venerdì 10 aprile 2009

Fare il Vuoto


Luci intermittenti, tremolanti, un cupo bagliore neon che va a morire lungo il profilo del cielo ritagliato tra le sale della stazione; banchine affollate, perenne transito di pendolari e turisti, segway della polfer, carta straccia, giornali, mcdonald’s, shopping compulsivo di figure lacere, immigrati, barboni e zingari, rari controlli, una macchia di olio che si allarga in cerchi concentrici come un piccolo maelstrom nero, me ne sto fermo con le mani in tasca ad aspettare che il treno arrivi.
Se mi guardo attorno noto varia umanità, derive esistenziali prossime al naufragio definitivo, carrelli, famiglie scarnificate dal mutuo e da simulacri inconsistenti di socializzazione, ragazze in mise sgargianti, assistenti universitari, giornalisti, operai, addetti allo scarico e alle pulizie, l’odore pungente del piscio e del gas mi penetra nelle narici, gas di scarico come santificata aureola di un martirologio dimenticato e laggiù oltre i binari morti oltre il grigio del cemento oltre il gorgo rossiccio del tramonto i quartieri etnici di Roma un tempo centro pulsante della romanità ed ora kasbah avvizzita lercia putrida e poi San Lorenzo e la movida underground le serate trascorse sui tetti dei palazzi a guardare il giardino di acciaio e l’intelaiatura post-industriale dello Scalo e il Cimitero del Verano con le mura graffitate e dentro il silenzio irreale, marmoreo, di angeli bianchi e steli funeree di una canzone dei Dead Can Dance; l’irrealtà del tracollo mi si para davanti, mentre attendo e i display luminosi degli annunci, degli arrivi e delle partenze compongono diorami iper-accelerati di vite in transito.
Non mi interessano come persone, solo poche volte mi chiedo chi siano, dove stiano andando, per quale motivo, mi passano accanto velocemente, capita pure che mi urtino, non c’è mai una scusa, una giustificazione, non c’è nulla se non la consapevolezza della inutilità, sguardi veloci e fugaci, il conto con se stessi, il conto con la non-partenza, se tutti partono ed invece si è soli lì ad attendere, senza drammaturgia melensa, senza quell’odio che fu mio un tempo, reclamando la quiete dei tubolari alogeni e dei centri di smistamento merci, l’ufficio oggetti smarriti davanti cui pascola una folla variegata, ci penso a quei transfughi di esistenze nullificate, ai loro lavori, alle loro tragedie familiari, ai devastanti ritmi con cui annegano nella quotidianità. Il peso della disintegrazione sociale.
Una runa della vittoria mi risplende sul bavero della giacca – l’orizzonte è una curva ferrata, tra ammassi di edilizia popolare, pareti incenerite, incatramate, laggiù c’è un mondo che non è più il mio, nel cielo incupito la scia di un aereo che se ne va a morire a nord; anni fa avrei voluto essere a bordo, adesso non mi importa, né gioia né dolore, soltanto l’anestesia dei sentimenti, la decadenza emozionale di una beatitudo claustrale. Le partenze che furono di Tondelli, quella solitudine uccisa e impolverata che se ne sta là a decomporsi nel cuore, l’annientamento nascosto in camouflage, come se ogni giorno fosse una riedizione della battaglia di Berlino – attorno vedo solo nemici, e da nemici devo trattarli. Non posso riconoscere loro alcuna dignità, alcuna pietà, mi immergo nella lettura dei nostri maestri, Blake, Hamsun, Strindberg, Rilke, Drieu La Rochelle, una via che porta a nord sotto le volute e le spirali di un cielo immenso, aperto come tundra esagonale, pessimisticamente orientato alla accettazione della lotta. Non c’è uomo a cui possa rivolgermi, non c’è destriero impazzito sul crinale dell’abisso, sono evaporate le giustificazioni marocchine di un Genet a picco sui campi di morte in Libano, gli occhi secchi screpolati senza più lacrime da piangere per i crimini sionisti, non c’è funambolo abbastanza scaltro da poter solcare l’oceano di seta che si apre tra lingue di fuoco e stille di sangue; la brava gente, la gente timorata di dio, arsa nel ventre d’inferno, il rosso carnicino del tramonto sul Golgotha, cristo viandante senza casa in fermata perenne alla mensa della Caritas –intimorito dal ruggito di Rintrah, una proposizione fondamentale contro il cristianesimo, la carne avvizzita come tabacco da masticare, il suono della sofferenza.
Il viaggio senza fine, senza sosta alla ricerca del post-Swedenborg, le taverne, le locande, le stazioni di posta, Strindberg e il suo personale inferno – che è anche il mio. Una volta Parigi, oggi Patpong e il Museo della Criminologia, circo di anatomia decomposta e sadismo omicida, cadaveri fatti a pezzi immersi nella formaldeide, odori di medicinali e di sporcizia, incuneato in un mercato fatiscente, costruzione decaduta corrotta irrimediabilmente abbandonata a pochi passi dalle sale massaggio dai banana show dai bordelli - lì dentro cerchi epifanie di sesso e morte; i pompini a buon mercato di qualche misera troia che sconta sulla sua pelle l’orrore del turismo sessuale, l’orrore godurioso e divertente, sabbia finissima, il mare azzurro, i parties della luna calante, strepiti techno e variamente elettronici, per la follia di Marie-France Botte…l’orrore, l’orrore conradiano mantricamente proteso alla definizione dei piaceri umani. Tra le sale di quel museo, dopo aver goduto di qualche atto sessuale decisamente riprovevole, dopo aver fatto sperimentare la brutalità del mondo occidentale, da sempre ingordo, avido ed ipocrita, alle varie puttanelle scimmiesche con gli occhi a mandorla, dopo aver mangiato riso e pollo fritto e bevuto birra calda molto scadente, me ne andavo a contemplare le braccia tatuate staccate dal tronco e messe sotto spirito, le teste decapitate abbastanza frollate, gli occhi intubati, comitive di studenti, intere scolaresche, pochi turisti stranieri perché evidentemente queste zone sono fuori dalle guide commerciali e sono pochi gli agenti di viaggio in grado di consigliarne la visita. Qui la morte è pornografica – venduta, permutata, messa in saldo.
Ho trascorso gran parte della mia esistenza a tentare di farmi il vuoto attorno; quel vuoto grande, immenso, ciclopico che si staglia tra l’animo e la psiche e che ti costringe a vagabondare nel ventre a-morale della stazione Termini di notte, per scontare la tua solitudine e dare uno sguardo a quella degli altri. Un brivido gelido nel percorrere la strada di questo esilio interiore, tra le macerie della sconfitta ed i pericoli dell’autocommiserazione – le domande abissali che furono di Schmitt e Hamsun, ma senza le ombre della foresta nera, dei fiordi e del processo.
Mi sono processato da solo, senza mai emettere la sentenza; rimanendo in perenne stato di sospensione, non d’incanto, non di favolistica accettazione di qualche mondo rovesciato, ma di una sensazione diffusa, pervicace, invasiva, di un certo disgusto, quasi languido, quasi soffuso.
Ricordo la lettura de Bambini di Vita sul vagone, gli sguardi vagamente attoniti degli altri passeggeri – mai fatto di proposito; ma non chiederò scusa per i miei interessi, non chiederò scusa per la fisiologica naturalezza con cui ho sempre vissuto i miei interessi. Le foto disdicevoli che la signora inamidata accanto a me poteva vedere, quella trafila di pedofili occidentali intenti a pasteggiare con la giovane carne tailandese, mi spingevano sempre più a fondo tra i cerchi del mio personale inferno – oh persino i presunti estremi, tante delle persone che sono andato ad accogliere in stazione, con cui ho colloquiato per via Giolitti, a cui ho mostrato una parte infinitesimale della mia collezione di libri si sono tirate indietro disgustate.
Perché l’estremo va bene a patto che non sia vero – a patto che non susciti reazioni scomposte e genuine. La plastica invece vende bene.
Non tutte le persone scese da quei treni si sono rivelate false, questo no; in alcune di loro ho ritrovato la mia stessa solitudine, la mia stessa ricerca, la mia stessa rincorsa verso il nulla – quel disagio interiore cristallizzato nel meridiano zero della vita. Capita di trovarne nel corso degli anni, e sono incontri preziosi, intensi, non perché ti fanno sentire meno solo ma perché arricchiscono la tua solitudine, la rendono più scintillante e consapevole. Non un informe ammasso di unione di anime, ma lo stringersi a difendere le ultime macerie, con il metaforico panzerfaust dell’odio.
L’odio ti rende vivo, forte, degno di andare avanti, non c’è gusto a diventare uno dei tanti, però a volte si deve interrompere la marcia, rimanere in silenzio col fiato che si condensa in nuvole di vapore, attendere che arrivi l’alba e raccogliere i superstiti per poter riprendere la lotta fino alla fine, con la gioia pazza dipinta sul volto, la gioia di chi non si farà mai prendere vivo. Non la chiamo felicità, ma consapevolezza.
Devi essere lucido per chiamarti fuori dal genere umano e pure non perdere la tua umanità – per continuare a leggere i messaggi criptati, per vedere il fumo che si eleva sopra l’austero profilo delle rovine, per poterti ancora dire vivo e libero.
Certe volte capita di andare indietro con la memoria, di ripensare al labirinto del destino e agli intricati giochi delle leggi cosmiche, una mano invisibile ma universale che sulla scacchiera delle possibilità a volte unisce i simili, per dare loro appunto una chance. Se ripenso alle combinazioni, alle sincronie, alle coincidenze, io vedo un volto, un volto preciso, non trasfigurato dalle luci di questa stazione, ma vivo, delineato, stagliato precisamente contro il profilo di questo istante che non passerà mai, come mi avesse preso per mano e condotto fuori dalla mia dimensione; fuori, è luce, una luce calda, forte, sparata in faccia, batte dritta sul muso, un gorgo arancio-azzurrino di cielo e limpide secrezioni alla Francis Bacon si mutilano e roteano in cerchi concentrici, gironi di dannazione accelerata dalle mille scie degli aerei. Ho la vertigine della libertà, i sensi in perenne tensione, non ancora abituato alla consistenza caotica del mondo. E di questo non potrò che essere infinitamente grato a quel volto; non più ultimi uomini, ma stelle popolate di amicizia.
A che cosa avete rinunciato nel vostro titanico sforzo di fare il vuoto ?
Non a molto, ad essere sinceri.
Sapete, o dovreste sapere, che tra pochi anni le figure che vi circondano in questa stazione non saranno altro che un ammasso informe di carne putrefatta carta da necrologio, diventeranno retorica e pietà e compassione di parenti e amici e conoscenti.
Saranno morti. Proprio come tutti gli altri esseri umani di cui non avete visto i volti, ma che sapete essere sparsi tra le poltroncine e gli scomparti dei treni.
Puntini di carne tra loro uniti a riempire il vuoto. Nell’eterna contemplazione della fine, una apocalisse personale reiterata tutti i giorni.
Da qui fino all’eternità.

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