domenica 31 agosto 2008

Tra giardini di carne, solo odio









Chi sei tu?
La domanda è abissale, già; una voragine nera come le fauci di Loki, giocata tutta sul delicato crinale delle possibilità e delle metafore emotive, come carne straziata, screziata, adorna di tatuaggi piercing innesti prostetici latex, clangore di cingoli e sferzare di fruste frustini scudisci, cavalli di frisia, tempeste d’acciaio nel ventre sordido di un peep-show, questa domanda sistematicamente si reitera nel profondo della mia mente, e si pone su di un piedistallo ricco e pacchiano.
Non ho una cella austera e spartana come quella di Carl Schmitt dentro cui poter isolarmi dal mondo e coltivare il mio beato odio; posso solo guardare il mio volto riflesso dalle timide luci neon, lucori azzurrognoli di uno club di strip e un vetro che mi separa, idealmente, dalla spogliarellista che cerca con le sue evoluzioni di farmi comprendere la legge marxista del riciclo perenne. Io ho letto il Capitale, annoiandomi, facendomi violenza sbadigliando in certe parti, chiedendo pietà ai demoni del determinismo e del materialismo storico, e in quel terzo capitolo ho trovato la risposta palese al quesito che lastrica la ferrovia che scorre da Aneda fino a Tokyo, gomi e suburra nippo-tecnologica di riciclaggio furibondo e altoforni dickensiani, e questa spogliarellista, le sue evoluzioni, la sua fica, le sue tette, le sue posture devolute all’eccitazione animalesca e fisiologica, mi sta interrogando.
Anche lei chiede; chi sei tu?
Senza quella barriera io non la toccherei comunque. Sono venuto in questo criptico dedalo di solitudini soltanto per commiserare la mia esistenza in negativo, tra alterchi e bianco-nero sparato da flash, non certo per consumare un ologramma sessuale, non certo per sentirmi avvinto dalla concupiscenza; non è una mera questione di cazzo eretto, di abbigliamento più o meno dozzinale, di sperma o sangue o kleenex di cui la stanza angusta e sporca in cui mi trovo ora è ingombra, è il dolore di quella domanda, il peso assoluto e crudele di una risposta che non esiste e che comunque io non troverò mai.
Gli odori. Hanno una consistenza. Una loro struttura. Certe volte dovremmo essere tutti ciechi per poterne apprezzare appieno l’importanza; per poterci lasciare andare, avvinti e concupiti davvero, senza l’idiozia dell’apparenza, senza la superficialità del giudizio.
Quarti di carne, Xanax, anti-depressivi e farmaci anti-aids, l’anti nel qui, hict et nunc di pura pornografia, come il caviar di Marcelo Cross se Hermann Nitsch avesse guardato più volte Cruising e potesse apprezzare il senso ultimo del fisting anale, ecco cosa mi circonda, ecco chi mi circonda, uomini vuoti che naufragano tra sale e scomparti asettici, algidi, dipinti di nero e adombrati di luminescenze verdastre, blue, bianche e da luci rosse intermittenti che segmentano le performance delle puttane, pardon delle starlette che i nostri soldi hanno posto qui, nel qui ed ora appunto.Latex, per pompini, performance, idiozia post-ontologica, il tempo è fermo ma l’essere non se la passa bene, l’occhio cade su un particolare inutile ed il passamontagna e lampi neon e saette di elettricità guizzi di pura malinconia di solitudine, no io non so chi sono, nemmeno Spranger potrà obbligarmi a salire sul banco degli imputati e dichiararmi malato matto o colpevole, perché per essere colpevoli bisogna aver fatto qualcosa ed io invece ho scelto l’anomia, la solitudine, l’isolamento ed il non fare nulla.
Arriverà il giorno in cui non avrò più bisogno di nascondermi dietro gli aforismi di Nietzsche per esprimere il disprezzo e l’odio che nutro nei confronti del mondo.
Un giorno di disperazione assoluta in grado di alterare la percezione emotiva che ho sempre avuto delle relazioni inter-personali. Un giorno in cui potrò finalmente ritirarmi nella mia esistenza di solitudine, a guardare con rabbia, rancore e frustrazione lo scorrere della vita altrui.
Un giorno in cui tutte le dolorose illusioni sin qui coltivate evaporeranno come brina al sole lasciando alle spalle uno scenario di morte e sangue, una visione medievale d’inferno a cui abbeverarsi per dimenticare una volta per tutte il senso stesso della parola “felicità”; nessuno ha il diritto di essere felice, non in questa società, non in questa esistenza costellata di fallimenti e anomia.
Per quanto balli come una baccante, per quanto si sia tutti in questo labirinto evocato da Borges, per quanto le nostre solitudini si siano disperatamente cumulate, io ancora non so dare una empia risposta a quel quesito e la puttana spreca il suo tempo, il suo essere, tutti i neologismi coniati da Heidegger e le salvifiche passeggiate nel folto delle foreste tedesche, spreca tutto per cinquanta euro. E me ne vago, nomade e monade, solipstico, marcescente, con gli occhi inumiditi, per gli anfratti di questa località che forse esiste o che forse non esiste, chissenefrega, io non esisto, non esisto più, e non possono condannarmi, imprigionarmi, interrogarmi o peggio ancora definirmi, le luci mi sono sparate in faccia, i corpi sono catarsi, vorrei torturarli, ucciderli, annientarli, annichilirli, farli cadere nella fornace della consunzione perenne, come serial killer della storia ma senza libri di testo.
Cosa vuoi? Sembra chiedere ora, tra sguardi ammiccanti, pose civettuole ed occhi di fame, quegli occhi che nascondono la realtà di periferie immote, droga, tristezza, promette sesso, sesso facile e relativamente a buon mercato, pompini di latex vestiti, latex nero, pvc, vinile, corpetti fetish, frustini, ma io voglio più disperazione, più turgore, più sofferenza, immagini vivide di Peter Kurten e dei suoi tramonti rosso sangue, le immagini di corpi straziati body art omicida, sesso e amore, sesso e morte, morte e amore, malinconia e povertà, isolamento e bunker, panzerfaust e campi di morte inverno che finisce e che lascia striature di sangue sul mio volto, come lacrime di carne e un dolore vagamente sotteso, mentre mi frugo tra le tasche e non trovo altro che le prove tangibili della mia solitudine.
Già, cosa voglio?
Non voglio la felicità, anche se ho erroneamente creduto che potesse essercene un brandello a mia disposizione dimenticato in qualche cantuccio di supermarket dello spirito e non vedevo (non volevo vedere?) che ad ogni felicità raggiunta corrisponde sempre una caduta verticale, un dolore così intenso ed abbacinante da azzerare l’effimera gioia sin lì provata. Il retrogusto amaro dell’abisso in bocca, come se un dio oscuro e rovesciato avesse preso a maledire la volta celeste nascosto tra i nostri denti, poi nel nostro esofago provocandoci conati di rifiuto ed un grido di dolore celebrato senza orpelli di frustrazione posticcia e tristezza plastificata.
Ho fallito.
Ho sbagliato.
Tutto.
Senza possibilità di redenzione.
Senza riscatto, nessuna seconda chance; tutto finito, tutto andato, attimi e fotogrammi di una vita senza senso, senza una linea portante, vissuta alla deriva come il peggiore dei naufraghi, quello che si ostina a coltivare la speranza di poter essere salvato; e mi agito nel ventre cavo e spumoso del maelstrom, isolato, guardingo, timidamente proteso alla nullificazione delle mie pulsioni e dei miei istinti, una voce dispersa tra le pieghe metodiche dell’oscenità, perché ho sempre sospettato che l’unico modo per raggiungere un qualche obiettivo sia codificare una propria visione, una propria Etica, sfuggente, liminale, caotica.
La spogliarellista esiste. E la sua condanna, poveretta, sta proprio in questo; esistere, non c’è nulla di peggio. Uscire da un ruolo per dover poi assumere una fisionomia reale, senza nessun valore che non sia la dura realtà, eh già, come fosse facile non-esistere, chiedetelo a chi ne sa qualcosa, a chi perenne e immortale si sublima giorno dopo giorno nella purezza del mito.
Il paradosso di Kleist!
Er suchte hier den Tod
Und fand Unsterblichkeit.
Triste destino. Per questo meglio, infinitamente meglio, lasciare che l’oblio si stenda come il più piacevole dei sudari su di noi. Ma poi, perché noi; io, dovrei dire. Ho sempre questo vezzo a voler fare teoria generale, quando invece mi sembra evidente che sia meglio scrollarsi di dosso la vita e la verità e rimanersene silenti a guardare il passaggio della corrente, attendendo di veder passare pure il proprio cadavere.
Ciò che attendo con viva impazienza di vedere su questo schermo al plasma e su questo vetro, aldilà delle inquadrature frenetiche di corpi e di scopate e di sangue e di sesso, è la morte, la morte immensa vorticante lunare piena totale; e chi la brama in fondo ama la vita, perché la voglia di morte non è morte. E’ pur sempre, ahimè, un esercizio di volontà.
Per questo, casuale o imprevista che sia, ecco una morte degna di essere ricordata, riversi come un Pasolini da peep-show con le mutande calate e lo sperma incrostato sulla bocca della puttana, lei che prima succhiava pompava faceva finta di gemere perché nel prezzo pattuito è compreso anche un simulacro di godimento reciproco, di sinallagma, per evitare che la solitudine della masturbazione si riversi anche su un pompino, compri quel che c’è da comprare, non un corpo, non una bocca, non una fica, non un mero svuotamento di palle, compri te stesso, la tua proiezione mentale ed egotica, le tue assurde fisime, la colpa di essere nati.
Non c’è espiazione sufficiente quando ci si trova davanti al non-essere, quel non-essere diafano e catodicamente scintillante, coacervi globulari vene recise sangue grumi di muco secrezioni oleose che generano non-vita depressione, come lenirla?, depressione immanente incidente imponente ed un me impotente, sale ed aule di sesso promiscuo, coppie, donne con animali, cani cavalli mufloni, standing ovation di piacere e lotta e il senso amaro della sconfitta patinata rivista porno; modulazioni di frequenza altissime, continua a luccicarmi davanti l’ombra latex del suo corpetto, le dico “sara’ tuo”, ma solo solo se saprai dirmi chi sono, dove sono e dove potrò fuggire una volta che avrò capito. Parodia di vita, come un concerto di Grunt descritto da Peter Sotos, flutti oleosi magmatici deprivati inconsistenti morbosamente aggrovigliati, laocoontici, lei gli prende il cazzo in bocca, lo spompina, ma quel “lui” è un me, sono un io, o non-sono nulla, nella doppia negazione come moltitudine cangiante e deforme delle legioni di anime weiningeriane, l’attrazione nel suicidio, nella scelta coerente di annullarsi nel non-essere e diventare un essere, “non”, metterlo davanti a tutto, elidendo la coerenza e producendo un nulla, quante cose mi son perse, oh, quante, la prigionia di un me sconfitto, ma chi dirà che son problemi esistenziali da poco prezzo o candide fantasie di escapismo o rabbonito isolazionismo da pruderie sadomaso, capezzoli trafitti, crocifissioni, pratiche remote e paleolitiche o degli stiliti della patristica, il martirio della carne in versione power electronics, oh Sade prossimo mio vorrei una guerra tutta per me una testa di Giovanni Battista su piatto d’argento allungare le mani mentre spompina il “me” e prendere ciò che da tempo avrei dovuto prendere, sentirmi non-vivo e smettere di crogiolarmi tra questi deserti del reale.
In passato.
Avrei dovuto murare ogni spiraglio, ogni pertugio, evitare la luce, evitare i rumori, lasciarmi scivolare addosso il dolore degli altri insensibile, veramente cattivo e cinico, ai limiti del cinismo ultravioletto, impegnandomi a che in futuro della mia esistenza non potesse rimanere traccia alcuna, esattamente come si era preoccupato di fare secoli prima Sade.
Perché, perché un soldato tedesco ha profanato il tuo sonno Marchese? Perché ti ha riportato alla luce? E lacrime di sangue per i manoscritti persi e l’isolamento, ah ma lo avessi avuto io quell’isolamento mio Marchese, ne avrei fatto buon uso e ne avrei carpito l’essenza più profonda, interrogandomi come te, come Schmitt, come ogni recluso intelligente.
Non serve condanna effettiva, si dirà. Ne sono persuaso. Ma la condanna, formale, burocratica o solo spirituale, ce la portiamo tutti dietro, solo che a volte non se ne percepisce l’afrore, per quello dico che certe volte servirebbe essere ciechi, affinare i nostri sensi, giocare sporco, andare a tastoni ed incrudelirsi in senso di sangue e onore.
Mi sono stupidamente illuso, ho pensato, e questa è la colpa più grave, che il dolore degli altri potesse essere la mia felicità, ma non avevo calcolato che in questa forma mentis deviata la felicità altrui diventa esponenzialmente tossica e velenosa, la peggiore sofferenza che possa essere inflitta, ed io sono rimasto fermo, immobile, incancrenito, ad espormi alla radioattività emotiva; quando invece avrei solo dovuto odiare, ed odiare sul serio.
Un odio totale, cieco, sordo, privo di umanità, vero, in grado di fare tabula rasa attorno a sé per i motivi giusti, non per essere temuti, rispettati, ma solo per annientare ogni contatto umano, per spezzare ponti e ostruire vie di accesso, evitare le relazioni umane, diventare granito immobile per una gioia eterna ed interiore, sublimata nel rosso carnicino della guerra; un odio che non può essere descritto e reso a parole, che non può essere inteso, concepito, ma solo vissuto e subìto, alieno e lontano da ogni ipotesi di empatia.
Senza pose, senza ironia, senza sorrisi, senza spiragli e fughe, nessuna ritirata nel cuore d’inverno.
Non contano quelli che verranno dopo perché i migliori saranno caduti. Siamo tutti morti senza saperlo e cerchiamo la pace eterna, la quiete di un riposo che le convenzioni sociali ci negano, costringendoci ad amare, a rispettare, a voler bene, a giocare il nostro ruolo nello stritolamento delle dinamiche sociali.
Ho creduto, erroneamente, che il senso della mia vita potesse essere odiare gli altri, ma ho fallito; anche in questo, come in tante altre cose ho fallito. Non sono stato davvero in grado di odiare fino alle estreme conseguenze, non sono stato in grado di sfruttare, di sottomettere, di essere cinico, freddo e distaccato, ma al contrario mi sono piegato ad aiutare, a soccorrere, ad essere la voce amica nel cuore della notte.
Ed ora non mi resta che chiedermi; chi sei tu?
Come una triste eco riverberata dagli effetti larsen, la domanda continua ad essere tragicamente inevasa.






Grazie ad Albert Hofer, Channel83 e Suka Off