed aerei, sibili cupi e profondi a confortare pensieri di una nuova giornata priva di un senso specifico.
Luogo per mantra satanici, il Ponte. Come in generale tutta la California.
Non mi stupiva, come non mi stupisce oggi, immaginare quella storia ininterrotta intessuta della cinematografia di Kenneth Anger, i ritmi satanico-psichedelici dell’Orkustra di Bobby Beausoleil, la Contestazione, i beat, Mel Lyman, Orange County, i Beach Boys e la fenomenologia del Surf, la nascente epifania di Eris Dea Della Discordia nel pensiero di Joshua Norton e Robert Anton Wilson, Thimothy Leary, L’Esercito Simbionese e la Chiesa di Satana, Jack Kerouac, gli esperimenti scientifico-alchemici di Jack Parsons, i Rolling Stones e le gang di motociclisti, Charlie Manson. Tutto mescolato assieme in un territorio soleggiato e desertico annesso agli USA veramente da poco tempo.
Non ricordo se quella mattina stessi pensando a qualcosa del genere. Ma so che appena tornato a casa, per una di quelle sincronicità junghiane che rendono l’esistenza della Magia un puro dato di fatto, trovai ad attendermi un pacchetto in arrivo da New York ed una consegna a mano in immancabile plico nero che tradiva come mittente la Chiesa di Satana. Da New York, mi era stato finalmente recapitata una copia di Funeral Party II, antologia di pensiero terminale e borderline.
Lasciai il messaggio della Chiesa di Satana in camera da letto e mi fermai in cucina a leggere un estratto da Funeral Party, specificamente l’intervista con Uli Lommell, regista e attore feticcio di Fassbinder; tra i suoi progetti parlava di un film, Holy Joan of Balboa, interamente basato sulla autentica vicenda di una Domina californiana, residente nel piccolo centro di Balboa, la quale aveva fondato una Chiesa del BDSM.
Fu divertente. Ed inaspettato.
Perché se si eccettuavano le fanzine ciclostilate, i primi articoli di Pat Califia, La Sadica Perfetta di Terence Sellers e pochi altri testi di Domine politicamente orientate, come Dominatrix- The making of Mistress Chloe o Princess Spider , gran parte della cultura BDSM nordamericana era ferma in un dualismo che vedeva da un lato la Domina-prostituta generalmente reduce da infanzie mostruose ed abusate e dall’altro lato figure post-hippie, vagamente new age, che nelle frustate scorgevano un esercizio di pura catarsi politica, una ribellione contro una sessualità castrante, grigia, istituzionalizzata e immancabilmente fallocratica.
Ma nessuno si era spinto fino al punto di elaborare un credo teologico basato sul Bondage, la sottomissione ed il leather. Nemmeno gli amici della Chiesa di Satana, che pure oscillavano tra tendenze BDSM e influssi gotici, si erano sentiti legittimati a vedere nella parole e negli scritti di Anton La Vey una qualche deriva pro-sadomasochista da erigere a paradigma messianico. Non certo La Bibbia Satanica né La strega Satanica che pure in qualche punto a mio modesto avviso odora di Female Domination in chiave decadente.
Per il satanista laveyano l’arbitrio individuale, suprema stella polare delle scelte, era l’unica funzione esistenziale da assecondare, e in questo quadro il BDSM diventava una mera scelta personale e se pure qualcuno se ne serviva per fini esoterici e più squisitamente meta-sessuali il tutto rimaneva relegato nella sfera delle opzioni individuali.
D’altronde è innegabile che l’uso della violenza rivesta una forte connotazione religiosa; i martiri cristiani, gli stiliti della Patristica, e prima ancora i Sadhu hindu, i dravidiani , i Pellerossa avevano utilizzato il dolore come ponte verso l’estasi mistica o come fase necessitata di qualche rito di passaggio. E proprio lì in California se ne vedevano ancora dei retaggi, sia pure mescolati al calderone post-moderno della controcultura; l’arte fachirica di Fakir Musafar, il Neo-Primitivismo di Ron Athey, le loro danze pagane e le carni appese al soffitto a mezzo di ganci e gli spilloni e fiumi di sangue e branding e tongue-splitting, con attorno una oscura aura di consapevolezza spirituale.
I Satanisti, fossero laveyani o post-crowleyani avvinghiati alle estreme propaggini dell’OTO oppure secessionisti del Tempio di Set, guardavano la controcultura come un mero mezzo, uno strumento, non certo come una federazione di ribelli a cui aderire in gioiosa comunità d’intenti. La Vey rivendicava l’esclusiva della rivolta contro il potere dello Status quo, nel nome di quella prima prometeica rivolta di Lucifero contro Dio, e non l’avrebbe certo divisa con qualche hippie entusiasta del latex o dei morsetti.
La Vey odiava gli hippie. E io e tutti gli altri colleghi della Chiesa di Satana li odiavamo con lui.
Bontà pelosa.
Uguaglianza di cartone.
Delirio di amore universale e vaniloquio politicamente corretto.
Tutto ciò suonava alle nostre orecchie falso e risibile. E se per me il BDSM un senso aveva, questo non era certo una catarsi, né un gioco; era solo l’applicazione in chiave sessuale, e magari metaforica, della frase vonmasochiana “chi si lascia frustare merita di essere frustato”. Per questo le teorie sullo scambio di potere di Pat Califia mi provocavano lo stesso senso di nausea che decenni prima la vista di tre orrendi hippie in sandali e camicia psichedelica doveva aver creato nel cuore di Anton Zsandor La Vey.
Rimasi un po’ perplesso e pensoso a meditare sulla Chiesa del BDSM di Balboa, e su tutte le sue implicazioni.
Poi andai in camera e scartai la comunicazione. C’era il nuovo numero della rivista della Chiesa di Satana, The Black Flame , spedita a tutti gli aderenti con cadenza mensile ed in allegato qualcosa che era stato inviato esclusivamente a me. La spedizioniera della Chiesa sapeva che mi interessavo di certi ambiti e di certe sulfuree aree e così aveva pensato bene di omaggiarmi di un libretto autoprodrotto, dalla scarna grafica ma dal contenuto che definire interessante sarebbe riduttivo; THE ESSEMIAN MANIFESTO, a cura di Mistress Sarakira, una Domina che aveva avuto una certa rinomanza all’interno della florida The Society of Janus (la federazione californiana della cultura BDSM).
Per l’occasione la Domina si era rinominata Priestess, sacerdotessa di un misterioso ordine esoterico che , a quanto si intuiva, aveva fondato lei stessa assieme ad altre cinque donne esperte di Female Domination.
The Essemian Manifesto suonava decisamente più coerente e più lucido di tutte le fandonie new age fino a quel momento partorite dalla scena sadomaso politicamente corretta. Iconografia e terminologia di derivazione gotico-satanica corredavano un testo veloce, scarno, spartano ma estremamente funzionale nel suo intento di fornire una chiave di lettura esoterica alla pratica della Dominazione.
Alcuni mesi dopo appresi che il Manifesto non era l’unica pubblicazione ascrivibile a questa misteriosa entità; le Domine infatti operavano come parte autonoma della SERVICE OF MANKIND CHURCH, avendone costitituito una branca satanicheggiante denominata THE ESSEMIAN SANCTUARY OF THE DARKSIDE GODDESS e il cui organo ufficiale di propaganda e divulgazione culturale era la fanzine THE ESSEMIAN WAY.
Non ci misi molto a mettere le mani sulla fanzine. I contenuti ricalcavano quelli espressi nel Manifesto. La dominazione sull’uomo era di origine rituale, il sesso canalizzava l’energia mistica (come nella migliore tradizione dell’ermetismo satanico europeo, vedasi Crowley, Spare, Grant) e tutte le variegate pratiche proposte, che andavano dall’umiliazione psicologica fino ad elaborate sessioni di tortura martirologica, erano ammantate di significati gnostico-satanici.
Come esempio “la camminata del serpente”, un sinuoso strisciare dello schiavo ai piedi della Domina-sacerdotessa, strisciare segnato dalla flagellazione delle Attendenti della Domina stessa (la quale per tutto il tempo rimaneva assisa sul trono cerimoniale, in una sala arredata con drappi satanici e mobilio ottocentesco); la figura del serpente, aldilà dell’ovvio significato primordiale contenuto nella Bibbia, riecheggiava le teorie di Michael Aquino, fondatore del Tempo di Set. La stessa visione cosmogonica, lo stesso senso di ambivalenza (espresso dalla lingua biforcuta e dal mutare pelle), la stessa necessità di una ordalia psico-fisica per ottenere il disvelamento dei segreti iniziatici.
Le Domine che componevano questo gruppo cultuale non erano prostitute, non chiedevano compensi o tributi. Le uniche cose commercializzate erano gli scritti, fanzine e libri.
Oltre al Manifesto, Mistress-Priestess Sarakira aveva composto ECHOES OF THE SANCTUARY, una sorta di biografia aggiornata in chiave metaforico-simbolica in cui si ripercorreva la fenomenologia del gruppo, con dettagliate e vivide descrizioni dei rituali messi in atto, e THE GODDESS WITHIN che imparai essere una sorta di risposta in chiave BDSM-satanica al fenomeno dilagante della Magia Bianca e della Wicca che dell’adorazione della Dea Madre avevano fatto punto nodale.
La Wicca era detestata da queste donne tanto quanto gli hippie erano detestati dalla Chiesa di Satana. Efettivamente, le “streghette buone” dal sapore femminista erano irritanti; le loro vuote ciance di rispetto, tolleranza, amore finivano per clonare concettualmente le idiozie degli hippie. Non era quindi male vedere il grado di forte consapevolezza e di autorità che emergeva dalle pratiche e dalla produzione teorica della Sorellanza Essemian.
Quello che mi piaceva di più di queste donne era l’elaborato sincretismo che fondeva satanismo classico a retaggi hindu (la loro celebrazione di Kaly), magia sessuale e cerimoniale ed un uso non convenzionale (e soprattutto non commerciale né commerciabile) della tortura BDSM. Si tenga conto che sul finire degli anni novanta e l’inizio del 2000 la California controculturale era sprofondata in un abisso di idiozia, tra parties presunti alternativi (e poi rivelatisi tristissime saghe del deja vu), festival “pagani” come il Burning Man e il declino inesorabile del BDSM, annegato tra le più volte citate tesi delle amiche di Pat Califia e la prostituzione del “professionismo”.
Sottomettere un uomo, in termini femministi, non è certo una esclusiva dei sadomasochisti, basterebbe leggersi i testi delle ultra-femministe come Andrea Dworkin o Catherine MacKinnon (o casi più patologici e divertenti come il libro SCUM MANIFESTO di Valerie Solanas, donna che aveva tentato di assassinare Andy Warhol e autrice di questa sfrenata apologia del massacro degli uomini) per capire che il contrappasso, o meglio “occhio per occhio, dente per dente”, è una meta ambita da parecchie esponenti del “gentil sesso” e non solo in termini puramente simbolici. Ma l’ESSEMIAN come culto era in grado di spaziare in una visione non claustrofobica, persino di richiamare alla mente la Magia del Caos di Peter Carroll (proprio per l’unione sincretica di elementi culturali e spirituali disparati di cui operare una gratificante reductio ad unum) ed utilizzando un umorismo nero decisamente appagante.

lunedì 21 aprile 2008

Il Sole Nero - Apologia di Charles Manson


Perdonatemi la mia virtu’, perche’ nella mollezza malata di questo tempo la virtu’ deve implorare il perdono dal vizio, chiedendogli in ginocchio il permesso di fargli del bene “
William Shakespeare, Amleto, Atto III, Scena 4

Nostro Dio può essere quello aristocratico dei Romani, il Dio dei Patrizi, che si prega in piedi e a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni vittoriose – non il patrono dei miserabili e degli afflitti che si implora ai piedi del crocifisso, nella disfatta di tutto il proprio animo
Julius Evola, Imperialismo Pagano
Il Sole Nero esiste, e se ne sta mollemente adagiato tra le dune arse dal caldo delle insenature californiane. I tramonti posticci, resi folgoranti istantanee di illuminazioni violacee e arancioni che fulminano l’occhio fin dove la pupilla riesce a districarsi, sono il frutto piu’ vero di una cappa malsana di elettrosmog, un mantello che se sali sulle colline o sulla Mulholland Drive di lynchiana memoria vedi scendere lentamente sui profili assopiti di Los Angeles.
Triturato nei rifiuti aerei, il povero Astro Solare cessa di essere una palla infuocata e diventa un bulbo tentacolare che irradia timide secrezioni nerastre e rossine e a volte perfino verdognole, come un vecchio tubolare neon che prenda a scorreggiare i suoi ultimi aliti di luce nel ventre di qualche laboratorio anatomopatologico. Quale cornice migliore, tra i Canyon, i deserti, gli insediamenti urbani incastonati tra miglia e miglia di nulla sabbioso e cancri architettonici di megalopoli in metastasi perenne, per una vicenda come quella di Charles Manson ?
Certe volte, pur detestando con tutto il cuore Los Angeles, capitava che ce ne andassimo a meditare proprio tra Canoga Park e Sherman Oaks o, se qualcuno sentiva esigenze di industrializzazione pornografica, a North Hollywood, con tutti quei capannoni da triste fattoria che si snodano tra i binari della ferrovia commerciale e i volti ispanici del cazzo radunati sui marciapiedi in attesa di qualcuno che si interessasse a fornire loro un lavoro giornaliero.
Arrivati dopo un estenuante viaggio in macchina, la cui parte peggiore, per quanto possa suonare paradossale, era proprio il tratto finale di immissione sulla orrenda auostrada-megastrada-Raccordo di LA, ci sfinivamo definitivamente a cercare i luoghi, i topoi del pellegrinaggio. Ognuno con le sue specifiche motivazioni, i suoi pensieri, le sue voglie e la sua chiara consapevolezza di essere piu’ serio di tutti gli altri messi assieme.
Dopo aver attraversato il deserto, o almeno meta’ degli scombiccherati insiemi di pueblos argillosi e baracche da pianura alcalina, con l’unico totalizzante color ocra a perdersi fin lungo la tremolante linea d’ombra, caldo terrificante e radio a far compagnia, avevi gia’ capito che razza di atmosfera avessero potuto respirare allo Spahn Ranch decenni prima.
Il peso di una presenza escatologica in California e’ un destino a cui non ci si puo’ sottrarre; la Fine la trovi dappertutto, nelle silenziose lande desolate cantate dal Kerouac di DESOLATION ANGELS, nelle aree abitative incistate le une sopra e dentro le altre, in quel senso spartano di attesa che separa l’oggi dal giorno in cui la Falda di Sant’Andrea decidera’ di andarsene a fare un viaggio per mare portandosi dietro milioni di cadaveri, nell’idea, metastorica e malinconica, che i Pionieri, i Cowboys, i Pellegrini che duecento anni prima avevano attraversato tutti gli States alla ricerca di una nuova terra Promessa non avessero trovato altro che il punto finale del mondo occidentale, rappresentato degnamente dalle acque dell’oceano, proprio quell’ oceano che ancora oggi si stende cupo e carico di presagi davanti la costa.
I segni, manifesti ed impliciti, se uno sa coglierli, se ha la mente non ancora atrofizzata, li coglie. D’altronde come scrisse il buon Crowley “ Il problema della vita non era in che modo “satanizzare“, come l’avrebbe definito Huysmans; era, semplicemente fuggire gli oppressori e godersi il mondo senza interferenza alcuna da parte di una qualunque sorta di vita spirituale. I miei momenti più felici sono stati quelli in cui ero sulle montagne; ma non vi è prova che tale piacere sia in qualche modo derivato da misticismo. La bellezza delle forme e dei colori, la gioia fisica del moto e lo stimolo mentale di riuscire a trovare la strada su per difficili sentieri campestri sono stati gli unici e soli elementi di quello stato di rapimento “ ( CONFESSIONI).
E l’idea in fondo era proprio quella. Esplorazioni mansoniane, con ognuno alla ricerca della sua propria pietra filosofale, approfittando della grandiosa solitudine di quei tramonti. Perfino le ville di Bel Hair e la cancellata di QUELLA villa in particolare diventavano un luogo carico di polarita’ e di tensione, il raggiungimento del nostro Fine, la nostra privata e secreta Mecca in cui rinascere; c’e’ solo una legge, il Piacere. Ed il Piacere e’ Potere.
Nessuno dovrebbe apprezzare Manson solamente per lo scempio di Sharon Tate. La grandezza e l’importanza di Manson vanno ben oltre quel fatto di sangue.
Il vero motivo per cui deve essere apprezzato lo ha capito benissimo James Mason nel suo libro SIEGE; Manson e’ il Fuhrer di un Terzo Reich psichedelico e luciferiano che vive nel profondo di ciascuno di noi. Manson ha raggiunto il massimo del Potere, ha ottenuto la sua propria gratificazione attraverso il dominio, il controllo, la predicazione, il sesso, l’arte. E dovrebbe essere un esempio per chiunque aneli ad una vita veramente libera e indipendente.
Come Hitler, la cui figura assoluta si staglia su un orizzonte di lingue di fuoco e rune argentee, noi ricorderemo Manson, e lo ricorderemo con timore, paura e reverenza. Diceva Machiavelli che se si deve scegliere tra l’essere amati e l’essere temuti, e’ sempre preferibile essere temuti. Almeno si ha la certezza di passare alla Storia, di lasciare una qualche testimonianza del nostro passaggio sulla faccia della terra.
Come Hitler, Manson si e’ messo sotto i piedi la morale conformista borghese, ha radunato pedine per il suo gioco ed ha dato vita ad una partita a scacchi di inaudita potenza. Perche’ si e’ liberi e vivi solo nel raggiungimento della Potenza.
L’essere liberi lo si intuisce e percepisce lentamente, nel maturare della solitudine. “E abbiate uomini intorno a voi che siano come un giardino, - o come musica sulle acque, quando è sera, e già il giorno diventa ricordo; scegliete la buona solitudine, la libera, coraggiosa, lieve solitudine che vi dà anche un diritto di restare ancora, in un certo senso, buoni“, ha scritto Nietzsche (ALDILA’ DEL BENE E DEL MALE).
Il ritiro nel deserto e nello Spahn Ranch e’ stato il suo personale Bunker di Berlino , mentre attorno tutto crolla e non rimane che il ricordo dei fuochi di Norimberga, lo strazio di un mondo perduto e gli ultimi sussulti pre-agonici; ed e’ proprio in quei frangenti che emerge la Volonta’ dell’Uomo, incarnato nella sua ricerca di potere, pochi attimi prima di salire gli scalini del patibolo.
“ Non appagamento, ma più potenza; non pace in assoluto, ma guerra ; non virtù, ma eroismo “, Nietzsche (L’ANTICRISTO). L’accettazione passiva del ruolo che la societa’ sembra averci ritagliato attorno, la calma supina, l’ignavia sono veramente dei peccati tremendi.
Manson e’ assurto a Simbolo. E non e’ cosa di poco conto se si pensa che uno degli aspetti piu’ inquietanti della Nuova Era e’ la necrosi dei simboli, necrosi propiziata dallo svuotamento di energie che il Cristianesimo e i dogmi del politicamente corretto hanno operato; l’intero patrimonio archetipico spirituale e magico-iniziatico rischiava di andare disperso sotto gli attacchi concentrici delle consorterie democratiche e cristiane, preoccupate del mantenimento/reiterazione dello Status Quo. Se non fosse stato per eroici, forti, determinati Individui che hanno preservato la cultura di resistenza ( nel senso schmittiano di “forza frenante” ) e l’ hanno tramandata, arricchendola di spunti e riflessioni loro personali, noi oggi non faremmo altro che benedire la bellezza del mondo in cui viviamo, ritenendolo davvero il migliore possibile.
Se noi stiamo ancora in piedi, lo dobbiamo ad Uomini come Charles Manson. Al suo calvario di Crocifisso in aula di tribunale e reso oggetto di attenzione mass mediatica, al suo marcire in schifose celle. In un certo senso il suo quotidiano sacrificio e’ la nostra salvezza. Fino a che Manson vivra’, almeno a livello simbolico, ci sara’ una prospettiva concreta per una alternativa esistenziale.
La produzione di simboli è un infatti un lungo procedimento ininterrotto che scorre parallelo alla civiltà umana e che con essa si interseca, a volte influenzandola a volte venendone influenzata.
Ma perché un simbolo possa dirsi effettivamente efficace esso necessita di un potere, di una energia intrinsecamente connaturata che lo svolga e lo dispieghi nella sua molteplicità di sensi e funzioni. E questo Potere è la Volontà dell’Uomo.
Si potrebbe dire che l’intera architettura delle pratiche magiche è una costruzione labirintica in cui si immettono elementi di pura volizione, di libidine, di pulsioni, di passioni che ora si fanno incandescenti ed ora invece tendono a raffreddarsi, generando la morte del simbolo stesso.
Un simbolo è un frammento della Volontà umana. Unendo più simboli tra loro abbiamo una catena simbolica, che diventa una chiave di appropriazione della Natura , di Dominio, di Elevazione, a patto che si sappia padroneggiarne l’intero significato, perche’ come avvertiva severamente Goethe “Con Dio non puo’ misurarsi un uomo qualunque” (I CONFINI DELL’UMANITA’).
Il mio pellegrinaggio nei luoghi percorsi da Manson e’ stato un tentativo.
So perfettamente che centinaia di imbecilli sono attratti dal delirio di sangue, dai particolari splatter e true crime, dal quoziente di violenza quasi pornografica che trasudava dai dettagli ( poi in molti casi rivelatisi falsi) dello scempio di Sharon Tate e dei suoi ospiti, ma per me c’era un senso differente e pieno.
Io credo che Manson abbia agito nel suo pieno diritto di Uomo libero. Autodeterminazione e autonomia postulano la responsabilizzazione del singolo, la sua piena crescita, il suo trionfo nell’ordine naturale. Ritenere invece che si sia tutti legati, incatenati ad un grottesco patto sociale di fratellanza cosmica, solidarieta’ e rispetto reciproco e’ un abominio ben peggiore della morte di Sharon Tate. Rispetto e compassione sono davvero dei valori ?
E a cosa porterebbero questi sedicenti valori se non a chinare perennemente la testa e ad ingoiare il fango che ci si spaccia per verita’ ?
La vita va conquistata dopo una estenuante prassi di purificazione interiore, non è un dato acquisito e pacifico; solo i codardi e i preti credono che la vita ci sia data, quasi fosse un omaggio di un dio buono e generoso che ci guarda ed assiste dall’alto dei cieli . E non si rendono conto, o fa loro comodo non rendersi conto, che la vita noi ce la prendiamo, ce la conquistiamo in tragici e sanguinosi combattimenti all’arma bianca contro i demoni della nostra psiche, contro la mediocrità, contro il consumismo e la mentalità borghese, contro ogni difficoltà che ci si para davanti.
La Natura non e’ amica ne’ nemica in tutto questo.
“La Natura è realmente posseduta da uno Spirito, ma questo spirito è lo spirito dell’uomo, la sua fantasia, il suo animo che, introducendosi volontariamente nella Natura, fa di essa un simbolo e uno specchio del suo essere”, Feuerbach ( L’ESSENZA DELLA RELIGIONE).
La vita e’ una guerra. Che volge, necessariamente, ad una sconfitta a causa delle soverchianti forze nemiche. Sai gia’ che il giorno in cui sarai piegato, dannato e deriso arrivera’, ma devi tenere duro per renderlo sempre un po’ piu’ lontano. Ogni giorno contendere un metro di terreno al conformismo.Immagina la steppa russa, le isbe, la neve, i primi steli di erba e gli arbusti che spuntano dalla coltre di ghiaccio, la solitudine di chi deve marciare per miglia e miglia sapendo di poter essere attaccato in ogni istante, avanzare nel freddo, col fiato che si condensa in nuvole di vapore, l’ostilità degli abitanti rinchiusi nelle loro case, i loro villaggi e le foreste che piano piano diventano covi di partigiani, tutto attorno cadaveri congelati, resti di Tiger e T34, città in fiamme, il sapore dolciastro del sangue che cola dalle ferite aperte e la desolazione della sconfitta che , per la prima volta , vedi materializzarsi, nel cuore di una ritirata disordinata, scomposta, fatta di agguati, offensive abortite sul nascere, divise un tempo orgoglio del Reich e adesso lacere e rattoppate, senza più neanche i gradi e le croci di ferro conquistate dopo assalti all’arma bianca contro i Cosacchi sul Don, l’eco di Stalingrado che rimbomba nelle orecchie e che fa più male di tutte le katjushe messe assieme.
Immagina che una voce, lontana ed irreale, ti dica di fermarti, di arrenderti, di lasciare che le tue ginocchia stremate cedano, ti implori di smetterla con quella follia e che ti dica quanto sia orribile uccidere. Se darai ascolto a quella voce, non otterrai che la sconfitta immediata. E niente altro.
Non credere alle loro menzogne.
C’e’ sempre un buon motivo per ammazzare.
E farlo per legittima difesa, perche’ si e’ in guerra e’ un qualcosa di prettamente naturale.
Hitler ed i suoi Soldati erano in guerra contro il Mondo Moderno nella stessa misura in cui Manson e Noi siamo in guerra contro il Mondo Post-moderno.
Immagina che un Comandante, un tuo superiore gerarchico ti riceva dentro un castello in Polonia o dentro una Villa di Bel Hair. Un tempo siete stati amici, ma adesso le esigenze della guerra, per quanto non facciano venire meno cordialità e cameratismo, impongono scelte dolorose, dure, difficili. Questo Comandante ha un compito ingrato, ordini cui non si può obbedire a cuor leggero, eppure tu sai, e lo sai perché sei un soldato e sei sempre stato un soldato, ancor prima di indossare l’uniforme grigia con le rune del Tuono sopra, che non obietterai nulla. Non scuoterai la testa, qualunque cosa ti dica. Ed è per questo che , mentre i tuoi uomini si trascinano stanchi e assiderati per la steppa, tu ascolti con apparente noncuranza l’ordine di FARE IL VUOTO.
Questo e’ stato l’ordine che hanno ricevuto Tex Watson e Sadie e tutti gli altri che in quella notte di Agosto decisero che Sharon Tate avrebbe dovuto salutare il mondo.Questo e’ stato l’ordine ricevuto dagli Einsatzkommando Dirlewanger e Reinefarth.
Un Ordine a cui si deve adempiere non perche’ costretti, ma perche’ e’ l’unica cosa che si possa e si debba fare.
Immagina che tu , una volta tornato al fronte, scopra che la ritirata è sempre più confusa, le azioni dei partigiani sempre più nocive e temerarie, il morale dei tuoi soldati a terra. Ma a te non importa. Hai capito che hai avuto la fortuna di dover eseguire l’unico ordine che veramente ti interessava ti fosse impartito, e se l’accozzaglia cenciosa di soldati e sottoufficiali non dimostra un particolare trasporto per ciò che tu dici loro, ebbene questa è solo la dimostrazione che tu hai ragione. Se costretto spari ai tuoi stessi uomini. Li costringi a rinchiudere gli abitanti dei villaggi nelle loro case di legno, fai sbarrare infissi e porte e poi la soldataglia appicca il fuoco. Tu te ne stai là, a scattare foto o a bere acquavite o a passeggiare per i sentieri innevati, ammirando il crepitio del fuoco, le volute nere di fumo che si innalzano verso il cielo, guardi i tuoi uomini, alcuni esaltati e feroci, altri palesemente scossi, le urla delle vittime e le implorazioni si susseguono senza soluzione di continuità. Ogni volta che un gruppuscolo partigiano uccide un commilitone, hai la giustificazione per deportare tutti i cittadini, uomini, donne, anziani, bambini e farli camminare sui campi minati. E ai superstiti fai sguinzagliare i cani contro o sparare addosso con le Mauser. Tu cerchi giustificazioni. Non ti interessa la condotta di guerra o la promozione che ricevi per aver stroncato l’attività resistenziale, non ti importa nulla del buon andamento della guerra, della ritirata, della vita o della morte dei tuoi soldati . Tu vuoi soltanto che quel vuoto, quel vuoto che hai dentro di te, possa prendere il sopravvento.
E allo stesso modo, nell’asprezza macellaia della Notte di Bel Hair, si e’ palesata la nascita di una Nuova Epoca. La torcia che si credeva spenta ha ripreso a brillare.
Che non si estingua ancora.

Manuela Ruda

Le porte della celebrità si sono aperte dopo che i media hanno avuto accesso al grasso banchetto di chincaglieria satanica, estetica goth e soprattutto ai più morbosi particolari che hanno circondato il delitto perpetrato da Manuela Ruda e da suo marito Daniel.
Entrambi satanisti, o tali autodichiaratisi a giornali radio e tv, entrambi amanti dell’abbigliamento sadomaso e gotico, tendenzialmente gravitanti intorno alla scena underground tedesca (e oscillanti dal black metal fino all’EBM industrial, con annessa frequentazione di club e concerti), i Ruda si sono distinti per un efferato e brutale omicidio reso appetibile al pubblico generico per via proprio di tutto il background alternativo o genericamente controculturale dei due.
Dopo aver macellato artigianalmente un loro collega di lavoro (su ispirazione di Satana stesso...) e dopo aver brindato con il sangue della vittima ed averne usato in abbondanza per esperimenti di body-painting e perfomance art figurativa, Manuela Ruda ha avuto la brillante idea di scrivere su di una parete , in pieno stile Charles Manson, “ Carcass Gate 7 Bunker Exploitation “ ed i media tedeschi, sempre solerti (al pari di quelli statunitensi), quando si tratta di stabilire un nesso di causalità tra musica underground e commissione di efferati delitti, sono risaliti fino al buon Rudy Ratziger, dj e mentore del progetto industrial Wumpscut, da anni famoso nel circuito underground internazionale per ritmi abrasivi e testi che definire misantropici sarebbe eufemistico.
Da tempo attento all’estetica estrema, all’arte più radicale e ai serial killer, Wumpscut si è trovato al centro di una annosa querelle; da bravo provocatore, ha reagito campionando i tg che parlavano del delitto ed ha composto una canzone, titolata sarcasticamente Ruda, che molto appropriatamente è uno sberleffo all’intera impalcatura moralistica edificata attorno a questo delitto.
Le considerazioni che potrebbero essere tratte da una vicenda del genere sono veramente infinite; pervasività dei media, tesi paranoiche che vedono in ciò che non è culturalmente omologato (musica, letteratura, cinematografia, arte) una potenziale minaccia allo Status Quo, moralismo bigotto ed ipocrita. Ma, alla fin fine, sono considerazioni che vengono portate avanti solo da chi si è finalmente svegliato dal torpore, dal grigiore di questi anni, mentre tutti gli altri, tutti gli agnellini che belano di solidarietà, compassione, fratellanza ed amore, continuano a ritenere che sia giusto censurare, vietare, ostracizzare, perché il comportamento deviante, second i loro cervelli fatti in seri, deriva dal coltivare interessi “ oscuri “.
Sarebbe il caso di evitare l’utilizzo di parametri moralistici quando decidiamo di studiare o anlizzare un fenomeno del tutto particolare quale è l’omicidio. Se riteniamo plausibile l’esistenza del libero arbitrio e cominciamo, una volta per tutte, a stabilire senza possibilità di fraintendimenti che ogni indiviuo è responsabile unicamente delle sue azioni, escludendo fattispecie ambigue come il plagio, l’indottrinamento, l’istigazione, l’apologia di reato o di delitto, vediamo come l’intero castello su cui si regge la società moderna frana miseramente.
La nostra è una società di consenso generalizzato , un consenso che viene organizzato e mantenuto dal sovraccarico sensoriale di dati informativi ; siamo quotidianamente bombardati da giornali, tv, pubblicità, circolari, radio, quel flusso carsico ed inesorabile che già Ballard aveva profeticamente definito la nuova letteratura. Non abbiamo possibilità di usare senso critico o raziocinio, assorbiamo dati, continuamente, il cervello smette di distinguere l’utile dall’inutile, il vero dal falso. La coscienza è manipolata.
E’ del tutto evidente che per i reggitori del Sistema ritenere che i “ devianti “ (siano essi artisti o semplici individui che semplicemente deviano dalla norm) siano una categoria da combattere è in fondo pleonastico; da stabilire, però, come essi debbano essere combattuti.
In certi casi, si opta per l’ostracismo. Il silenzio. Nessuna copertura mediatica. La Siberia della non-distribuzione.
Ma in altri casi, quando il nemico riesce a generare un contro-modello, una alternativa mediatica ed il suo nome circola nei sotterranei canali underground, la tecnica di distruzione deve mutare; il discredito!
Quale migliore arma?
Il rock crea scompiglio ? Lo si definisce figlio di Satana !
La musica elettronica estrema tratta argomenti devianti e morbosi ? Le si appiccica addosso un bollino di perversione morale !
Così la brava porzione di gioventù omologata che vuole tanto bene a mamma e papà e al padre confessore schiferà come un cane rognoso chiunque osi ascoltare/suonare certi generi musicali e il discorso vale anche per la pittura, la scittura, il cinema…).
E se poi, la satanicità non basta più, ecco comparire le nuove accuse; pedofilia (può forse essere un caso che negli ultimi anni così tanti musicisti, tra cui Pete Towshend degli Who e 3D dei Massive Attack , siano stati indagati per pedofilia, senza che poi, alla luce di indagini approfondite, emergesse un riscontro oggettivo?), istigazione all’omicidio o al suicidio ( una lunga e ridicola casistica negli Stati Uniti, di cui la vicenda Ruda sembra tardiva appendice...si pensi al massacro di Columbine di cui vennero indicati come "mandanti morali" Marilyn Manson e Boyd Rice).
Quindi, che cosa dovrebbe fare chi vuole lottare questo patetico e tragico status quo ?
La nota massima nietzschana invita a superare in potenza, per emergere dalla massa, tutti i corpi del genere umano messi assieme e quindi ad utilizzare una consapevolezza, una forza, una determinazione assolutamente senza compromessi; in parole povere, e secondo le linee guida già tracciate da Adam Parfrey in Apocalypse Culture e già prima di lui da William S Burroughs e da James G Ballard, è necessario il canto apologetico e totale degli outsider, dei maledetti, di chiunque, per quanto estremo rivoltante radicale pervertito, abbia qualcosa di stimolante o di originale da dire.Manuela Ruda è molo più intelligente di chi la sta criticando. Manuela Ruda ha ottenuto ciò che voleva, piegando i media ai suoi piedi, diventando una celebrità e godendosela in carcere. Una superstar gotica e virata in nero.
Si scrivono libri su di lei. Si dipingono quadri ( il serial killer e pittore francese Nicholas Claux l’ha immortalata in posa satanico-vampiresca, finita ad adornare il libro TRUE VAMPIRES, scritto da Sondra London, edito da Feral House ). La si intervista e le si dedicano articoli e saggi.
Allo stesso modo Wumpscut ha dimostrato sottile intelligenza; ha manipolato i media, prendendoli per il culo e facendosi promozione nel modo ritenuto più sconveniente ed inaccettabile dai guardiani della morale.
Persino gli imbecilli nerovestiti della scena gotica, i loro magazine e i loro gruppi musicali, si sono sentiti oltraggiati da quanto Manuela ha fatto, sentono ora di essere guardati in cagnesco, temono la solitudine e l’odio sociale. Patetici. Insicuri. Individui indegni. Non hanno capito, o fanno finta di non capire, che mentre Manuela ha assecondato le sue pulsioni portandole fino alle estreme conseguenze, autorealizzandosi nell’unico gesto, l’omicidio, che le avrebbe dato gratificazione psichica, loro continuano a seguire una moda, una corrente, si massificano nei loro rituali condivisi, nella lettura in serie di capolavori della scena decadente francese, giocano agli incomprei e ai sensibili perduti in un mondo di superficialità.
La moda è un metodo di controllo sociale. E loro ne fanno parte. Non sono ai margini, non hanno nulla di artistico, nulla di underground o di contro. Sono perfettamente integrati.
Il vero underground, il vero ribelle, è colui il quale segue solo il suo spirito, per raggiungere il massimo grado di gratificazione e di realizzazione, indipndentemente da mode, passioni condivise, rituali di massa ( lo stadio, l discoteca, il concerto rock, il best seller ); un individuo che esegua su stesso un rigido processo di razionalizzazione dei propri impulsi e che viva in coerenza con se stesso.
Che viva come Lupo tra gli agnelli.

domenica 20 aprile 2008

Manson




Da Coming Soon


In “Manson Girls” Lindsay Lohan avrà il ruolo di Nancy Pitman, una devota seguace di Charles Manson. Lo conferma Brad Wyman, produttore della Junction Films.
La Pitman conobbe Manson all’età di sedici anni. Sedotta dal suo carisma ne divenne ben presto amica ed ardente seguace e si trasferì a vivere con lui e la “famiglia”. Era a casa con lui la notte del 9 agosto 1969, durante la quale Manson pianificò un’intrusione a Cielo Drive, un ricco quartiere di Los Angeles, con l’obiettivo di entrare nella villa di Roman Polanski ed uccidere Sharon Tate, attrice e moglie del regista, incinta di 8 mesi, ed i suoi 4 ospiti.


Da La7 (mi dissocio dal tono generale e dalla definizione di "psicopatico")


Un album di canzoni da lanciare su internet. Non è una novità, i Radiohead lo hanno già fatto. Se non fosse che l'autore del disco non è un cantante professionista, ma uno dei più spietati serial killer della storia. Stiamo parlando di Charles Manson, lo psicopatico statunitense accusato di essere il mandante di alcuni dei più efferati omicidi degli anni 60. Fu lui a pianificare a Los Angeles la spedizione nella villa di Roman Polanski, che portò all'assassinio della moglie del regista, l'attrice Sharon Tate. Per i suoi delitti Manson, divenuto negli anni la personificazione stessa del male, sta scontando in un carcere californiano la pena dell'ergastolo. Dalla cella l'ex serial killer ha scritto un album di canzoni dal titolo "One mind" ed ha annunciato che verrà regalato sul web. Vista la curiosità che continuano a suscitare le sue gesta, è probabile che il disco venga molo scaricato.

giovedì 17 aprile 2008

L'Eden non è posto per le persone deboli di stomaco


Pierre Guyotat sta alla letteratura come le sigarette Black Death alla lotta contro il cancro; un malevolo flusso di coscienza sporcato da depravazione abissale e borborigmi caotici di odio represso, omosessualità nordafricana e diserzione elevata a paradigma di un mondo (de)privato e depravato in cui solo il sovvertimento e l'anti-natura diventano stilemi da seguire.
Guyotat sa il fatto suo, però. Perchè nessuno ha mai detto che la letteratura debba divenire giochino per menti afflitte e insicure, ed ecco così il Vitello grasso e d'oro agghindato da matrona drag queen nelle assolate e desertiche escrescenze dell'Africa settentrionale, dove francesi e algerini si impegnano a trasformare ogni metro di terreno in un mattatoio di sangue, bombe, lingue di fuoco, tortura e sessualità deviante. Un baby-prostituto algerino sballottato di coltello in coltello, di cazzo in cazzo, umiliato, devastato, violentato e mercificato, scivola nella corrente di un linguaggio torrenziale e contorto, un magma ribollente di screziata consistenza linguistica, elaborata e casuale la lingua come punta di penna-coltello da intingere nel sangue e nelle frattaglie.
Sesso e violenza, razzismo, omosessualità duvertiana di ragazzini scosciati negroidi al punto giusto per sollazzare l'impeto carnale di un qualche intellettuale francese, la morte, il disonore, la devastazione e le case crivellate da bombe estetiche da atrocità ballardiana, sullo sfondo un tramonto intessuto di suggestioni alla Bataille, Artaud, Sade, e poi in filigrana Burroughs e Ginsberg e l'abisso che scende fin dentro il ghiaccio dell'inferno.
Eccolo l'Eden, non giardino ma confusa oasi illuminata dal sole del deserto, non palmizi ma orifizi da penetrare, e il buon selvaggio che da Rousseau passa direttamente tra le pagine di un Boyd MacDonald arrapato e satanico. Si, satanizzato come un Sade apodittico, lumi e mortalità infantile, fame. Questo è un libro che definire particolare sarebbe riduttivo e criminale; se consideriamo che venne bandito dalla tollerante Francia, in cui è virtualmente possibile pubblicare di tutto. Scomparse tra il 1970 e il 1981, per poi ricomparire a seguito della edizione inglese. Va detto che Guyotat è autore dell'altrettanto controverso "Tomb for 50.000 soldiers", anche se ultimamente si è spostato su lidi di ancor maggiore sperimentalismo linguistico rendendo i contenuti brutali e violenti decisamente larvati. Quasi un rumore di fondo capace di ricordarci quanto sia potente l'odio.

mercoledì 16 aprile 2008

Slob


Ogni sette anni, quasi fosse una ciclica maledizione culturale, l’industria editoriale “scopre” la narrativa di genere, dando il via ad una massiccia campagna di pubblicazione di testi horror, fantascientici e fantasy; si rovista tra i forniti cataloghi stranieri, in prevalenza angloamericani, alla ricerca di qualche bestseller nascosto e assai più spesso preferendo importare interi filoni contro-culturali che abbiano già dato buona prova (in termini commerciali, ovvio…) nei loro paesi di origine. Non è un caso che cyberpunk e splatterpunk e dark new wave siano approdati a pizzaland quando in America erano già defunti e decomposti, archiviati sotto la voce “reperti del passato” nell’immaginario Museo delle tendenze letterarie.
La nostra endemica capacità di arrivare sempre secondi, azzimata e celebrata dai capitalisti della editoria generalista, ha affondato ogni possibililità di una via tutta italiana alla narrativa di genere, confinando e relegando l’Italia a mera provincia dell’Impero; nulla di nuovo sotto il sole, non fosse altro che queste ondate di import furioso determinano il tracollo delle piccole e medie case editrici specializzate da anni in narrativa fantastica o horror, e che si vedono scavalcate dalla potenza mediatica e di invasione delle librerie tipicamente ascrivibili ai colossi dell’editoria. Le elementari leggi della economia insegnano che una saturazione del mercato determina, sul lungo o sul breve periodo, un riflusso organico, con una decadenza assoluta della richiesta; e quindi mentre le grandi case editrici, una volta smesso di trarre profitto, abbandoneranno il giocattolo nuovo passando a qualche altro sollazzo, le piccole specializzate rimarranno a raccogliere i cadaveri e i feriti dal terreno.
Altro problema è che mentre una piccola casa editrice specializzata può contare su serietà, passione e notevole conoscenza del settore, le grandi multinazionali del libro, puntando solo alla vendita e ben poco alla qualità del testo importato, finiscono per immettere in circolazione delle autentiche porcate a fianco di capolavori; questa alternanza caotica finisce per diseducare il lettore medio, e soprattutto per dargli una immagine plastica e artefatta della narrativa di genere.
Fu proprio durante l’ultima di queste crisi settennali, ricorrente tra la fine degli anni novanta e i primi del duemila, che l’Einaudi (lungi fino a qualche tempo prima dal proporre libri horror, noir o di fantascienza) decise di dare alle stampe, insieme ad un mucchio di autentica spazzatura, uno dei testi più interessanti e brutali del Nuovo Horror americano; mi riferisco a SLOB di Rex Miller.
Slob è un libro del 1987. Ho già detto del ritardo congenito con cui da noi arriva tutto , ma sottolineo quella data perché negli USA corrisponde al periodo di massima espansione della cultura splatterpunk, l’horror ultraviolento e sessualizzato, in cui si evitano accuratamente gli stilemi classici della narrativa della paura e si va dritti per una strada di sesso bollente, serial killer e frattaglie.
Slob non è un libro facile. Il suo autore, Rex Miller, dj radiofonico, arriva dalla ventosa Chicago, che negli anni si è fatta conoscere come Mecca della cultura deviante statunitense, ospitando la Mike Hunt Publishing, la Fiera dell’Estremo, il cineasta Mark Hejnar, Peter Sotos, Steve Albini, e altre decine di pazzoidi ben assortiti, tra cui le superstar del delitto seriale Jack Eyler e John Wayne Gacy. Nel libro, finiscono sparate più che suggestioni underground tutte le pillole schizoidi che compongono la spina dorsale della cultura popolare americana; un incubo gotico urbano, incentrato sulle gesta assassine di un mostruoso serial killer, Chaingang Bunkovski, ex specialista dell’esercito, assassino prezzolato, psicopatico, gigantesco ammasso di muscoli e lardo sparato fuori direttamente dalle viscere infernali della guerra del Vietnam.
Bunkovski esercita la pratica della guerra totale su suolo americano, seleziona le sue vittime, ragazze sole, intere famiglie, casalinghe, le violenta, le tortura, le brutalizza e poi le ammazza in modo orribile, lasciandosi dietro nella desolazione metropolitana dei sobborghi di Chicago una lunga scia di sangue. Le descrizioni dei crimini sono vivide, dettagliate, Miller non risparmia in crudeltà ed efferatezza, passando di pagina in pagina attraverso una versione demoniaca di Moby Dick, in cui la Balena Bianca-serial killer finisce per incarnare la Nemesi di un Achab molto particolare, il detective alcolista e iper-frustrato Jack Eichord. Riprendendo un topos caro alla letteratura noir americana, quello del protagonista anti-eroe in cerca di riscatto e redenzione, Miller lo ricontestualizza in questo affresco di morte e carnalità omicida; così Eichord, alle cui investigazioni si interseca il punto di vista del serial killer, passa le sue giornate alla ricerca del segreto della felicità, con un alcolismo imperante, una famiglia distrutta alle spalle, una vita alla deriva senza apparente soluzione, eppure questo fallito chiamato a sconfiggere l’incubo abbattutosi su Chicago finisce con l’essere meno interessante del suo alter-ego criminale.
Non c’è dubbio, il vero protagonista, la star assoluta, è proprio l’orrendo Chaingang; serial killer spietato e incredibilmente brutale, ma non ritagliato nel cartone come potrebbero essere un Jason o un Michael Myers. Miller spende diverse pagine a delineare una credibile psicologia di questo gigante, e anche quando lo immerge nelle sue azioni omicidiarie non abdica all’intento di proseguire nel delineare una personalità credibile e tutto sommato affascinante.
Per 252 pagine si finisce con la testa sotto il fango, in apnea. Si seguono le investigazioni, gli omicidi (tutti descritti nel minimo particolare), la vita di Eichord e il passato di Chaingang; un calderone ribollente, e purulento, di morte, necrosi delle passioni, misoginia assassina, tortura, periferie metropolitane in cui germina l’isolazionismo compulsivo della società moderna (ma nel libro non ci sono tentazioni di becera bassa sociologia), umorismo cinico ed ultravioletto.
Un libro decisamente da avere.

giovedì 10 aprile 2008

Neuronia


La prima cosa che noti all'interno dell'inquadratura è il bagliore neon, così bianco puro, asettico, così algido ed irreale, di una bellezza quasi chirurgica.
Fatichi a mettere a fuoco i particolari, hai bisogno di sforzare gli occhi e di imporre loro un'analitica esplorazione attraverso quella spettrale aura che riverberandosi sulle pareti produce variazioni cromatiche argenteo-grigiastre. Potrebbe trattarsi di una corsia d'ospedale, di una sala operatoria o di un laboratorio chimico.
Poi.
Un campo lungo obliquo risolve l'impasse, denudando i contorni della stanza; sottili acquari dentro cui nuotano carpe ambrate, globi violacei che irrorano di una nuova imprevista luminescenza l’intero ambiente, alcuni pannelli di plexiglas (ne conti cinque, sfondo blu-ghiaccio, caratteri gotici rossi che compongono la scritta GINZA), una ragazza dai tratti orientali. Molto giovane. Lunghi capelli neri sciolti sulle spalle.
E' nuda. E legata.
Cavi elettrici introdotti nel solco delle natiche risalgono su verso il folto pelo pubico, superano la vagina e proseguono fino al ventre dove si fondono con intricati giochi di funi. Il seno, sodo e proporzionato, risulta piacevolmente messo in risalto dagli stretti nodi delle corde. Ha i capezzoli eretti.
E' coperta da una eccitante patina di sudore e circondata, interamente circondata, dal lucore neon che trasfigura i suoi lineamenti e che la rende simile ad un martire dell'iconografia cristiana. Un impercettibile movimento dei legacci la costringe ad assumere una postura marziale col busto dritto come un fuso e i bei seni in fuori e vedi il suo sguardo intenso languido sensuale attrraversare le dimensioni sfalsate della stanza e raggiungere direttamente il tuo cervello.
Un brivido di piacere ti percorre la spina dorsale mentre neuroni e sinapsi comandano al tuo cazzo di irrigidirsi, e senti l'adrenalina entrare in circolo nel tuo corpo.
E' una sensazione soffocante, claustrofobica eppure piacevole. Estasi sopraggiunta dopo un attacco di panico.
Adesso.
La ragazza viene issata sul soffitto da una invisibile carrucola, i seni si gonfiano e minacciano di esplodere, la vagina aperta e docile è sovrastata da un intreccio di cavi serpentiformi.
Un piacere primordiale che non sapresti descrivere con le parole accompagna la mutazione della scena. Lei ormai ha le gambe piegate all'indietro a formare un imperfetto angolo di quarantacinque gradi.
Che cosa rappresenta quell'espressione dipinta sul suo volto?
Dolore?
Paura ?
Godimento ?
Insofferenza ?
Mentre cerchi di razionalizzare una risposta capace di placare il frenetico battito del tuo cuore, una dissolvenza inghiotte l'esercizio di bondage artistico lasciandoti solo, muto, allibito.
Effetto neve. Scariche di energia elettrostatica sullo schermo.
Premi il tasto di avanzamento veloce fino a quando vedi comparire una giovane donna giapponese in tenuta da scolaretta.
E' in ginocchio.
Ai suoi lati, due ordinate file di uomini nudi con le teste fuori campo avanzano inesorabilmente verso di lei, puntano alla sua faccia masturbandosi freneticamente.
Il primo fiotto di sperma cade sinuoso sul volto sorridente dell'attrice, lambisce la sua bocca spalancata e s'infrange poco sotto il naso.
E' solo l'inizio.
I peni eiaculano a ripetizione inondando di vischiosa resina bianchiccia i lineamenti della fanciulla. Un fiume che scompagina ogni possibile resistenza, occupa orifizi, scroscia a terra con un monotono rumore di acqua che batte sulle grondaie. Lei rimane lì, lecca, succhia, beve e la sua lingua rapace e veloce netta le labbra dalle piccole perle che scivolano sul mento e sull'uniforme.
Senza alcun preavviso, viene sovraimpressa alla scena una scritta lampeggiante.
GINZA BUKKAKE.
Leggi, ma in realtà i tuoi occhi stanno scavando solchi tra le lettere per catturare ogni singolo fotogramma e per imprimere nell'iride l'immagine di una grazia femminile esaltata e resa ancor più viva potente evocativa dal magma di sperma.
La ragazza sorride, un sorriso impastato di secrezioni corporee.
Ti piace pensare che simile ad uno stampo lo sperma rappreso possa catturare quel sorriso ed eternarlo.
Sarebbe grandioso.
Intanto il tuo cazzo continua a pulsare inascoltato dentro la mano destra.
Poi la visuale della camera da presa sfuma annullando il filmato in un nero che ha dell'assoluto.
Rimani immobile. Col fiato corto.
L’immaginario schermo partorito pochi minuti prima dal tuo cervello, quando hai varcato la soglia del bagno e ti sei seduto sul water con mutande e pantaloni slacciati e abbassati alle caviglie, è spento.
Potresti riavvolgerlo questo nastro di cui sei regista, sceneggiatore, produttore ed unico spettatore. Selezionare le scene più vivide posizionando in pausa. Rivivere le emozioni. In fondo, hai ancora tutto nella testa.
Però non lo fai.
Non lo fai perchè hai capito.
Stimoli assorbiti sufficienti a spianare enormi autostrade di lussuria circolano liberi nei tuoi neuroni.
Finalmente hai capito che la vera eccitazione è nella mente che immagina.

lunedì 7 aprile 2008

Timeless - Madness becomes method


A breve si aprono i pre-ordini per il nuovo TIMELESS, datevi una regolata
alcuni autori ospitati :
ART -

Peter Christopherson , Martin of Holland , Angelo, Beatrice Cussol , Martha Colburn , Otto , Eric Hurtado (Etants Donné) , Savage Pencil , Lionel Darque , Jonas , Cameron Jamie , Loulou Picasso , T5dur , ESDS , Tisbor , Trevor Brown , Mikko Aspa , Pyon , Jankowski , Lionel Darque , Gea , Stephane Blanquet , Romain Slocombe , Jean Pierre Le Boul'ch , Fredox , Michael Williams (Eyehategod) , Gaspar Noé , Stu Mead.

TEXTS
Dennis Cooper , Bruce Benderson , Jordi Valls , Gaspar Noe , Romain Slocombe , Michael Williams for Eyehategod , Greg Scott for Bloodyminded

Peter Sotos, Julien Carreyn
CONTATTI e INFO :

Tre Scalini


( Foto di Anna Benedetto http://www.flickr.com/photos/hannabi)



Mi domando; dove siete ?
Squadrato come una fortezza Bastiani ma senza insurgenze tartare ammuffite tra le acque limacciose di un Tevere che ha smesso di essere biondo, screziato forse di meches a base di topi e merda, limacciosi i flutti si confondono alle correnti, al catrame e al traffico che strombazza tutto attorno, ecco a voi l’imponente edificio che separa topograficamente e legalmente i probi dai rifiuti sociali.
Via della Lungara tra dossi e avallamenti, e semafori e palazzi rinascimentali di una Roma padrona ormai addormentata e addomesticata dalla burocrazia che ne ha fatto Disneyland turistica, e dall’altro lato, altra sponda di sagace conformazione lo scempio di una Ara Pacis frettolosamente addobbata nel nome delle Pubbliche Relazioni da un Sindaco Voyeur, e il circolo Ufficiali e livree e foresterie e ministeri e la Corte di Cassazione con statue marmoree di insigni giuristi di epoca classica e la Sinagoga e la scuola ebraica, autobus, cielo livido basso incupito sugli odori di un mondo perduto.
Dove siete?
Lo ribadisco mentalmente, in un ideale smunto consuntivo che debbo porre a me stesso nell’istante stesso in cui varco quel portone; breve permanenza, ma abbastanza lunga da importi un confronto coi tuoi dubbi e con gli incubi. Metaforica acqua sale alla gola, sparandoti ad alzo zero contro tutto un vortice di rapide sensazioni; dolore, sofferenza, spossatezza, quasi una letargia dei sensi che si fa ben presto isolamento e deprivazione.
Istituzionalizzazione, strepitano i soloni agghindati della criminologia. La dignità la si può lasciare fuori dal portone, tanto nessuno verrà a reclamarla; inutile, controproducente, come quegli odori forti, pungenti e speziati che arrivano in volute e spirali dalla strada assediando le finestre sbarrate. Il volo dei gabbiani, ed i loro versi sgarbati, striduli; nulla che vada bene, nulla che confaccia allo stato d’animo presente.
Non è più tempo di stanze di costrizione, di pestaggi furiosi e isolamento barbaro alla Alcatraz, ma fa un suo effetto trovarsi davanti l’intero complesso dagli intonaci scrostati, anzi peggio, fa venire le vertigini esserne dentro proprio come Giona nel ventre della Balena; l’istituzionalizzazione, se la prendete e la cavate via dai pomposi tomi su cui tonnellate di figli di papà si formano, non è altro che un esilio interiore, una cacciata dall’Eden della rispettabilità sociale. E tu sconti quel senso immane di desolazione, come un Caino abbandonato da Dio e che cieco e furioso e dolorante deve prendere la via della fuga; vaghi senza una meta nel profondo della tua anima, e mentre senti il cigolio e poi il clangore del pesante cancello di ferro che ti si chiude alle spalle ecco che un groppo ti serra la gola ed inizi a respirare con fatica. Hai gli occhi lucidi, un gran mal di testa, e ogni rumore è amplificato, ti fa male e ti si sedimenta nelle orecchie. Come l’eco della dannazione.
Avevi detto; meglio regnare all’inferno che servire in paradiso. Eppure adesso saresti disposto a strisciare fuori e a riassoporare quella vita apparentemente banale ed insulsa: un clamoroso caso di rivalutazione postuma.
Muore la libertà, viva la libertà.
Prima che era mai? Una fila all’ufficio di collocamento, un esame all’università, un qualche rituale mondano di socializzazione, una relazione sentimentale più o meno logorata dal tempo, una uscita frettolosa con gli amici, la militanza politica, esistenza randagia e confusa. Adesso, anche la più merdosa di quelle cose scintilla come un faro durante una tempesta; ne avverti la luminosità, il calore, il senso di sicurezza.
A volte è l’assenza a confermare la presenza.
E ti vortica e rotea tutto nella testa, vorresti gridare o piangere ma ti sei imposto, o meglio hai imposto alla tua devastata fisiologia, di resistere il più possibile, di non stramazzare subito, perché la via dolorosa è ancora tragicamente lunga.
Vorresti che parenti, amici, semplici conoscenti fossero qui, ad infonderti un minimo di conforto, con le loro chiacchiere vane ed altrimenti insulse; sei spogliato del tuo essere uomo, immatricolato, incasellato, etichettato e spedito dove altri tuoi simili stazionano da tempi più o meno lunghi. Gergo e burocrazia spersonalizzano; nessun cartello “il lavoro rende liberi”, ma d’altronde qui non troverai né lavoro né libertà né la morte che possa fungere da pietoso surrogato della liberazione.
Sospensione perenne in condizione di non-vita, la sensazione di essere tumulato in una di quelle tombe etrusche aperte a ventaglio tra Lazio e Toscana, col tempo inesorabile a scorrere e le ossa macinate, poi un giorno al posto dell’uomo in blu ecco spuntare la testolina di un turista ai cui occhi apparirai tanto buffo e solenne quanto un graffito rupestre.
Sai che sei solo. Ma non c’è beatitudine in questa solitudine, non l’hai scelta, né voluta, né ancora accettata; dicono non la si debba accettare, perché l’assuefazione è veloce e letale. Solo con una imperativa resistenza mentale ed esistenziale puoi sperare di uscirne vivo.
Chi sei? Ecco la vera domanda. Si, ecce homo; tu stesso portato al cospetto di una folla rabbiosa, e lascia in pace, dimentica parenti, amici, conoscenti, l’avvocato che ha fatto promesse ed illazioni e che invece, ad un certo punto, capisci aver lavorato ai fianchi i tuoi genitori affincè continuassero fiduciosi a versare il suo onorario. Sei completamente solo, in balia di una folla che ha i suoi codici, i suoi parametri, elaborati tutti nella cattività e nelle sale umide e buie di questo posto.
La modernità qui è parola sconosciuta. Intendiamoci, non si è ai Piombi né nelle segrete di Castel Sant’Angelo; il comma terzo dell’art 27 della Costituzione non è stato certo scritto a caso. E che poi certe rieducazioni siano de facto impedite dal sovraffollamento, dagli spazi assurdamenti contenuti, dalla atomizzazione del vivere istituzionalizzato, dagli ordini e dalle pratiche, bè quella è questione di minor rilevanza; l’importante è che i detenuti possano avere la loro razione di televisione.Ad essere sinceri, quella più che rieducazione suona come un patetico tentativo di riprogrammazione, robe staliniste e maoiste di campi di lavoro e di rivoluzioni culturali, solo che al posto del dogma socialista adesso ti ritrovi le Marie de Filippi e i Costanzosciò di varia caratura, ed i tuoi compagni forzati si accapigliano in sfide, scommesse e sollazzanti pernacchie.
Il fetore è lancinante. Come una cortocircuitazione larsen innestata direttamente nelle narici, ti scuote, ti fa soffrire, ti deprime; e poi avresti solo bisogno di calma e silenzio, ed invece quella scatola infernale continua a gracchiare senza fermarsi mai.
Già, chi sei?
Lo stesso interrogativo abissale che si poneva Carl Schmitt.
Non so lui come ce l’abbia fatta; la cultura è un’arma a doppio taglio, perché fino ad un certo punto ti eleva e ti innalza, ma poi c’è una ricaduta come in tutte le convergenze psicotrope non richieste ed allora ti ritrovi con la testa tra le mani, ansioso, boccheggiante, luridamente proteso ad inalare la poca aria che arriva dalla Lungara.
Certe volte senti persino le voci. Non quelle tue di impazzimento furioso; le voci lontane ed echeggianti di coppie che si incamminano sul Gianicolo o sulla Lungara, non sai mai se siano vere voci o illusioni partorite dal tuo ricordo di quando eri libero e passeggiavi per quei paraggi.
Schmitt se ne era stato in una cella singola, isolato e schernito ed interrogato; ma fondamentalmente lasciato in pace. Senza quegli afrori da terzo mondo che costituiscono ossatura portante della istituzionalizzazione multirazziale, senza quelle brande imputridite ed umide, senza tossici boccheggianti o marocchini puzzolenti. Era rimasto un uomo di cultura, alle prese con quesiti certo immani ma che era possibile tenere sotto controllo.
Qui invece, vorrei davvero credere che Tief e Grund nietzschani abbiano una qualche chance di manifestarsi imperiosi, dominando la scena da quadretto gotico; una ricerca esoterica protesa alla definizione della rinascita. Ed invece la puzza dei cessi, il fetore delle brande e delle cucine mi riportano coi piedi per terra.
Non vedo nulla di ascetico in questa fraternizzazione coatta di reciproche miserie, al massimo un caritatevole esercizio di pietà cristiana; empatia come forma estrema di contaminazione. Ora, non per fare davvero l’anticristiano ad ogni costo ma nell’hic et nunc carcerario abbonda il disfacimento del proprio essere; che ciò avvenga ai piedi di una croce ricontestualizzata credo proprio non sia dato incidentale.
Sovvengono alla mente le paradossali, ma poi nemmeno tanto, invocazioni proposte da Meister Eckart; prego Dio affinchè mi liberi da Dio. Sostituite la parola Dio con Speranza e avrete un dettagliato, preciso, analitico indice della mia disperazione; la speranza uccide e corrode, come il cristianesimo. Quoddam indistinctum, quod sua indistinctione distinguitur !
Avere nel cuore il pur minimo briciolo di speranza significa andare incontro alla piena dissoluzione; la vita diventa lotta, artigliata con i denti e con le unghie, conquistata metro per metro, secondo dopo secondo. Non attesa di una qualche celeste discesa salvifica.
“A 6000 piedi al di sopra del mare e molto più in alto di tutte le cose umane!”; come vorrei poter dire lo stesso. Come vorrei avere avuto la chance che in effetti ebbe Nietzsche. Disprezzo e rancore per l’umanità ne ho pure io, ma dico e ammetto che in questo contesto a poco servirebbe il disprezzo. C’è un cristianesimo rappreso in tutto, e non solo nelle messe domenicali; c’è cristianesimo nel fare a se stessi quello che si sarebbe voluto fare agli altri. La propria apparente vittoria diventa sconfitta.
L’isolamento nella cella, quando arrivi e non puoi comunicare con nessuno perché rischieresti di contaminare la validità dei seguenti interrogatori, è il momento peggiore; il momento in cui l’anima ti si vomita fuori agghindata come Arlecchino a carnevale, solo che al posto delle pezze variopinte ti servono una focaccia spianata di merda.
Arrivi dal caos della vita esterna e piombi a capofitto nella tenebra dell’isolamento più serrato, lo scarto è enorme, lancinante; versi le prime timide lacrime, dove nessuno può vederti. E ad essere sinceri non te ne fregherebbe nulla nemmeno se potessero vederti. Piangere è perfettamente naturale. Non hai altra scelta.
Si, vorresti essere al posto del Viandante nel dipinto di Friedrich, innalzato sopra oceani di nebbia, titanicamente proteso verso un Assoluto che cresce come un mare in tempesta; ed invece sconti le ore ed i giorni nella penombra autunnale, non hai libri, riviste, giornali, solo una consunta copia della Bibbia. Ti perseguita quel libro dannato, con le sue storie di speranza, patto e promessa; e ti sembra tutta una clamorosa presa in giro, perché non vuoi essere redentore di nessuno, non hai chiesto un martirio ad personam, vorresti solo essere lasciato in pace.
Capita che qualcuno ogni tanto, sopraffatto dall’angoscia e dal senso di smarrimento, incapace di comprendere i meccanismi vitali che regolano la Fortezza Bastiani del Lungotevere, tenti con alterni risultati di ammazzarsi. Ma è difficile, perché nelle celle di isolamento non hai materiali utili per l’intento e nelle celle stesse ci sono i compagni e le guardie a prevenire certi istinti; la morale diventa che non si è padroni nemmeno del proprio corpo, non se ne può disporre. La volontà si calcifica, e poi scompare nelle memorie di una archeologia del dolore.
In isolamento, pensi; pensi a tutto, dall’alta filosofia alla tua voglia di uscire, cerchi di evitare come nei paradossi zen di arrivare ad immaginare scene felici ed allegre, perché sai che ti rovinerebbero la giornata. Ma è difficile pure questo, un po’ come l’ammazzarsi.
In carcere tutto è difficile.
Basta pensare alle richieste che nel confuso gergo dei detenuti diventano “domandine”; domandine da inoltrare al Direttore, al magistrato di sorveglianza, per ottenere un libro, un permesso di lavoro esterno o per andare al funerale della madre morta. Un termine che indica un regresso simbolico e concettuale preciso, il detenuto diventa un bambino, incapace di decidere autonomamente, privo di sfera personale, di proprietà privata, di privacy; deve essere comandato e gerarchizzato, secondo moduli procedimentali schiettamente asimmetrici. Ecco allora la domandina, nascondere poi una variegata realtà di elementi vitali; dici domandina, intendi speranza allo stadio terminale.In isolamento, puoi dire di non essere ancora entrato nell’atmosfera della Fortezza; nessun contatto visivo e fisico con gli altri internati, nessuna possibilità di proporre domandina, negato accesso alle (poche) comodità escogitate per indorare la pillola a chi si sfracassa di noia quotidianamente. In isolamento non esiste noia, perché non esiste tempo da ingannare; le ore diventano secondi ed i secondi si fanno giorni, niente luce se non una lampada irreale che rende impossibile dire se fuori, all’aria aperta, sia giorno o notte, se faccia caldo e freddo. I vestiti ti si incollano addosso, come i tuoi stessi odori. La barba si allunga. Come le ombre nel profondo della tua mente.
Intanto nel ventre cavo della Fortezza, un immaginario comitato di benvenuto ti sta segretamente valutando, per decidere cosa fare di te; il motivo per cui sei entrato vale parecchio. E poi potrebbe essere che vi sia qualcuno che conosci e che metta una buona parola per te, risultando magari più efficace dell’avvocato che fuori sta imbrattando carte nel tuo nome. Una giustizia veloce, spietata, senza tanti fronzoli formali. Altro che frenologia e scienza comportamentale, i Nostradamus coatti sanno magnificamente prevedere se uno è un infame, un debole, un idiota e se creerà problemi, o se al contrario si integrerà in quella fabbrica di deprivazione.
Quando esci dall’isolamento, hai due strade davanti a te; entrare subito in sintonia con le persone con cui condividerai lo spazio vitale oppure girare al largo alla ricerca di una improbabile solitudine che però nella maggior parte dei casi viene interpretata come scortesia o come ostilità. Varcare la soglia della cella è un po’ come il momento della verità di un esame universitario, quando scopri quale assistente ti è capitato in sorte. Un momento drammatico, e ricco di implicazioni emotive. Perché tu non sai nulla di loro, e loro invece sanno tutto di te.
I detenuti che bulleggiano e opprimono generalmente sono gli stranieri, avvinti dai loro codici tribali sovrapposti all’etica della Fortezza; al contrario gli Italiani, se li rispetti e li tratti con un certo grado non dirò di ossequio ma di umanità e di normalità, saranno ben lieti di accogliere la educanda pecorella smarrita. A meno che non siano tossici svalvolati, ovvio.
Non esiste una vera gerarchia carceraria, ma certamente esistono realtà esterne che finiscono col riprodursi anche dentro; bande, circoli, legami filiali e parentali, che tendono come una ragnatela a separarti dalla piena integrazione. Un po’ come il circolo della fiducia, loro ne sono dentro in automatico, tu per entrarci dovrai penare e attendere. Tutto sommato, la possibilità di scambiare quattro chiacchiere allevia il peso della noia; e non è assolutamente facile calibrare le dimensioni, le parole, dopo che si sono trascorsi giorni e giorni nel silenzio e nella tenebra. C’è una vertigine abissale a farti ronzare i polmoni quando per la prima volta ti rivolgi ai tuoi compagni.
Adesso hai anche diritto a vedere il cielo, durante i camminamenti circolari che qualcuno chiama “ora d’aria” e che rappresentano una lugubre parodia delle passeggiate che avvengono fuori dalle mura, in quella stessa area; sul Gianicolo varie coppiette cinguettano, si abbracciano e si baciano promettendosi fedeltà e amore eterno, qui invece si va alla deriva, camminando senza orientamento né meta, come naufraghi dell’esistenza alle prese col dolore della quotidianità.
La vita non ha altro senso se non in se stessa. Una sfida a trovare motivazioni, una lotta contro l’abbrutimento, ti chiedi perché andare avanti e non sai risponderti, vai avanti per mera fisiologia, solo perché è più arduo porre un termine che non il contrario. Spegnere la volontà affinchè la morte non abbia nulla di terribile, per dirla alla Schopenauer, è un esercizio di metodica e scientifica crudeltà, e non tutti ne sono o sarebbero capaci.
Vivi perché devi vivere. Perché così ordina l’istituzione penitenziaria. Ammazzarsi è contro il regolamento.
Non è una bella cosa, ma d’altronde sono poche le cose degne di essere definite “belle” qui dentro. Sai che dovrai toccare il fondo, e poi prendere a scavare; non per evadere metaforicamente, ma almeno per appropriarti dei tesori nascosti dell’esistenza, facendo appello ad energie che ignoravi persino di avere.
Quando uscirai non sarai un uomo migliore.
Quando uscirai, vedrai il mondo con occhi differenti, e capirai che con le dovute proporzioni siamo tutti prigionieri. Il cancello si chiuederà fragorosamente e tu prenderai un ampio respiro, come se dovessi gettarti in apnea; la vertigine tornerà, non sei più abituato allo strepitare delle scolaresche, agli strombazzamenti, al caos cittadino. Alcuni vomitano, si sentono male. E li capiscono benissimo.
Alle spalle rimane la sagoma della Fortezza. Nonostante porti il nome di una Madonna, di santità se ne vede e trova poca.
Di martirio invece, quanto ne volete.