sabato 29 agosto 2009

Wolf Creek


Viene da chiedersi se nell'infanzia del regista Greg McLean vi sia stata una qualche straniante simbiosi tra letture a base di Chatwin e fantasticazioni kurteniane, quel genere di massa critica che ci porta, ballardianamente, a contemplare il vuoto desolato e desertico non con quiete zen ma con ferocia nichilistica.
L'Australia d'altronde è terra di contraddizioni; una landa immensa, solitaria, dal cuore abbandonato, sordido ed abbrutito, con una genesi criminale che rovescia il paradigma di Caino facendone anima della sua poetica istituzionale. Terra dei canti, e del genocidio, di terre depredate, moralismo calvinista, violenza urbana e metaurbana, grandi spazi che rendono il coast-to-coast statunitense una versione scema del weekend a Riccione, ed una bellezza latente, cruda, intessuta di rocce e sterpaglie che prendono caldo sotto un sole di rame.
L'Australia è una versione distopica della frontiera americana, una ebollizione macilenta di canguri e cacciatori spietati, un luogo dove ancora oggi i neonati possono essere sbranati da giganteschi coccodrilli o i surfisti dilaniati da squali, in cui il bifolco di provincia diventa un animale in libera uscita in grado di far impallidire i prima citati coccodrilli e squali - e qui, l'omicidio è on the road per sua fisiologia. Campestre e lacustre, cadaveri lasciati ad essiccare sul margine di strade abbandonate. Viene da chiedersi per quale motivo ci si sia dati tanta briga di asfaltare strade su cui passano, per eccesso, dieci macchine al giorno.
Il killer on the road non ha letto Kerouac, nè Partenze Notturne; non è un fan di Non Aprite quella Porta o di Wrong Turn. Forse ha stima di Le Colline hanno gli Occhi, di cui questo film sembra un figliolo mutante e bastardo, deforme quel tanto che basta ad incutere rispetto.
Diretto magistralmente, ottima fotografia e buone trovate di ripresa, Wolf Creek narra la storia (romanzata e ricontestualizzata) di uno dei più feroci serial killer del paese dei canguri; Ivan Robert Marko Milat, l'assassino dei saccopelisti. Un sadico depravato con la passione per le saccopeliste da sequestrare, violentare e torturare a morte.
In Wolf Creek seguiamo le traversie di viaggio di tre saccopelisti, due ragazze inglesi e un australiano - l'immensità delle pianure australiane ha la meglio della loro macchina, facendoli finire nelle mani di un meccanico che si rivelerà un assassino spietato e allucinante. Per molte parti del film si fa fatica a distinguere l'ambientazione da quella di uno slasher americano, il deserto, gli anfratti, la cavità ancestrale del Wolf Creek sembrano richiamare alla memoria l'ambientazione post-apocalittica di Le Colline hanno gli Occhi - anche la brutalità è notevole, dosata tra momenti di riflessione, angoscia, attesa ed altri di azione splatter che non risparmia alcuni effetti degni di nota. Anche quando l'assassino gioca al gatto col topo con le due ragazze si prova un ansioso sentimento di risentita eccitazione.
Ci sono fughe nella notte, nascondigli, arti troncati e bucati, corpi violati, menti annientate, l'assassino è un cacciatore laido e cinico, un autentico maiale ricalcato sul modello redneck statunitense con cui è impossibile stabilire un qualunque contatto empatico.
Ma ciò che differenzia questo film da molti suoi colleghi splatter basati su idee similari è la parte finale, totalmente e radicalmente diversa da quella dello slasher medio; è una fine che lascia l'amaro in bocca allo spettatore che vuole scorgere epifanie di redenzione, e che proprio per questo è ottima.

venerdì 28 agosto 2009

Roberto Ferri al Complesso del Vittoriano




Ultimi giorni per godere, letteralmente, della splendida "Oltre i sensi", personale del giovane pittore pugliese Roberto Ferri; specialista nella creazione di impianti carnografici e laocoontici di derivazione neoclassica, corpi anatomicamente simili all'opera michelangiolesca, un soffuso utilizzo di stilemi imponenti e angelici con un erotismo languido di contorno.
Inaugurata quando a Roma non rimanevano che piccioni e turisti (sfortunatamente i turisti agostani sembrano interessati giusto a Vaticano e Colosseo, perdendosi more solito le delizie che di tanto in tanto la città sa offrire), la mostra è un viaggio intenso e complesso in una visione di insieme erotica e pura, di grande articolazione sensoriale ed emotiva. La Skira tra l'altro ne ha ricavato un gran bel catalogo.

URINAL




"Sono partito perché mi sentivo un essere che nascondeva dentro di sé una perdita, una scomparsa nella quale si rispecchiava il proprio personale annientamento. Volevo vivere, essere in mezzo agli altri, ma come attraverso un letargo invisibile"

Pier Vittorio Tondelli "Un weekend postmoderno"

Il tuo volto riflesso dai pannelli traslucidi di questo peepshow – un volto scrutato con calma fintamente zen.
Tutto attorno - uomini vuoti che naufragano tra sale e scomparti asettici, dipinti di nero e adombrati di luminescenze verdastre, blu, bianche e da luci rosse intermittenti che sottolineano le performance delle puttane, pardon delle starlette che vari problemi personali e finanziari costringono ad esibirsi in questo fatiscente club.
Non è mai piacevole essere messi davanti alle proprie responsabilità, ma non saresti potuto comunque fuggire. Niente bagagli e biglietto aereo per far perdere le tue tracce lontano da questa città.
Anche se ci hai provato, a più riprese. Lo so.
Ma è inutile.
Perché la condanna te la porti dentro, nella carne nello spirito nel sangue - sballonzolata in una frenesia di globuli rossi, globuli bianchi, piastrine e l’inquietante spettro delle medicazioni e corsie asettiche della clinica che ti ha ospedalizzato per un breve periodo e da cui sei fuggito, per tentare di conservare un briciolo di dignità.
Ziagen, Videx, Epivir, Retrovir, Rescriptor, Viramune, Invirase, Norvir , un mantra farmacologico che annebbia la voglia di continuare a lottare .Ti sdilinquisce in un nulla che si sostanzia, vive e cresce dentro di te .
Sangue nelle feci.
Perdita delle funzioni fisiologiche.
Sarcoma di Kaposi.
Urina infetta.
Giramenti di testa e nausee perenni. E gli attacchi di panico.
Tanti.
Feroci e prolungati, come lastre di ghiaccio conficcate su per il tuo retto, che ti mozzano il fiato, che ti fanno sperare di non farcela, di non superare l’orrore e di rimanere steso sul pavimento, privo di sensi, lo sguardo annebbiato e le urla delle sirene lontane e poi vicine e poi ancora lontane - una fine che sia liberazione dall’inferno in terra che sei chiamato ad affrontare.
Per uno di quei paradossi di cui hai letto durante gli anni d’università , la teoria consunta di corsi e ricorsi storici , tutto finisce esattamente nello stesso punto in cui è cominciato. Solo, con molta sofferenza in più.
Illusioni , piani e progetti, i fantasmi di una rispettabilità sociale mai conseguita, le amicizie, i drammi e le tragedie mutate in farsa, i sogni.
Tutto scomparso.
Evaporato nella penombra claustrofobica di questa fogna.
Che ti ha accolto come un premuroso e confortante utero, una casa di perdizione, la vera madre che ti ha allevato e cresciuto insegnandoti ad essere te stesso, a qualunque costo.
E che adesso ti presenta il conto - decisamente salato.
Un ultimo, disperato tentativo di credere alle parole che ancora ti echeggiano nel cervello, di negare la triste evidenza e poi però devi cedere e comprendere che tutto ciò che riesci a concludere prima che sia notte è star qui a farti succhiare il cazzo da una segretaria d’azienda conosciuta nel gruppo internet che hai fondato e attraverso cui celebri la gaudente bellezza della sieropositività e del rischio sessuale.
Una roulette russa giocata con cazzi e fiche, a cui anche lei vuol partecipare.
Le sue peculiari motivazioni ti sfuggono, si bruciano nell’incomprensione e nel fraintendimento, avresti voglia di fermarti, di non proseguire, di evitare che la sua lingua si fonda con il tuo cazzo e che i vostri umori colino in una densa brodaglia di sperma e saliva e dolore e naturalmente morte. Vorresti dirle di non farlo, vorresti sentire la tua voce modularsi, dopo tanti anni di inganno e autoillusione, nel discorso che qualcuno avrebbe dovuto avere il coraggio di fare a te.
Prima che fosse troppo tardi.
Prima di arrivare a questo punto.
Ovviamente, non dici nulla.
E mentre inculi la donna, stantuffando con rabbia nel suo culo disfatto, rivedi per un istante ciò che sei stato.
Rivedi la tua ricerca, la tua caccia, i tuoi appostamenti nei cunicoli bui e lerci di saune in Tailandia, la spiaggia de L’Havana a Cuba, i bordelli di Amsterdam e di Saigon, la Gara du Nord a Bucarest, un lungo percorso di definizione di una tua propria identità, il salto estremo e finale per superare il grigiore della routine sessuale di gang bang pornografia ammucchiate casalinghe timidi esperimenti omosessuali sadomaso estremo, la noia quotidiana, annientare la solitudine, convivere con la confusione.
La confusione di un senso di appartenenza tradito.
Vieni nel retto della troia - getto copioso di malattia.
Adesso, stai bene. Felice e rilassato.
Anche se sei paonazzo, distrutto, coperto da una patina di sudore. Hai trasmesso una parte del tuo essere a questa maledetta, inutile donna. Era quello che voleva, che aveva accettato come le altre rispondendo al tuo annuncio in quel newsgroup web, ed era quello che volevi anche tu ovviamente. Condividere la solitudine assoluta, dirsi meno soli uccidendosi lentamente.
Non stai neanche a prendere il fazzoletto che ti porge con movenza felina, per pulirti il cazzo incrostato di sperma e rimasugli organici . La vedi andare via, ma prima risistemarsi i collant, le mutandine nere, il reggiseno in un disperato tentativo di riacquistare un contegno civile.
Te ne stai immobile sulla sedia, a contemplare le evoluzioni della spogliarellista dietro il vetro e ti sfugge persino il timido grazie della segretaria, pronunciato nell’atto di scomparire oltre il buio della porta per celebrare il dono di cui l’hai omaggiata.
Ci sei solo tu adesso. Ed è proprio con questa consapevolezza che ti accasci a terra e percepisci, nitidamente, il tuo ultimo respiro e per quanto possa sembrare insensato o stupido il tuo unico rimpianto è l’aver lasciato un corpo così disfatto, uno spettacolo indegno per chi ti troverà dentro la stanzetta.
Ma d’altronde si vive di rimpianti.
E a volte di rimpianti si muore.

giovedì 27 agosto 2009

Cioran & Puttane



Via della Villa di Plinio scompare allo sguardo incuneandosi tra la tenuta presidenziale ed una pineta sempre più erosa dagli incendi estivi, un abborracciato e malmesso percorso di asfalto tutto curve posizionato tra lo slargo del Dazio, gli ultimi stabilimenti e la via Litoranea che da Ostia conduce a Torvajanica fendendo i chilometri di macchia mediterranea e di spiaggia libera.
Il cielo grigio d’inverno è muto spettatore della vita nelle baraccopoli di immigrati, frettolosamente erette nel ventre della pineta e silenziosamente tollerate dalla incuria delle istituzioni, condomini di latta e cartone, stufette a gas, volti neri di miseria che si aggirano spettrali e smunti tra i tronchi caduti dei pini, tra i cespugli, come cercatori dimenticati di una corsa all’oro fuori tempo massimo – sentieri sterrati e camminamenti concentrici che disegnano crop circles di isolazionismo monadico, il luogo ideale per raggiungere l’imperativo interiore dell’annichilimento. Nessun suono, se non quello del frinire dei grilli e qualche raro cinguettio di uccelli, il rumore dei propri passi che impattano sull’erba e sui sassi.
Capita a volte di incontrare qualche raro praticante di jogging, episodici e sfuggenti occhi che si fondono e si scrutano per poi dimenticarsi e scomparire dopo la prima curva; un tempo, le rovine della villa che fu di Plinio erano ritrovo di satanisti ed incauti esoteristi che scambiavano Pan e capri dei boschi per un surrogato recettizio del Principe dei Demoni, sentivi le litanie di notte, il rullare di certi tamburi, flauti, piccole luminescenze ambrate che solleticavano il nero della notte.
A ridosso della pineta, scorre una lingua d’acqua melmosa chiamata Canale dei Pescatori, principalmente perché è usato dai pescatori di Ostia per ormeggiare le loro barche; una notte, io ed altri tre amici che ci eravamo spinti al limitare della boscaglia, mentre gettavamo uno sguardo distratto alla consistenza insondabile dell’acqua vedemmo una processione di barchette in miniatura, su ognuna delle quali svettava una candela, erano decine, centinaia, una colata di fuoco che squarciava l’oscurità. Provenivano dal nulla, da un punto non identificabile, probabilmente erano state delicatamente posizionate sul pelo dell’acqua da una mano esperta, sufficientemente veloce e leggera.
Ormai anche i satanisti però si sono dovuti arrendere; un cappuccio nero e la benedizione di Satana non sono protezione sufficiente quando può capitare di imbattersi in un clandestino albanese o in un Rumeno latitante abbrutiti da anni di permanenza selvatica. Ogni tanto la polizia, quando si degna di intervenire per abbellire la campagna elettorale di qualche politico, rinviene persino cimiteri nascosti nel folto del verde, a due passi dagli agglomerati da favelas; inutile dire le malattie, scabbia, tubercolosi, infezioni di ogni genere, il freddo ed il caldo, l’umidità che imputridisce le pareti di cartone. Non-esistenza all’ennesima potenza.
Ma la Villa di Plinio è famosa soprattutto per le puttane; la sua estensione planimetrica, l’essere fuori mano e circondata dal nulla, l’ha resa per decenni una alcova post-pasoliniana di incontri furtivi tra i rami degli alberi. Non a caso praticanti di jogging e pensatori solitari a volte devono prodursi in uno slalom carnale tra preservativi, bottiglie di plastica e materassi gettati a terra, letteralmente decomposti ma utili per i clienti più avventurosi per consumare amplessi orizzontali.
Ogni tipologia di servizio sessuale con annesso genere ha la sua precisa dislocazione, una topografia del desiderio che nessuna istituzione riesce a combattere o a smantellare; i trans costeggiano con le loro macchine ed i camper l’imbocco della strada, proprio a cento metri scarsi da uno degli ingressi secondari della tenuta del Presidente della Repubblica, zona di erba incolta, alberi caduti e qualche famiglia camperista che si confonde equivocamente ai trans. Carrellata di carne ibrida, tette siliconate, ormoni e testosterone in libera uscita, confusione mentale (di trans e clienti) e cazzi macilenti – anche qui, malattie a profusione.
Di notte si segnalano con lucette tascabili, ed è tutto un vorticare di questi tubetti fluorescenti; non vedi nulla fino a quando non te li trovi davanti, statuari, mitologici quasi nel loro assemblaggio di tette e cazzi e volti semifemminili.
Prima, sulla litoranea o davanti gli stabilimenti, ci sono le slave e le nigeriane, qualche rara cinese, una condivisione territoriale equamente studiata dai racket etnici; macchine di clienti a velocità ridotta avanzano nella notte, tra lo sfarfallare arancio dei lampioni. Immagini la loro solitudine, il loro frettoloso e patetico liberarsi della famiglia e dalla famiglia con qualche scusa, escono di casa col cazzo pulsante dentro le mutande, tante idee necessariamente confuse nel cervello e il cuore in gola, il pensiero della caccia, della scelta, del passare in rassegna le fisionomie delle puttane valgono molto di più dello stereotipato rituale della contrattazione e della scopata in lattice. Uomini che abdicano all’umanitarismo spicciolo della Caritas e dei giornali progressisti, che voltano le spalle alle regole minime della socializzazione consapevole e che sembrano gettarsi nell’ammonimento cioraniano secondo cui "il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo" (Lacrime e Santi, p.66) – le loro solitudini tracimano, collimano, si sfiorano languidamente, avvinte dalla preoccupazione di tastare carne ancora pura, la pia illusione di cavare dal mazzo la carta vincente, la puttana ingenua e silenziosa appena giunta dal suo Paese, appena risvegliata dall’illusione di una vita migliore non da baci di favola ma da stupri e pestaggi variamente assortiti. Protettori spietati, laidi, cinici e sadici; usano la carne femminile come in una via di mezzo (e via crucis) tra bordello e macelleria.
Quarti di carne e buchi per rapidi scaricamenti di palle – alcuni però vogliono instaurare una conversazione, vogliono autoingannarsi, elidere il quoziente di mercificazione e fingere che quella scopata da sedile anteriore sia una estensione logica e necessitata della vita di ogni giorno, una forma avvilente di colloquio in cui due solitudini inespresse emergono e si incontrano per rendersi ancora più sole. Suppongo che molti di loro vorrebbero riscattare le puttane, nemmeno considerarle prostitute ma ragazze sfortunate, troppa televisione per famiglie nelle sinapsi e nei neuroni, troppe sfilate di c’è posta per te, tronisti e lacrime a buon fine – lontani dal "in ogni modo la mia vita da studente è trascorsa sotto il fascino della Puttana, all’ombra della sua degradazione protettrice e calorosa, persino materna" (Cioran, "esercizi di ammirazione", p. 183). Lontani da quel romanticismo weiningeriano della prostituzione, e del bordello.
Qui siamo in territori diversi, radicalmente diversi; ontologia del buco femminile per arrivare alla negazione di se stessi. Per negare i propri fallimenti, le proprie cadute, le discese verticali, togliere di colpo la sofferenza e il dolore che ci si porta dietro nel relazionarsi agli altri. Distruggere la coscienza, nella lordura della prostituzione, abbassare quanto di più sacro crediamo di avere, la calda confortante dignità della famiglia, allontanarsene con confusa convinzione – "la coscienza interviene nei nostri atti solo per turbarne l’esecuzione, la coscienza è una perpetua messa in discussione della vita, è forse la rovina della vita" (Cioran, "esercizi di ammirazione", p. 101).
Vogliono una malattia che sia testimonianza di questa lordura. Chiedono rapporti non protetti, forma evoluta di roulette russa venerea, per riportare a casa uno spicciolo simulacro di trasgressione serale. Idealizzare una donna, la propria madre, la propria fidanzata, la propria moglie, sposata al culmine di un rituale articolato ed emotivamente complesso, per poi insozzarla a posteriori, renderla umana. Troppo umana. Estirparla dalla cornice, sventrarne la tela.
" Quando perfino il vuoto ci appare troppo pesante o troppo impuro, ci precipitiamo verso una nudità di là da ogni forma concepibile di spazio, mentre l’ultimo istante del tempo raggiunge il primo e vi si dissolve" (Cioran, "il funesto demiurgo", p.103).
Uomini che vogliono la carne. La consistenza di mani umidicce di sperma e sudore. Odori e afrori baccanaleschi, la sofferenza di lacrime che devono ancora essere piante, profumi dozzinali, abiti scosciati. Si ingannano. Perdono tutto. Soli con l’universo, e la sua pastosa consistenza, vivendo sotto la beatitudine di un masso.
Un atto di voracità, di rapacità…la moglie che a casa si strugge nel dubbio, domande senza risposta, persino quando il marito torna a casa avendo su di sé l’odore chiaro e manifesto di un’altra donna, cercare di considerare quel tradimento un non-tradimento, una mera scappatella, un capriccio, un inconsistente incidente di percorso. Quando i loro umori si mescolano e si fondono nella malattia condivisa – sicuramente l’AIDS, l’herpes, la candida, siamo ridotti ad un virus, alla non-esistenza elevata a discorso di cazzo e fica.
Voglio più figli innocenti da piangere. Più miserabili prostitute illuse, ingannate e rinvenute nel greto di un torrente, acqua verdastra e fangosa del canale; genitori tardivamente estasiati, in aula di processo, chiamati a rievocare le mirabolanti bellezze delle loro figlie rinvenute cadavere, quando fino al giorno prima non sapevano nemmeno che fine avessero fatto. E probabilmente erano stati proprio loro a causarne il definitivo allontanamento da casa, tra abusi, violenze domestiche e alcolismo molesto.
Parlano di luce e blaterano di candidi sentimenti new age, vendibili facilmente a giornali scandalistici che indulgendo al più bieco sentimentalismo venderanno quelle lacrime, in un circuito di prostituzione totale e circolare.
"Non voglio più collaborare con la luce né adoperare il gergo della vita!" (Cioran, "Sommario di decomposizione", p. 122) – dovrebbero tenerlo a mente, quando seduti sullo scranno dei testimoni e sottoposti al fuoco di fila di domande di accusa, difesa e giudice si sciolgono in un pianto dirotto che non sai mai da cosa sia determinato. Da promesse non eque, dalla vergogna di una figlia puttana ed uccisa, sbandierata ai quattro venti come paradigma di una ricca vita, quindi compiangendo se stessi, oppure per un qualche esoterico retaggio di dolore parentale fuori tempo massimo.
Dovrebbero tenerlo a mente ogni volta che si autoingannano parlando di bontà e di ricordi fiabeschi, memorie totalmente false e consolatorie.
Dovrebbero, semplicemente, tenerlo a mente. Sempre.