mercoledì 29 aprile 2009

La Repubblica della Sofferenza


Drew Gilpin Faust è un'acclamata storica nord-americana, rettore della prestigiosa Università di Harvard, nonchè abile analista della cultura popolare americana; se il nostro Di Nola con il suo eccellente La Nera Signora ha tentato di gettare le basi per un serio studio sull'antropologia della morte nelle sue varie sfumature e nel corso dei secoli, Gilpin Faust restringe sensibilmente il campo ad una prospettiva geografica e storica inquadrata con gli Stati Uniti del 1860.
Questa scelta rappresenta la ratio stessa della sua tesi; secondo la storica difatti, la sanguinosa guerra civile che sconvolse gli USA segnò il rito di passaggio da una visione censoria, bigotta, calvinista della morte (nascosta e taciuta) ad una furente esibizione della stessa, caratteristica questa che troviamo spesso nella cultura di massa americana del 1900 e dei giorni nostri.
La descrizione del campo di battaglia di Gettysburg, su cui rimangono a frollare e marcire tonnellate di carne umana e animale, pantani di sangue, fango, acqua piovana stagnante e maleodorante, le urla strazianti dei feriti, dei moribondi, le figure lacere ed allucinate che nella nebbia del mattino si aggirano tra i cadaveri alla ricerca di un volto amico o familiare, è vivida, precisa, meticolosa - e tanto più è dettagliata la descrizione, tanto maggiore è la (comprensibile) reticenza delle testimonianze dei sopravvissuti, i quali preferiscono portare con loro il fardello inenarrabile degli orrori a cui hanno partecipato e che hanno visto.
Atrocità e massacri vi furono anche all'epoca delle guerre di Indipendenza , ma l'autrice del testo tiene a precisare due dati su tutti; il totale dei morti della guerra civile praticamente supera, da solo, la somma dei caduti americani in tutte le guerre esterne ai confini. In secondo luogo, la diffusione dei giornali e della fotografia agevola l'ingresso della morte violenta nell'immaginario collettivo; dal bagno di sangue carnografico e sporco dei campi di battaglia del nord e del sud, ecco emergere la Repubblica americana.
L'autrice riporta incredibili stralci di lettere spedite ai parenti dei soldati morti in battaglia, spesso redatte da compagni d'arme, ufficiali o amici; il tono è sempre grandioso, celebrativo e pervaso da un larvato senso religioso, per cui non importa il dolore familiare per la perdita, ciò che davvero conta è il fatto che il soldato è morto emendato dei suoi peccati ed in pace con Dio - ma accanto a queste celebrazioni letterarie, si trova pure, quasi da ideale pendant, il dramma degli eserciti che prima dell'avvio delle ostilità, non avevano approntato un piano per sepolture, raccolta dei cadaveri e via dicendo.
Così i morti vengono stipati in maniera grossolana, spesso le bare sono metalliche ed anonime, interi capannoni ospitano i cadaveri in putrefazione. Si assiste lentamente ad una privatizzazione della morte violenta, e di ciò che ne consegue; becchini, impresari di pompe funebri, si accampano ai bordi delle caserme, dei campi di battaglia, attendono come avvoltoi silenziosi che il dramma si sia compiuto e poi si mettono all'opera. E venendo pagati dall'esercito o addirittura inviando le fatture ai familiari dei caduti.
L'autrice riporta anche il costume, abituale, di negare sepoltura ai nemici; la qual cosa determinò uno spettacolo da danza macabra medievale, per cui poteva capitare di passeggiare per un campo, anni dopo la conclusione delle ostilità, ed imbattersi in teschi umani o interi scheletri ancora vestiti di brandelli di uniformi.
Tutti questi elementi, tra loro uniti, hanno contribuito a riorientare radicalmente la percezione della morte nella coscienza collettiva statunitense - un libro davvero eccellente, e che presenta tesi assolutamente non scontate.

martedì 28 aprile 2009

EROTIKON - ovvero Halogen su Ritual







Dal numero 39 di Ritual (attualmente in edicola) comincio a collaborare , con la rubrica EROTIKON, alla rivista; al momento i pezzi sottoposti sono 5 tutti ovviamente gravitanti attorno ad un concetto malsano di erotismo, cosa che immagino non sorprenderà più di tanto chi è solito leggere queste pagine (virtuali). Il pezzo che trovate sul numero presente, come capirete dalle foto sopra postate, ha a che fare con la brava e bella e poliedrica Sasha Grey, annessi progetti musicali e collaborazioni inaspettate.
Quindi restate sintonizzati, perchè i nuovi approdi di Halogen sono molteplici.


lunedì 27 aprile 2009

Il Regno dei Morti






Le foto provengono dal National Museum of Health and Medicine di Washington

martedì 21 aprile 2009

Davanti a lui la notte della città, dietro l'inferno


Era tanto quel piacere che io non potrei fare a meno di procurarmene e uccidere altre donne
Vincenzo Verzeni, citato in C. Lombroso, “Verzeni”, rivista di discipline carcerarie, 1873

Se lo guardi in faccia, sembra un innocuo beone di provincia, un timido introverso insicuro esempio di isolazionismo compulsivo e fallimento esistenziale – incapace di fare del male a chiunque, uno scemo come ce ne sono tanti. Ma se per un istante appunti il tuo sguardo su quegli occhi, ecco emergere il fuoco letale di un abisso, il peso di un odio abbacinante ed assoluto, quel genere di profezia che da sola potrebbe portare alla dissoluzione della civiltà.
Il giovane Trenton si insinua nelle case – passi felpati da gatto, modi veloci e scattanti, la furia giovanile del pazzo. Una madre incinta di 22 anni, ferma in cucina di notte davanti al frigo per lenire qualche estemporanea voglia alimentare, se lo trova davanti; sobbalza, il cuore in gola. E non solo per metafora, perché il giovane le sferra una violenta pugnalata che le squarcia l’addome, tra urla disumane di sofferenza e fiotti di sangue che finiscono sparati sul pavimento; due vite, Trenton sta ponendo fine a due vite, si lava nel sangue mentre continua a colpire, imita le stridule urla della vittima, colpisce, mena fendenti, apre il ventre e fa srotolare frattaglie e il feto che la ragazza porta in grembo.
La cucina è ridotta ad un mattatoio, macchie di latte e di sangue sul tavolo, sulle mura, sul forno, la donna è caduta a terra cinta amorevolmente da un cordone croccante di budella; Trenton la sovrasta e continua a colpire, come un ossesso. Non conosce sosta, né pietà; ha ridotto il feto ad un ammasso distorto di carne e placenta, le sembianze bambinoidali ridotte a quelle di un pupazzetto gommoso eretto in slime, idoli perduti e mai davvero amati.
Lei, la madre ormai prossima alla morte, soffre terribilmente, boccheggia come un pesce preso all’amo, ha gli occhi iniettati di rosso, il corpo solcato da spasmi e convulsioni, lui invece beve il sangue da terra, lappa come un cane furioso, è felice, contento – letteralmente, vivo. Vive e si riproduce nella morte altrui, la non-morte come condizione di esistenza.
Non ha vita sociale, né amici né hobby, soltanto la passione per il sangue e la carne umana frollata – è il geek assurdo e tentacolare, la spazzatura che prende fango sul lato rovesciato delle metafore gotiche. E’ lontano il Dracula di Bram Stoker, quelle distese profumate di mughetto ed assenzio, luci soffuse, crepuscolari che si stagliano contro pinnacoli di roccia carpatici, l’ululato lontano dei lupi e le sagome curve di antichi castelli.
Un vampiro gentiluomo, che non è qui. Il tanfo degli escrementi, la gola tranciata, la morte dopo lunga lenta straziante agonia della madre, che si è vista mangiare il feto davanti, le ire di un prossimo becchino con sede al centro di Sacramento, le conferenze stampa della polizia, il dolore dei parenti. No, decisamente; Stoker non è di queste parti. Al massimo, cospirazionismo telepatico di Ufo nazisti e stelle di david tatuate sulla fronte del giovane Trenton, la necessità di uccidere perché così hanno ordinato invisibili presenze – Herb Mullin ne sarebbe fiero.
Nella mente del Ghoul – il buon vecchio rozzo Schaefer sapeva come intrattenere il suo pubblico: non ha mai esplicitamente scelto come modello letterario Trenton, troppo confuso, troppo da I Cari Estinti di Lovecraft, preferisce concentrarsi sulla brutalità di Bundy e di Toole. Dicono Toole ridotto senza denti e senza dentiera facesse pompini agli altri detenuti in Florida, per prezzi modici; disegnava infernali lingue di fiamma, teschi, evocazioni demoniche, tutto con tratto naive ed incerto. Ma Toole era un campione nell’uccidere, non ci stava a pensare su troppo, diceva “voglio farmi il suo culo” e puoi essere certo che se lo sarebbe fatto, donna o uomo, vivo o morto che fosse – certo, una netta e smaccata preferenza per gli uomini, alle donne generalmente pensava Lucas.
Toole è il necroghoul fatto carne ed ossa; non esce da qualche delirante racconto letterario, è stato vivo, vegeto, potente, e furibondo. Come un treno impazzito a trecento chilometri orari, senza conducente né freni da azionare; un bastardo sdentato, pervertito, sadico, necrofilo, e cannibale. Schaefer lo ha conosciuto bene – impiccando bimboline bionde nel folto delle paludi floridiane, ex poliziotto, maniaco sessuale, mitomane compulsivo e talentuoso scrittore, Schaefer si è fatto una reputazione, scrive di assassinii morbosi, ripugnanti, disegna ed orna le sue opere con raffigurazioni vivide e realistiche del puzzo virale della morte.
Un resoconto di orgasmi raggiunti medianti impiccagione – nessuna possibilità di godere, neppure attraverso gli orpelli bdsm; solo tortura, degrado, umiliazione e omicidio lo gratificano. Solo la carne morta lo eccita.
Il suo racconto più famoso è Nigger Jack, una storia di vivida necrofilia consumata in un carcere – roba da rendere serie come OZ e Prison Break la roba per bambocci viziati quali poi in fin dei conti sono. Trasgressione per dementi coccolati, e vogliosi di avere argomenti di conversazioni con le puttane che rimorchiano in giro per locali.
Nigger Jack è un residuo ancestrale di una umanità ferina e ferita, un laido cinico depravato incarcerato che gode scopandosi i cadaveri fritti sulla sedia elettrica – e che racconta all’io narrante che supponiamo essere Schaefer stesso del suo passato lavoro di becchino e di come sia bello molestare sul freddo acciaio di un lettino autoptico una qualche puttanella deceduta.
La fantasia è la più potente delle armi; come scrive Berg a proposito di Kurten “la solitudine della cella del carcere ha fatto sì che egli sia diventato un virtuoso nel raggiungimento dell’orgasmo unicamente con fantasie sadiche”, basta focalizzare attentamente il proprio pensiero, elevarlo sopra le nebbie della fisiologia, liberarlo da castranti sovrastrutture quali la necessità del sesso con i vivi. La morte diventa – in questa prospettiva decisamente deleuziana– desiderio ed oggetto del desiderio allo stesso tempo; volontà di appropriarsi e di fabbricare, di creare, un cadavere e raggiungimento dell’orgasmo in corso d’opera.
Voluttà necrosadica allo stadio assoluto. Sublimata nella potenza della meditazione claustrale.Kurten a differenza di Schaefer e di Chase è una persona di cultura, intelligente, brillante. Simile al titano assiso sulla torre d’avorio di cui parla Goethe, scruta l’orizzonte incendiato, i tramonti rosso sangue che si aprono in spiragli su Dusseldorf, incarna il Sade scatenato e finalmente libero di essere se stesso, la conclusione in accelerazione de Le 120 Giornate di Sodoma in un solo uomo – e la senti e la percepisci la lotta all’ultimo respiro che si consuma nel suo petto. “Anche per il delinquente peggiore arriva il momento in cui capisce che non può più andare avanti e io ho vissuto questo crollo psicologico”, vaga nomade nel ventre industriale della città tedesca, sconfitto eppure odiato, temuto, eroico, si è lasciato dietro una scia immane di morte e di dolore, sa che per lui non c’è speranza, che non è interessato al carcere o ad integrarsi, non può smettere.
Ma Kurten parla, blandisce i medici che lo visitano, la corte, i giornalisti, la pubblica accusa; articola lunghi discorsi introspettivi, è uno che ha letto, che apprende, che ha buona memoria ed ottime maniere. Tanto che parecchie ragazzine, serial killer groupies ante-litteram, vorrebbero trascorrere del tempo in sua compagnia, “ho sentito dire ad una studentessa, probabilmente di un liceo – vorrei essere una volta assieme a lui, se fossi sicura che non mi succedesse nulla – si riferiva al Mostro di Dusseldorf”, Kurten ironicamente passa accanto a queste miserie morali e rivela il cuore dell’ipocrisia, il sensazionalismo latente della società.
E’ una metafora che detesta le metafore, e che ci ricorda che la sociologia non si fa con le penne di Alberoni ma coi martelli ed i pugnali – perché in fondo per disossare la realtà, ci vuole predisposizione al martirio, quello proprio e quello altrui.
Ho sempre proclamato il Genio di Peter Kurten, e qui lo ribadisco – non mi stupisce Schaefer non si sia mai veramente interessato a lui. Troppo preso dalla apologetica manifestazione del proprio ego, non avrebbe mai arrischiato di misurarsi con chi avrebbe potuto oscurarlo dieci, cento, mille volte. Come una perfida eclissi solare in revanche dal passato, ecco il revisionismo dei serial killer – la faida delle ingenuità perdute e verosimilmente dimenticate.
Nietzsche dice “ciò che si fa per amore lo si fa aldilà del bene e del male”, Kurten gli fa eco “non ho mai pensato che le mie azioni fossero cattive, perché mi hanno sempre dato piacere e senso di benessere”, come il notturno nichilismo che trasuda dalle pagine di Sade – un potere assoluto di introspezione, di comprensione risoluta e risolutiva delle proprie voglie, dei propri istinti, delle proprie idiosincrasie. Non accetta regole che non siano le sue proprie, e su tutto trionfante il Piacere personale elevato a Dio, un dio di fiamma, un dio di tuono, il dio delle guerre e dell’odio, della pestilenza e delle mosche ma senza pentacoli satanici.
L’amore per Kurten è sangue – dolore inflitto agli altri, piacere ricavato attraverso la sofferenza altrui, una strada lastricata di cadaveri da andare a trovare in via crucis per ottenere altra gratificazione sessuale. Paradigma di un sadismo che non conosce limiti.
Il paragone tra Schaefer e Kurten è quasi blasfemo; tanto è gretto, stupido e risibile il primo quanto brillante, determinato e lucido è il secondo. Schaefer si dedica agli altri perché non ha il coraggio di ammettere a se stesso che non è nulla di davvero speciale, è soltanto un povero ghoul di provincia, disperatamente proteso alla ricerca di notorietà e fama; Kurten invece non si dedica ad altri che a se stesso, si analizza, si pone domande e questioni cruciali, cerca di comprendere se esistono soglie di piacere e di voluttà superiori a quelli che va sperimentando seminando morti per le strade di Dusseldorf.
Avevo bevuto il sangue dalla sua ferita al collo. Le avevo tagliato il collo e mi ero sdraiato obliquamente vicino a lei; ho bevuto il sangue che zampillava dalla ferita” e non lo dice col tono sbruffone, da sudicio camionista, che contraddistingue Schaefer; lo sentenzia lentamente, senza orgoglio ma solo come puro dato di fatto.
Davanti a lui la notte della città, dietro l’inferno.

lunedì 20 aprile 2009

NECRO



Le ho tolto il reggiseno e le mutandine e ho fatto sesso con lei. E’ una di quelle cose che immagino debbano far parte della mia vita; avere rapporti sessuali con i morti
Henry Lee Lucas (citato in H. Schechter, “Serial Killer”)

Dimenticate il lirico disfacimento delle ossa cantato da Trakl, con quell’afflato carico di debauche tipicamente mittle-europea ed un compiacimento estetizzante che sarebbe inutilizzabile per i palati più “esigenti”, la decadenza dei tessuti e la mummificazione in padiglioni funerari ornati da stele votive, angeli di pietra, elaborate iscrizioni, promesse di un amore che va oltre la morte, discese nell’Ade di una certa mitologia classica e fumetti gotici letti nello sfavillante lucore arancio-purpureo di mille candele.
Lasciate da parte le sterili, puerili razionalizzazioni psicotiche di una Karen Greenlee o gli orpelli necro-new age di una Leilah Wendell, il peso di una tradizione di Palo Mayombe, Voodoo, rituali sudisti declinati in salsa africana, whisky e sangue di pollo e vampiri e romanzi di Ann Rice e metafore delicate per nascondere, sotto l’immaginario tappeto della rispettabilità sociale, il semplice e lampante dato di fatto che la morte difficilmente può essere piacevole; per quanto, dobbiamo ammetterlo, la stessa Greenlee, in un impeto di onestà intellettuale, arriva a darci un quadretto vivido della faccenda “quando sei sopra un cadavere, mentre stai appassionatamente facendo l’amore con lui, questo tende a rigurgitare sangue dalla bocca” (Culture dell’Apocalisse).
Tutto, sempre, torna alla carne; a quella dimensione di brutale realtà in cui è la fisiologia a ricordarci che prima del marmo, degli angeli di Staglieno, delle copertine dei Joy Division, delle mascherate gotiche e dei romanzi vampirici, ci sono sofferenza, lacerazioni, suppurazione, sangue ed un travaglio intenso, estatico, senza speranza di guarigione. C’è lo sguardo che si ottenebra, i sensi che non rispondono più ai nostri neuroni e alle sinapsi, le feci nelle mutande, fiotti copiosi di bile, mummificarsi ancora in vita in qualche asettico letto d’ospedale, dentro cui si è solo una casellina statistica per medici annoiati.
E ci sono poi morti ancora peggiori, l’essere strappati al caldo abbraccio dei propri cari quando si è nel pieno della gioventù, per il sadico diletto di qualche predatore sessuale; le fredde notti del Wisconsin e le necroscorribande di Ed Gein, il delirio di Verzeni, le autostoppiste californiane massacrate da Edmund Emil Kemper, la furia montante e nomade di Lucas & Toole. Una pietrificata distesa di sadismo omicida e di necrofilia allo stadio terminale.
Non a caso, nella sua lunga dissertazione sulle parafilie, vera summa dell’aberrazione sessuale, il professor Kraft-Ebing arrivò a definire la necrofilia come la peggiore tra le perversioni; “amore per i morti”, ma amore in senso voluttuoso, morboso, carnale, termine privo di qualunque afflato emotivo e sentimentale.
Interrogato dalla polizia subito dopo il suo arresto, alla precisa domanda “cosa pensi quando vedi una bella ragazza per strada ?”, Ed Kemper risponde serafico “Una parte di me dice – mi piacerebbe parlarle, uscire con lei- ma un’altra parte dice –chissà come starebbe bene la sua testa su di un palo”; attratto dall’idea di diventare un dispensatore della morte, anzi Morte egli stesso, padrone del destino di queste college-girls che chiedono un passaggio lungo le strade americane nella migliore iconografia beat, Kemper rappresenta il paradigma lucido e disincantato della necrofilia omicida. Di come essa non abbia nessuna sovrastruttura languida e gotica.
Siamo stati abituati, da un fiume in piena di romanzi, giochi di ruolo e film, a concepire la morte come una variante di Halloween; serate a tema con la giusta colonna sonora, maschere e idiozie semi-sadomaso, tutto per esorcizzare la paura di poter finire tra le mani di uno come Kemper.
Immaginate il fiato che si condensa in nuvole di vapore, la paura somatizzata ed il respiro mozzato, siete legati, incatenati in questa putrida cantina, in compagnia di teschi umani e brandelli di pelle ed animali impagliati, la puzza è terribile, vi colpisce su per il naso dritto al cervello – ecco che un flebile bagliore annuncia che la botola si è aperta, vedete scendere le scalette di legno è una sagoma imponente anzi no decisamente gigantesca, tonfi echeggiano nella quiete mortuaria della cantina, il vostro cuore accelera le pulsazioni pompando sangue nelle vene. Fiutate la vostra stessa paura – non riuscite a vedere il volto del gigante, è immerso in una coltre di tenebra, ma sapete che non è vostro amico, sapete che deve aver fatto delle cose orribili.
Provate a rivorgergli la parola, frasi smozzicate dal panico ed inani banalità in sequenza, richieste quasi mute di misericordia, ma lui resta sordo, insensibile, solo qualche gutturale gorgoglio – che rende ancora più spaventoso questo quadro di desolazione suburbana. E’ in momenti come questi che si pensa a Non Aprite quella porta, alle serate Ritual e Decadence, alle proprie letture, e si arriva alla drammatica conclusione che della morte, nella sua lercia consistenza di frattaglie sangue e dolore, non sappiamo nulla fin quando non cominciamo a camminare nel tunnel.
Quando il gigante vi sovrasta, lo scintillio cupo dell’acciaio nelle sue mani, quando vi strappa il reggiseno brandendo un coltello, nessuna emozione nelle sue pupille, fredde ciniche distanti e nere come quelle di uno squalo, nessuna speranza di empatica compassione, ed allora vi bagnate tra le gambe ma non per gioia ed eccitazione ma solo per paura, un rivolo giallognolo di piscio che scorre lungo le gambe e cade sul pavimento, in quel preciso istante una porzione considerevole di verità vi viene svelata.
Non esiste una normalità della morte – è Lucas ad ammettere in modo disarmante “non è una cosa normale andare in giro ad ammazzare ragazze solo per scoparle” (in Mike Cox, “Henry Lee Lucas”).
Siamo soliti porre una considerevole distanza tra noi e la morte, anche quando parliamo proprio di morte; ne diamo una visione distorta, romanzesca, favolistica, spesso nascosta convenientemente sotto spessi strati di metafora, la fine di quello o il principio di questo, come ne Il Corvo – la rinascita, epifania crepuscolare per celare le vere fobie. Troppe budella o troppo poche budella o budella finte – Nekromantik di Buttgereit; leggendo il libro Sex Murder Art, di David Kerekes (il tizio di Headpress), emerge un ritratto sconfortante di un Buttgereit matto burlone vetero-hippie che se la prende con uno dei suoi migliori collaboratori, reo a suo dire di avere una visione troppo morbosa della morte e di voler imprimire questa malevola visione al film stesso. Stiamo parlando di una pellicola rigorosamente low-budget in cui una ragazza ed un ragazzo vanno a raccogliere pezzi di carne umana in strada, dopo incidenti stradali, per il loro diletto sessuale, e consumano una storia di necroamore in una squallida stanza addobbata con un piccolo ritratto di Charles Manson (e perché poi proprio con tanti necrokiller, proprio il povero Charlie?), per poi finire in una orgia di omicidi e delirante suicidio finale – la genesi in studi criminologici universitari sui serial killer, nella voglia punk di stupire e nella passione per il gore.
E’ quantomeno curioso che qualcuno possa essere accusato di morbosità mentre si gira un film su assassini necrofili che sono soliti mettere preservativi agli ammuffiti cazzetti dei morti o che schiacciano gatti contro il muro o scuoiano (scena mandata pure in reverse, in un gesto di compiaciuto nichilismo estetico) conigli, e si intenda che le sevizie sugli animali sono rigorosamente vere. Eppure è successo, si può essere eccessivi persino nella riproduzione filmica della (falsa) necrofilia – ed essere accusati di ciò non dai testimoni di Geova o da Tipper Gore, ma dal regista della stessa pellicola.
Nacho Cerda ha un minimo quoziente di coerenza a differenza di Buttgereit; pur finta, l’autopsia mostrata in Aftermath non ha motivo che prescinda dalla concupiscente brama sessuale dell’anatomopatologo, nessuna sovrastruttura giustificatoria che ne sdilinquisca la potenza. Asettiche sale autoptiche e lucori neon, strumentazione affilata, il volto mascherato del medico, le sue voglie sessuali, il cadavere straziato e sbudellato in uno scoppio di necrofilia pornografica.
Il carsico cinema underground si è dedicato a riproporre il tema, replicandolo mille volte ma dovendo sempre combattere con quello Psycho che ormai definisce il target di riferimento del genere; è per questo che sembra decisamente miglior soluzione rivolgersi alla verità. Alla cruda verità mostrata in video.
Prescindendo dai mondo movies, c’è la serie giapponese Death Woman; autopsie e riprese di cadaveri smollati tra le frasche, con la polizia ancora attorno a far rilevamenti, sonatine di pianoforte elettronico, aggiustamenti formali per erotizzare queste morti (prevalentemente vietnamite e tailandesi…where life is cheap), e non a caso la Tsunami ha trasformato quelle desolate lande di (ex) turismo sessuale in una sorta di necroHollywood. Polaroid di cadaveri a pelo d’acqua mostrati nello stadio putrido della decomposizione, portati via dalla corrente in un locus di negazione della dignità e della sepoltura, nuovi sport per gli aficionados del sesso estremo.
Materiale iconografico per i libri del “settore”.
Death Scenes (Feral House) - curato da Katherine Dunn; sconvolgente viaggio tra le foto di autentiche scene del crimine raccolte nell’album personale dell’ispettore Jack Huddleston che fu in servizio presso il LAPD negli anni 40 e 50. Un sinistro carnevale di cadaveri martoriati e straziati, corpi impiccati, scotennati, arsi vivi, tutti asetticamente ripresi dall’obiettivo di un fotografo della polizia. Fotografie rigorosamente in bianco/nero, prive di una partecipazione emotiva dell’occhio che osserva.
Murder in Rotterdam (Uitgeverij Duo)- l’evidente artisticità mostrate in queste pagine si cura tanto dell’ambiente in cui i cadaveri sono immersi quanto della precisa definizione della vittima come persona.
In un punto ancora più estremo rispetto a questi libri si situa l’opera del fotografo giapponese Tsurisaki Kiyotaka, il quale si è specializzato nel riprendere corpi umani morti. Trapassati non serenamente, va detto. Corpi schiacciati da macchine in curiosi incidenti stradali, resti sparpagliati sul selciato di kamikaze islamici, corpi avvelenati, suicidati, gonfi per la disidratazione. Generalmente, trasfigurati in camere mortuarie sporche e tipicamente da terzo mondo, luci verdognole che conferiscono un innegabile senso di squallore. Provare pena per i cadaveri immortalati da Tsurisaki nei suoi libri Hardcore de la Danse Macabre (NG), Revelations e Requiem de la Rue Morgue (entrambi per la francese IMHO) o finiti ad adornare le pagine dei purtroppo defunti magazine giapponesi “Too Negative” e “Ultra-Negative” è impossibile; sfigurati, ammassati senza compassione su un tavolo autoptico o lasciati marcire tra le dune sabbiose o in strada, incupiti dall’illuminazione virata, non sono che corpi. Privi di personalità e di spunti che ci possano portare ad una sia pur minima immedesimazione. Non sappiamo nulla di loro.
Una macelleria in continua purulenta ebollizione, una mostra di lancinanti atrocità che ha il suo culmine nel film diretto da Tsurisaki: Orozco . Documentario su un becchino-imbalsamatore colombiano, Orozco appunto, che Tsurisaki segue passo passo nella sua quotidianità di rinvenimento cadaveri, eviscerazione, asportazione di organi e imbalsamazione. Il tono affabile di Orozco, il suo sorridente fatalismo, le sue tecniche meticolose ma crudeli non tengono minimamente in conto il dolore o lo strazio dei parenti, né, ci mancherebbe, il valore delle persone che passano sotto le sue sapienti mani.
Le introduzioni dei libri di Tsurisaki potrebbero essere scritte da Jeffrey Dahmer, “spesso aveva un’erezione e se c’era spazio, si appoggiava il cadavere aperto per avere un rapporto sessuale con le viscere, mettendo il pene letteralmente dentro il corpo ed eiaculando tra gli organi” (B. Masters, “Jeffrey Dahmer”); confuse storie di equivoci sessuali, oceanici abissi necrogore di una stordente realtà, le foto di Tsurisaki e la storia di Dahmer sembrano danzare il walzer assieme. Viene da chiederci come sarebbe stata la vita di Jeffrey se avesse avuto accesso a questi materiali; avrebbe placato la sua indole di impenitente necrofilo o al contrario avrebbe accresciuto la sua brama di morte e sangue ? Ma me ne rendo conto, queste sono discussioni da Porta a Porta; sociodeterminismo d’accatto, da purificare con una indignata lettera spedita in fretta e furia a Picozzi o a Crepet.

mercoledì 15 aprile 2009

Solo merende (di sangue)


ANSA - FIRENZE - Era l'ultimo compagno di merende ancora in vita. L'ex postino Mario Vanni, 82 anni da compiere il prossimo 23 dicembre, è morto lunedì all'ospedale fiorentino di Ponte a Niccheri dove era stato ricoverato per una crisi respiratoria. Da tempo viveva in una casa di riposo a Pelago (Firenze), dopo che per le sue condizioni di salute gli era stata sospesa la pena all'ergastolo per concorso negli ultimi quattro duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze. Nel 1998 se ne era andato il più famoso dei compagni di merende, Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale. Nel 2002 era scomparso, invece, Giancarlo Lotti, il pentito.



Emergeva un accentuato sadismo. Sessualmente perverso, traeva piacere dalle sofferenze inflitte all’oggetto del desiderio; la donna. Ecco, traeva piacere dalle minacce che gli consentivano una erezione del pene che altrimenti era difficilmente raggiungibile” quella che in apparenza sembra la descrizione di uno dei tanti personaggi della poetica sadiana è in realtà un breve stralcio del ritratto che il duo Lucarelli-Giuttari ci fornisce del recentemente scomparso Mario Vanni.
Il postino di San Casciano che ha materialmente coniato l’espressione “compagni di merende”, prima durante gli interrogatori con magistratura inquirente e poliziotti, poi in aula quando chiamato a testimoniare, ancor prima delle domande poste dall’accusa, cercò di discolparsi con quella formula, “io ho fatto solo merende”, che ancora echeggia nella coscienza collettiva italiana.
E’ morto.
Condannato a 4 ergastoli per alcuni degli omicidi ascritti al Mostro di Firenze, da tempo agli arresti domiciliari presso una casa di riposo per motivi di salute e di età, non porta con sé grandi segreti se non quelli che la squadra investigativa non è stata in grado di risolvere durante il corso di decennali e lucrose indagini.
Descrivere un assassino che per anni ha terrorizzato l’Italia, lasciando nella polvere di viottoli sterrati i cadaveri orrendamente mutilati di ragazzi e ragazze, tenendo in scacco le autorità, come un essere gretto, ignorante, stupido, una sorta di nullità balorda a cui per una volta nella vita arride un minuto di celebrità, sia pure declinata in senso omicidiario, è sempre un’arma a doppio taglio; certe volte si ha la sensazione che sia una tecnica per mettere in risalto la propria brillante operatività, il proprio ingegno tattico e deduttivo se si è dei poliziotti o dei magistrati. Da un lato il mostro, e tanto più ottuso e idiota sarà tanto maggiore sarà l’approvazione e il riconoscimento della grandezza etica, morale dell’inquirente che se ne sta beato dall’altra parte della barricata, pensoso e marmoreo come un David.
Però ad alcuni vengono domande; sono sicuro che queste domande non affollino la mente dei cittadini timorati di dio, tutti santa messa e Porta a Porta, ma che statisticamente si leghino in maggioranza al perverso e degenerato universo-mondo delle schifezze umane come il sottoscritto. La principale domanda; se un assassino è idiota, ottuso, stupido, al limite dell’atavismo, e ciò nonostante ha massacrato 16 persone, tenendo in scacco le autorità per decenni, come dovremmo definire gli inquirenti che non sono stati in grado di fermarlo ?
La casalinga che si commuove piangendo calde lacrime davanti al plastico della casa di Cogne troverà questa domanda impertinente ed inopportuna – ma i degenerati, ai quali a volte arride in sorte di poter vedere attraverso certe fumisterie di politicamente corretto, non si pongono scrupoli etici e per il loro profano piacere son soliti porre tutte le domande che vengono loro in mente. D’altronde Ulisse è finito all’inferno, non in paradiso a guardarsi le puntate registrate di Real CSI.
Sarà forse per nascondere questi dubbi che dagli abissi insondabili delle indagini, è emersa una sequenza abbastanza avvilente e carnascialesca di esoterismo, ammucchiate, laido mondo di provincia, abusi intrafamiliari, e soprattutto, stagliato contro gotiche lingue di fuoco, la figura mai accertata di un Uomo Nero, una misteriosa entità aristocratica, raffinata, intelligente, con doppia funzione; da un lato mandante ideologico dei delitti e dall’altro comodo alibi per riscattare l’insipienza degli inquirenti e nettare tutte le piste seguite senza successo.
Il Mostro di Firenze, cooperativa virata al sangue di squartatori guardoni ruderi umani sconfitti dalla vita e lombrosionamente condannati al crimine, merita di meglio, avranno pensato inquirenti, giornalisti, magistrati, sedicenti esperti di delitto seriale; ed ecco allora pittori svizzeri, farmacisti, soggetti altolocati, culturalmente e finanziariamente, per tingere con colori pastosi e scuri le vicende che invece dei poveracci come Pacciani, Vanni e Lotti rischiavano di sporcare e di rendere troppo boccaccesche. Eccessivamente trash.
Noi siamo un paese di dietrologia compulsiva, di paranoia, di cospirazionismo, non possiamo accettare l’idea che qualcosa sia semplice o lineare; pretendiamo di vedere complotti o misteri anche laddove non ce ne sono. Figuriamoci in fatti di sangue tanto sconvolgenti; non ci si può accontentare dell’idea di tre balordi di paese, misogini, maniaci sessuali, alcuni dei quali semi-impotenti, analfabeti e miserandi, dobbiamo costruirci sopra un castello di razionalizzazioni, scuse, giustificazioni celate sotto le pompose definizioni criminologiche e le teorie dietrologiche. Altrimenti sarà difficile parlare di terzo livello, di cerchi infernali, di esecrandi rituali satanici nel ventre cupo della notte, una sorta di profiling a scuola da Huysmans, e ancora più difficile polarizzare l’attenzione della massa e vendere libri – in principio non è stato Dan Brown, ma il Mostro di Firenze.
Non a caso quando Harris, l’autore de Il Silenzio degli Innocenti, venne a Firenze per seguire il caso del Mostro convinto di poterne trarre del materiale soddisfacente per un suo libro, ci si rese conto tutti vedendo l’autore americano fuggire in fretta e furia che la storia non era intrigante per nulla; non c’erano raffinati Hannibal a terrorizzare le notti delle coppiette fiorentine, ma soltanto dei noiosi, pedanti e stupidi esponenti del lumpenproletariat della periferia toscana. D’altronde le piste alla ricerca del misterioso Dottore, il presunto mandante e collezionista feticista delle parti anatomiche asportate ai cadaveri, non hanno condotto a nulla; anzi, sono state il nulla.
Gli stessi inquirenti sono stati costretti ad erigerle facendo ricorso a supposizioni, elementi meramente indiziari e a “testimonianze” irrisolte degli imputati; si arrivò pure a sostenere, in un assoluto detour da incaprettamento logico, che ad un certo punto il mandante, uomo di cultura e di brillante intelligenza, sarebbe stato ricattato da Pacciani e da Vanni – il che suona risibile, posto che un ricco, verosimilmente potentato, davanti ad un effettivo ricatto non avrebbe avuto problemi a far eliminare da qualcuno (magari uno spietato killer albanese) dietro lauto compenso i due scomodi esecutori dei suoi capricci metasessuali.
Sono bastate le avvilenti udienze sul pittore svizzero per far comprendere che si brancolava alla cieca; due semplici parole di Sgarbi, di pura irrisione di quella teoria, a risuonare come epitaffio funebre di determinate fantasie.
Ora che Vanni è morto, non cambierà nulla nella ridda vorticante di supposizioni, articoli, saggi, reportage tv e soprattutto libri; esistono ancora tante “verità” da rendere pubbliche, e da vendere.

sabato 11 aprile 2009

La danza degli inni distrutti


Ammazzare il tempo sorseggiando una birra fermo sul ciglio della strada, tra un secchione della spazzatura e un camioncino di ferrivecchi, tutto attorno il traffico della Tiburtina, zone di Roma di consistenza esoterica case popolari graffiti e tag scolorite, un gruppo di rumeni aspetta l’autobus, questo è quel che definisco “buttare la propria vita”; è sera, cielo cupo senza stelle, se guardo in alto vedo solo le antenne paraboliche un dedalo di cemento e ferro aperto a ventaglio sopra la mia testaccia, cavi dell’alta tensione a scacchiera un po’ più defilati.
Entro nel bar; una sala biliardi e un tavolino con panno verde, odore di fumo, di chiuso, su una lavagna scorgo i segni di una partita finita con punteggio alto, una rastrelliera con le stecche e gessetti disposti in ordine sequenziale. Rivolgo un frettoloso saluto al proprietario che armeggia con dei bicchieri dietro il bancone e mi dirigo a larghe falcate verso una porta su cui svetta il cartellino “solo per il personale”.
Ho abbastanza confidenza col proprietario per poter pisciare nel suo cesso, evitando le pozzanghere di piscio e merda che si spandono in quello messo a disposizione dei clienti.
Prendo un’altra birra; sto parlando con Carlo e la ragazza, parliamo di varie inutilità, quel genere di conversazione che porti avanti per mera cortesia o per fisiologia dialogica, non ho idea di come ci si sia finiti dentro ad ogni modo so che non mi attira particolarmente. Parliamo di puttane olandesi e di scopare sotto mdma, passati trascorsi da bestia raver vita smozzicata di uomini divinizzati nell’epifania psichedelica, epopee di sesso promiscuo vomitate di piazza e ostelli della gioventù, lei è una spogliarellista, sa fare il suo mestiere, è brava, sinuosa ed eccitante; e dio solo sa quanto io detesti le spogliarelliste, il loro modo contorto di pietire amore di autoghettizzarsi in lande desolate dove esiste solo un vago pensiero libertario, elevato come torre d’avorio a massimo sistema, a comodo alibi culturale per giustificare una lunga sequenza di fallimenti.
Non mi piace commiserarmi, figuriamoci se posso commiserare una perfetta sconosciuta; pretenziosità hippie, visione del mondo naive, so perfettamente che ho stima solo del mio ombelico, anche se lei mi sta simpatica non tollero i consuntivi esistenziali sparati in faccia al primo che passa che poi nel caso specifico sarei io.
Carlo abbozza un dribbling tematico e prendendo spunto dal fattore rave, la butta in musica; Aphex Twin – visto a Barcellona, gran signore seduto sul divano intento a fumare un sigarillo mentre attorno la folla vorticava in una esplosione di beat elettronici e colori. Boards to Canada – Music has the right to children; pastose armonie elettroniche di desolazione. Introduco il discorso isolazionismo, Kevin Martin, Martyn Bates, Scorn, la necessità di dire addio alla socializzazione, la dimensione post-esistenziale della cameretta, voglio legioni di hikikomori e suicidi di massa; lei mi guarda un po’ stranita, non sa mai se sto scherzando o se sono serio, io invece lo so benissimo, d’altronde l’unico tatuaggio che mi farei non potrebbe che essere qualche aforisma cioraniano.
Lei reitera la sua convinzione che scopare sotto droga sia fantastico, una volta l’avrei pensata così anche io; e non per frainteso senso di decadentismo, non per naufragio nel vecchio oceano lautremontiano, niente contrabbando di illusioni e paradisi artificiali, soltanto perché io pure ero solito pensare che lo stordimento ti aprisse tutta una serie di inestricabili sentieri che conducevano nel punto più lontano del nulla.
Trainspotting l’ho letto relativamente tardi, non ha nulla a che fare con tutto ciò, lo giuro.
Carlo sta continuando a buttare là nomi di progetti musicali e dischi particolarmente importanti per la sua formazione, di cui a dire il vero non frega un cazzo a nessuno; Photek, DJ Krush, DJ Shadow, Techno Animal – io sto in assoluta ieratica contemplazione delle bottiglie impilate che svettano alle spalle del barista, sottofondo inadeguato di Laura Pausini.
Decidiamo di andare; dobbiamo arrivare alla stazione Tiburtina a prendere due spogliarelliste rumene, amiche o colleghe (o entrambe le cose, sti cazzi) della mia conoscente. I sensi di marcia interrotti e i perenni lavori per l’allungamento della Metro C ci costringono ad un giro del cazzo, tratto di Tangenziale, costeggiamo le mura graffitate del cimitero del Verano, illuminazione arancione per strada con un parchetto sulla sinistra dove svettano due canestri e un branco scimmiesco di ragazzini bianchi e negri ed ispanici intenti in una disputa hip hop, vedo velocemente le movenze artefatte acquisite andando a ripetizione da 50Cent e Wu Tang Clan, poi è solo il mio volto riflesso dal finestrino.
La stazione Tiburtina di notte; una macchina della polizia, una ambulanza col lampeggiante che per qualche strano motivo è acceso e tradisce la sua risibile luminescenza fetish inondandoci di secrezioni blu, barboni, rumeni, albanesi, zingari, puttane, gente che sembra appena uscita di galera, qualche rara persona rispettabile, niente soldati, zero ronde. Ultimi autobus in partenza, corriere per i Castelli, furgoncini Roma-Bucarest o Roma-Kiev, non riesco nemmeno ad immaginare quanto possa essere alienante il viaggio, stipati come merci nel vano puzzolente di quei trabiccoli. Assurdo.
Carlo fuma una marlboro, la mia amica spogliarellista lo imita, io sono lombrosionamente intento a catalogare il devasto umano che ci scivola furtivo intorno; tutta robaccia da descrivere, da disprezzare – l’incubo di De Gobineau.
Per ingannare l’attesa, d’altronde sempre meglio che essere ingannati dall’attesa, affrontiamo il discorso dei nostri passati e troviamo un punto di comunanza, di vicinanza emotiva quando salta fuori il nome mitologico di Rebibbia; quel carcere Fortezza Bastiani proteso a difendere le praterie cementificate del nord di Roma, ognuno di noi dentro c’ha lasciato qualche persona cara, chi un parente, chi un amico, chi una persona sentimentalmente importante. I colloqui, i pertugi, le scartoffie burocratiche, l’alienazione, persino la merdosità del viaggio per arrivare alle mura del carcere; poi prendo la tangente e parlo di Foucault e di Bentham, due nomi che volevo fare, che ogni volta che si parla di carcere o di istituzione devo snocciolare. Non tanto per sadico gusto di erudizione, ma soltanto perché quei due la sapevano davvero lunga.
Le sconfitte di una intera vita vengono frettolosamente messe sul piatto della conversazione, come in una triste partita di poker giocata tra disperati; a nessuno importa degli altri, conta solo narrare con dovizia di particolari e trasporto emotivo il proprio naufragio. Dovremmo chiedere a Matteo Garrone (non quello di Gomorra, ma quello de L’Imbalsamatore) di venirci a riprendere, c’è sufficiente materiale per qualche suo film di blues notturno.
E parlando di sconfitte, le due colleghe della mia amica sono portatrici (in)sane di dolore e di tutti quei segni che manderebbero in sollucchero un approfondimento televisivo sulla tratta delle bianche; volti poveri, di fame assoluta, trucco pesante da puttane, borse dentro cui celano gli abiti provocanti con cui scucire qualche extra ai clienti, occhi cupi, insondabili, capelli cotonati come in un videoclip glam degli anni ottanta. In effetti sembrano uscite da qualche backstage di un concerto dei Motley Crue.
Io e Carlo ci sentiamo un po’ papponi; appena scopriamo che sono entrambe clandestine, dobbiamo arrenderci all’evidenza che in quel momento pure per la legge lo siamo. In macchina, guida la mia amica, dobbiamo scambiare quattro chiacchiere con le tipe, mentre dallo stereo risuonano i bassi virali dei Massive Attack, propagandosi nel freddo ventre della Roma dimenticata. Di questa Roma dimenticata.
Le chiacchiere sono un nulla, lo potete immaginare; da quanto siete in Italia? Come vi ci trovate? La banalità, anzi una banalità talmente assoluta da rendere Alberoni profondo e intenso come Caraco.
Intersezioni stradali geometricamente inespugnabili, Via dello Scalo di San Lorenzo, tra Porta Maggiore, la Prestina e il CIM, c’è una scritta anarchica bellissima in vernice nera sbafata proprio fuori dal portone del “sanatorio”, LE VOSTRE MEDICINE NON SCONFIGGONO I NOSTRI SOGNI, eco artaudiana di viaggi al paese dei tarahumara, penso che a volte gli anarchici sono magnifici, quando si concentrano di più nell’essere davvero libertari e si dimenticano di tutti i loro anti e le loro costruzioni teoriche di paranoia; manifesti dei centri sociali, feste della canapa, inviti ai punkabbestia a lasciare i cani a casa e non portarli alle feste perché sennò rompono il cazzo, feste e concerti mobili in piena piazza a San Lorenzo.
Lasciamo le tre ragazze davanti l’ingresso del locale, noi andiamo a parcheggiare; torneremo dopo, il tempo di farle cambiare e di dare una chance al posto di animarsi e di popolarsi visto che ora siamo a densità prossima allo zero. A due metri, una pizzeria e un ostello abitato da voci straniere, proprio davanti il muro meridionale del Verano, tanti ricordi di scontri di piazza per celebrazioni di 25 aprile e 28 ottobre, sempre io e Carlo fianco a fianco nel percorso ineludibile di identificazioni, fermi, manganellate e pazza gioia di essere fascisti.
Una volta parcheggiata la macchina, andiamo a bere qualcosa; questa zona di Roma sembra un distretto rurale di paesi abbandonati, uno schifo unico. Ci immergiamo nel carnaio vitale di San Lorenzo, la movida da suburra etnica e universitaria, shottini a 1 euro, un pub che regala ogni due birre la terza, beviamo entriamo e usciamo di continuo sguardi distratti a quel che ci succede attorno, sagome industriali e negozi e ristoranti messicani indiani cingalesi eritrei. Vorrei scattare una foto al CIM e alla scritta anarchica ma un vigilante mi fa capire che non è aria; puzzo di alcolici e non ho un bell’aspetto, ma poi boh non ho mai un bell’aspetto.
Piscio contro un muro, davanti agli occhi un manifesto contro Bush; graficamente molto povero, me lo squadro bene bene, fino ad impararmi a memoria ogni singola frase (polemiche e velenose) ed i sottoscrittori del manifesto, centri sociali, associazioni culturali e sezioni varie di rifondazione comunista. Piscio, piscio, non la smetto più, cazzo di alcolici, il rivolo giallognolo diventa un fiume con tanto di schiuma e sono costretto ad allargare le gambe per non inzupparmi le scarpe; sono sotto ad un lampione morto, passano tre ragazze americane che cinguettano yes e no e tutte robe inglesi stronze, penso mi stiano guardando ma se mi volto è il momento che mi faccio le scarpe in umido.
Carlo ride, beve, sta scrutando l’orizzonte che muore lungo le mura dell’Università, zone di desolazione urbana. Mi rinserro in un sonoro porcoddio, svuotata ben bene la vescica, il vigilante sta sempre là voltato l’angolo niente foto alla scritta mi toccherà tornarci in altra occasione per quanto io non sia abituale frequentatore di San Lorenzo.
Abbiamo tutti e due fame ma i ristoranti etnici non paiono poi così invitanti; sono le 11 e 15, più o meno. Sto ruttando da cinque minuti senza soluzione di continuità, siamo trincerati nella nostra ontologica diversità rispetto a queste balde comitive di fuorisede, la vita a cui abbiamo rinunciato mettendoci il muro dell’apartheid politica attorno; ma ci siamo davvero persi qualcosa?
Siamo degli esclusi, degli esuli in patria, ecco perché andiamo così d’accordo con le spogliarelliste.
Torniamo sui nostri passi. Non fa particolarmente freddo, anche se la nostra percezione è necessariamente alterata dalla mole consistente di alcolici che ci ballano in corpo; varie sagome furtive, ci orientiamo alla buona per gli stretti vicoli del quartiere. Una volta arrivati al locale, impiego un po’ di tempo per capire dove sia l’ingresso; non c’è insegna, soltanto un miserando portoncino defilato rispetto alla porta della pizzeria vicina, tanto per evitare imbarazzati incontri tra i clienti dei due posti, due lampioncini fiochi e alberelli e un prato curato non tanto bene, per ironia della sorte il cimitero da qui si vede benissimo. Altro che pace dei sensi.
Sulla soglia il ritratto somatico del pappone, vecchio ossigenato con camicia bianca a maniche corte sbottonata a mettere in vista un petto ridicolo e glabro su cui brilla una pesante catena d’oro, nella migliore tradizione della blackexploitation, nel complesso fa molto anni settanta; ci lancia una divertita e complice occhiata, come a dire “vi siete venuti a divertire nel posto giusto”, ma sinceramente non siamo venuti poi a divertirci e certamente quello non è il posto giusto.
C’è tanta trasgressione nella sagoma di questo peep-show quanta potrebbe essercene nell’ordinare una margherita in pizzeria; paghiamo i venti euro a cranio per l’ingresso, accanto a noi nella saletta di ingresso ci sono una decina di ragazze, volti est-europei di fame mortale, ragazze vestite come zoccole del parchetto, nessun genere di raffinatezza erotica da boudoir di sete ed incensi. E dentro è pure peggio; una lucetta rossiccia si incanala desolatamente in due ambienti separati da un pilastro di cemento, minuscolo bar ricavato in una rientranza delle pareti dietro il cui bancone si cela una sorta di matrona abbigliata in modo ributtante e trash, pochissimi clienti assiepati su divanetti da club privè bulgaro.
Tendaggi caotici e tovaglie bianche macchiate sulle poltrone e sui divani, musica fintamente languida irriconoscibile, mi siedo davanti il palo della lap-dance per evitare più che altro di finire accanto alle rare ragazze sedute e ai tristissimi clienti; non il posto più adatto per evocare la gioia della solitudine.
Infatti non faccio in tempo a scambiare un malinconico cenno d’intesa con Carlo che eccoci la matrona-barista addosso, ci chiede se vogliamo bere, se vogliamo compagnia, sarebbe dura spiegare a questo rivoltante esempio di ammiccamenti incapacitanti il senso profondo e cortese della nostra visita, tanto più che abbiamo promesso che non faremo parola della nostra amicizia con la spogliarellista.
Arriva qualche altro cliente, varia umanità, alcuni tradiscono origini plebee riscattate da chissà quali traffici, costruttori, venditori di auto, gente sulla quarantina, sulla cinquantina, casi umani che trascorreranno l’intera serata in disparte a bearsi delle movenze oggettivamente animalesche delle ragazze. C’è chi beve birra, chi offre vodka o champagne alle puttane, gli alcolici sono parecchio scadenti e decisamente cari, ci si avventura in fantasiose conversazioni con le ragazze come se a queste potesse importare davvero delle (s)venture di chi si trovano davanti; ricettacoli di storie esistenziali, le spogliarelliste quando non ballano cercano di scucire un ballo privato in separata sede ai vari astanti. Fonte primaria di introiti, quei balli sono esosi e brevi, ma forniscono al cliente l’illusione di un contatto ravvicinato; si mormora pure di pompini e altri affari sessuali in quegli stretti loculi di cemento adorni solo di una poltroncina rossa.
Io e Carlo liquidiamo con fastidio tutte le ragazze che vengono vicine a noi, tanto sappiamo che dopo qualche preliminare verbale arrivano al sodo, ovvero alla richiesta di un ballo privato. Sessanta euro per 15 minuti di blando “paradiso”, no grazie diocristo. I più squallidi sono quelli che pretendono di aver stabilito un contatto, una qualche conoscenza con le ragazze; li vedi salutarle per nome, abbozzare qualche battuta, cinger loro la vita con le braccia come fossero amiche di lunghissima data e non delle puttane che mirano soltanto a spremere quei portafogli particolarmente gonfi.
Tre coatti tatuati, rasati, vestiti da hardcore, evidentemente fatti di cocaina (la supposizione su quale droga si siano fatti, diventa una certezza quando vado al cesso e li vedo pippare abbondanti strisciate) si dimenano in maniera patetica su un divanetto, passano in rassegna le ragazze mentre ballano, si sfottono a vicenda, propongono sconti comitiva per i balletti privati; davvero non riesco a capire cosa ci sia di divertente in serate come queste. Né economiche, né eccitanti; stereotipate, pura coazione a ripetere, un cerimoniale grottesco fatto di tanti piccoli rituali di pseudocorteggiamento. Quando poi, a ben vedere, ciò che conta sono solo i soldi.
Un tale manda sms compulsivamente, testa china sul display, mentre a pochi passi da lui una puttana faccia zingara evidentemente in trasferta da qualche campo nomadi è nuda, contorta e con la mano ficcata nella fica depilata; la scena uccide qualunque libido. Il tizio messaggista ha un aspetto da pingue assistente universitario, mezzo pelato, occhiali, barba sfatta, non arrischia né sorrisi né alzate di ciglia, è preso dagli sms.
La mia amica, seduta tra me e Carlo per un attimo di relax, mi spiega che il poveraccio pensa di aver fatto colpo su una spogliarellista che lavora in altro locale e attende da un momento all’altro un suo sms per andarsi a mangiare qualcosa fuori; non so nemmeno se definire il tutto patetico o grottesco. So solo che illudersi di aver fatto breccia nella mente o nel cuore di una spogliarellista, presa durante il suo lavoro, quando la sua ricezione ai contatti umani è pari a quella di un anatomopatologo, è una grande balla; indice di una solitudine irrisolta e disperata.
Me lo immagino, fallito quarantenne a Natale coi genitori, senza nessuno che gli faccia gli auguri, senza nessuno che gli abbia mai detto “ti amo” o un più semplice, meno impegnativo ma sempre gradito “ti voglio bene”.
Anche le ragazze sono interessanti; nude, cercano di risultare eccitanti, si dimenano freneticamente, scomposte in gesti di richiamo sessuale, bacini accennati, dita che esplorano sinuosamente i loro stessi corpi, ma se le guardi negli occhi non puoi non notare la desolazione, il gelo, la loro freddezza. Una mi si avvinghia addosso, ma lascia la presa perché capisce che sono poco interessato a quel genere di macelleria dei sensi.
Le loro danze sono prevedibili, sottolineate da musiche di pop dozzinale; le più atletiche si innalzano sul palo, usano attrezzi vari, inseriscono i vibratori nella fica e nel culo, mentre il pappone che ci ha accolto all’ingresso commenta con microfono malfunzionante le loro evoluzioni. Invita il pubblico ad applausi, ricorda che tutte le ragazze sono disponibili a balli privati; mi vien da chiedere al dio delle schifezze, come abbia ottenuto quella…disponibilità.
Bande di rumeni o di albanesi che picchiano, ricattano, fanno capire alle ragazze che devono piegarsi ad ogni richiesta, ad ogni voglia dei clienti, e lui il proprietario che paga e ringrazia per i servigi resi.
Due ragazze ci siedono davanti, parlottano tra loro, ad un certo punto il pappone si avvicina loro e con fare deciso ci indica; io e Carlo infatti stiamo bivaccando sul divano senza puttane al fianco, intollerabile visione per il buzzurro che vuol ingozzarsi di pecunia, siamo stonati e alcolici ma ancora da strizzare economicamente parlando. Io ormai vedo dipinti di Francis Bacon sulle chiappe di una negra. Le due troie ci vengono vicine, riluttanti, mentre il pappa ci guarda come a dire “problemi?”; sono entrambe italiane, una mora e una bionda, accoppiata vincente per film porno anni ottanta. Risibili in strizzati abiti fetish, la “mia” è quella mora, piccolina, bel visino, scopro che è una novizia; lavora da poco lì, e per quanto son certo che il suo nome, la sua età e il resto dei dati esistenziali che mi comunica siano palesi stronzate, sono certo che sia una debuttante. E’ troppo timida, insicura e soprattutto commette un grave errore; mi chiede subito se voglio fare un ballo privato, mentre i lerci frequentatori di questi posti non amano domande così esplicite, vogliono coltivare l’illusione che il privè sia la fisiologica conclusione di un qualche rapporto di conoscenza, il momento apicale delle chiacchiere, vogliono pensare, autoingannandosi, che la ragazza nutra un qualche interesse per loro, loro come persone e uomini.
Quella di Carlo è una shampista. Cliche puro, ma a quanto apprendo dopo è vero pure questo; biondina niente male, più puttana e sfrontata della mia, ma Carlo la liquida con qualche grugnito di disapprovazione e lei rimane a guardarsi le unghie, in imbarazzo, mentre il pappa-proprietario perde le speranze e guarda noi 4 con faccia sconsolata.
La mia, non mi ricordo il nome, tanto era falso, mi sente parlare, sono logorroico, lo sono sempre; le mie parole sono fuori luogo, non so chi o cosa cito, parlo di serial killer. Mi dice che lei studia Psicologia, che ha avuto problemi in famiglia, la madre gravemente malata, e che si appassiona di delitto seriale; conversiamo per una ventina di minuti, immagini tetre di sadismo omicida mentre attorno le spogliarelliste vorticano promettendo estasi a poco prezzo ed i clienti fischiano strepitano battono le mani. Io e la ragazza parliamo di massacri, rapimenti, fantasie sessualmente deviate, scioriniamo dati e nomi di serial killer, le consiglio libri, film, personaggi, per un istante mi rendo conto di quanto paradossale sia la situazione, tanto che la faccio presente a Carlo alla mia amica e mando pure un sms ad Alberta, più che altro per autoconvincermi che sia reale questa situazione.
Empaticamente protesa alla confidenza totalizzante, la ragazza smette di essere una ribollente spogliarellista (sia pure alle prime armi) e mi racconta i drammi della sua adolescenza problematica ed incompresa, una sorta di trattato post-mocciano che succhia linfa vitale nei testi femministi ed arriva a presentare l’industria del sesso come un inferno di miseria (morale e materiale); esperienze con le droghe, una storia sentimentale con un ragazzo sbagliato, l’università, poi la malattia della madre, più lei parla più io mi astraggo dal contesto delle tette esibite e mi eccito, la mia anima sadica emerge dall’abisso, questa commistione di sesso e dolore, questa sinergia tra corpi femminili nudi, volgarità dell’insieme e sofferenza genuina, pagine di Sade che prendono vita e compongono arabeschi potenti. Non arriva alle lacrime, ma è evidentemente immalinconita dalla narrazione, stremata,sfiancata, come nemmeno al termine di una gang bang. Le deve essere pesata la cosa.
Carlo sbadiglia, è tardi. Le lancette del mio orologio segnano le 3. Abbiamo trascorso varie ore nel nulla elevato a sistema. Bel “divertimento” del cazzo.
Salutiamo la mia amica, ce ne andiamo.
Il giorno dopo la sento al telefono e mi ringrazia per esserla andata a trovare, dice che le ho portato fortuna visto che ben tre clienti le hanno pagato un ballo privato, le dico della sua stramba collega criminologa e lei mi conferma trattarsi di ragazza nuova, che ha qualche problema. Promette di mettermici in contatto.
Una settimana dopo vengo a sapere che il padre della ragazza ha fatto irruzione nel locale, ha cazziato la figlia quasi venendo alle mani con due clienti e col proprietario, l’ha umiliata davanti a tutti portandosela poi via.
Una fine impagabile.

venerdì 10 aprile 2009

Fare il Vuoto


Luci intermittenti, tremolanti, un cupo bagliore neon che va a morire lungo il profilo del cielo ritagliato tra le sale della stazione; banchine affollate, perenne transito di pendolari e turisti, segway della polfer, carta straccia, giornali, mcdonald’s, shopping compulsivo di figure lacere, immigrati, barboni e zingari, rari controlli, una macchia di olio che si allarga in cerchi concentrici come un piccolo maelstrom nero, me ne sto fermo con le mani in tasca ad aspettare che il treno arrivi.
Se mi guardo attorno noto varia umanità, derive esistenziali prossime al naufragio definitivo, carrelli, famiglie scarnificate dal mutuo e da simulacri inconsistenti di socializzazione, ragazze in mise sgargianti, assistenti universitari, giornalisti, operai, addetti allo scarico e alle pulizie, l’odore pungente del piscio e del gas mi penetra nelle narici, gas di scarico come santificata aureola di un martirologio dimenticato e laggiù oltre i binari morti oltre il grigio del cemento oltre il gorgo rossiccio del tramonto i quartieri etnici di Roma un tempo centro pulsante della romanità ed ora kasbah avvizzita lercia putrida e poi San Lorenzo e la movida underground le serate trascorse sui tetti dei palazzi a guardare il giardino di acciaio e l’intelaiatura post-industriale dello Scalo e il Cimitero del Verano con le mura graffitate e dentro il silenzio irreale, marmoreo, di angeli bianchi e steli funeree di una canzone dei Dead Can Dance; l’irrealtà del tracollo mi si para davanti, mentre attendo e i display luminosi degli annunci, degli arrivi e delle partenze compongono diorami iper-accelerati di vite in transito.
Non mi interessano come persone, solo poche volte mi chiedo chi siano, dove stiano andando, per quale motivo, mi passano accanto velocemente, capita pure che mi urtino, non c’è mai una scusa, una giustificazione, non c’è nulla se non la consapevolezza della inutilità, sguardi veloci e fugaci, il conto con se stessi, il conto con la non-partenza, se tutti partono ed invece si è soli lì ad attendere, senza drammaturgia melensa, senza quell’odio che fu mio un tempo, reclamando la quiete dei tubolari alogeni e dei centri di smistamento merci, l’ufficio oggetti smarriti davanti cui pascola una folla variegata, ci penso a quei transfughi di esistenze nullificate, ai loro lavori, alle loro tragedie familiari, ai devastanti ritmi con cui annegano nella quotidianità. Il peso della disintegrazione sociale.
Una runa della vittoria mi risplende sul bavero della giacca – l’orizzonte è una curva ferrata, tra ammassi di edilizia popolare, pareti incenerite, incatramate, laggiù c’è un mondo che non è più il mio, nel cielo incupito la scia di un aereo che se ne va a morire a nord; anni fa avrei voluto essere a bordo, adesso non mi importa, né gioia né dolore, soltanto l’anestesia dei sentimenti, la decadenza emozionale di una beatitudo claustrale. Le partenze che furono di Tondelli, quella solitudine uccisa e impolverata che se ne sta là a decomporsi nel cuore, l’annientamento nascosto in camouflage, come se ogni giorno fosse una riedizione della battaglia di Berlino – attorno vedo solo nemici, e da nemici devo trattarli. Non posso riconoscere loro alcuna dignità, alcuna pietà, mi immergo nella lettura dei nostri maestri, Blake, Hamsun, Strindberg, Rilke, Drieu La Rochelle, una via che porta a nord sotto le volute e le spirali di un cielo immenso, aperto come tundra esagonale, pessimisticamente orientato alla accettazione della lotta. Non c’è uomo a cui possa rivolgermi, non c’è destriero impazzito sul crinale dell’abisso, sono evaporate le giustificazioni marocchine di un Genet a picco sui campi di morte in Libano, gli occhi secchi screpolati senza più lacrime da piangere per i crimini sionisti, non c’è funambolo abbastanza scaltro da poter solcare l’oceano di seta che si apre tra lingue di fuoco e stille di sangue; la brava gente, la gente timorata di dio, arsa nel ventre d’inferno, il rosso carnicino del tramonto sul Golgotha, cristo viandante senza casa in fermata perenne alla mensa della Caritas –intimorito dal ruggito di Rintrah, una proposizione fondamentale contro il cristianesimo, la carne avvizzita come tabacco da masticare, il suono della sofferenza.
Il viaggio senza fine, senza sosta alla ricerca del post-Swedenborg, le taverne, le locande, le stazioni di posta, Strindberg e il suo personale inferno – che è anche il mio. Una volta Parigi, oggi Patpong e il Museo della Criminologia, circo di anatomia decomposta e sadismo omicida, cadaveri fatti a pezzi immersi nella formaldeide, odori di medicinali e di sporcizia, incuneato in un mercato fatiscente, costruzione decaduta corrotta irrimediabilmente abbandonata a pochi passi dalle sale massaggio dai banana show dai bordelli - lì dentro cerchi epifanie di sesso e morte; i pompini a buon mercato di qualche misera troia che sconta sulla sua pelle l’orrore del turismo sessuale, l’orrore godurioso e divertente, sabbia finissima, il mare azzurro, i parties della luna calante, strepiti techno e variamente elettronici, per la follia di Marie-France Botte…l’orrore, l’orrore conradiano mantricamente proteso alla definizione dei piaceri umani. Tra le sale di quel museo, dopo aver goduto di qualche atto sessuale decisamente riprovevole, dopo aver fatto sperimentare la brutalità del mondo occidentale, da sempre ingordo, avido ed ipocrita, alle varie puttanelle scimmiesche con gli occhi a mandorla, dopo aver mangiato riso e pollo fritto e bevuto birra calda molto scadente, me ne andavo a contemplare le braccia tatuate staccate dal tronco e messe sotto spirito, le teste decapitate abbastanza frollate, gli occhi intubati, comitive di studenti, intere scolaresche, pochi turisti stranieri perché evidentemente queste zone sono fuori dalle guide commerciali e sono pochi gli agenti di viaggio in grado di consigliarne la visita. Qui la morte è pornografica – venduta, permutata, messa in saldo.
Ho trascorso gran parte della mia esistenza a tentare di farmi il vuoto attorno; quel vuoto grande, immenso, ciclopico che si staglia tra l’animo e la psiche e che ti costringe a vagabondare nel ventre a-morale della stazione Termini di notte, per scontare la tua solitudine e dare uno sguardo a quella degli altri. Un brivido gelido nel percorrere la strada di questo esilio interiore, tra le macerie della sconfitta ed i pericoli dell’autocommiserazione – le domande abissali che furono di Schmitt e Hamsun, ma senza le ombre della foresta nera, dei fiordi e del processo.
Mi sono processato da solo, senza mai emettere la sentenza; rimanendo in perenne stato di sospensione, non d’incanto, non di favolistica accettazione di qualche mondo rovesciato, ma di una sensazione diffusa, pervicace, invasiva, di un certo disgusto, quasi languido, quasi soffuso.
Ricordo la lettura de Bambini di Vita sul vagone, gli sguardi vagamente attoniti degli altri passeggeri – mai fatto di proposito; ma non chiederò scusa per i miei interessi, non chiederò scusa per la fisiologica naturalezza con cui ho sempre vissuto i miei interessi. Le foto disdicevoli che la signora inamidata accanto a me poteva vedere, quella trafila di pedofili occidentali intenti a pasteggiare con la giovane carne tailandese, mi spingevano sempre più a fondo tra i cerchi del mio personale inferno – oh persino i presunti estremi, tante delle persone che sono andato ad accogliere in stazione, con cui ho colloquiato per via Giolitti, a cui ho mostrato una parte infinitesimale della mia collezione di libri si sono tirate indietro disgustate.
Perché l’estremo va bene a patto che non sia vero – a patto che non susciti reazioni scomposte e genuine. La plastica invece vende bene.
Non tutte le persone scese da quei treni si sono rivelate false, questo no; in alcune di loro ho ritrovato la mia stessa solitudine, la mia stessa ricerca, la mia stessa rincorsa verso il nulla – quel disagio interiore cristallizzato nel meridiano zero della vita. Capita di trovarne nel corso degli anni, e sono incontri preziosi, intensi, non perché ti fanno sentire meno solo ma perché arricchiscono la tua solitudine, la rendono più scintillante e consapevole. Non un informe ammasso di unione di anime, ma lo stringersi a difendere le ultime macerie, con il metaforico panzerfaust dell’odio.
L’odio ti rende vivo, forte, degno di andare avanti, non c’è gusto a diventare uno dei tanti, però a volte si deve interrompere la marcia, rimanere in silenzio col fiato che si condensa in nuvole di vapore, attendere che arrivi l’alba e raccogliere i superstiti per poter riprendere la lotta fino alla fine, con la gioia pazza dipinta sul volto, la gioia di chi non si farà mai prendere vivo. Non la chiamo felicità, ma consapevolezza.
Devi essere lucido per chiamarti fuori dal genere umano e pure non perdere la tua umanità – per continuare a leggere i messaggi criptati, per vedere il fumo che si eleva sopra l’austero profilo delle rovine, per poterti ancora dire vivo e libero.
Certe volte capita di andare indietro con la memoria, di ripensare al labirinto del destino e agli intricati giochi delle leggi cosmiche, una mano invisibile ma universale che sulla scacchiera delle possibilità a volte unisce i simili, per dare loro appunto una chance. Se ripenso alle combinazioni, alle sincronie, alle coincidenze, io vedo un volto, un volto preciso, non trasfigurato dalle luci di questa stazione, ma vivo, delineato, stagliato precisamente contro il profilo di questo istante che non passerà mai, come mi avesse preso per mano e condotto fuori dalla mia dimensione; fuori, è luce, una luce calda, forte, sparata in faccia, batte dritta sul muso, un gorgo arancio-azzurrino di cielo e limpide secrezioni alla Francis Bacon si mutilano e roteano in cerchi concentrici, gironi di dannazione accelerata dalle mille scie degli aerei. Ho la vertigine della libertà, i sensi in perenne tensione, non ancora abituato alla consistenza caotica del mondo. E di questo non potrò che essere infinitamente grato a quel volto; non più ultimi uomini, ma stelle popolate di amicizia.
A che cosa avete rinunciato nel vostro titanico sforzo di fare il vuoto ?
Non a molto, ad essere sinceri.
Sapete, o dovreste sapere, che tra pochi anni le figure che vi circondano in questa stazione non saranno altro che un ammasso informe di carne putrefatta carta da necrologio, diventeranno retorica e pietà e compassione di parenti e amici e conoscenti.
Saranno morti. Proprio come tutti gli altri esseri umani di cui non avete visto i volti, ma che sapete essere sparsi tra le poltroncine e gli scomparti dei treni.
Puntini di carne tra loro uniti a riempire il vuoto. Nell’eterna contemplazione della fine, una apocalisse personale reiterata tutti i giorni.
Da qui fino all’eternità.