lunedì 20 luglio 2009

Bizarre Uproar - Liha-Evankeliumi


Non lo capiscono fino a quando non si trovano davanti al coltello che scende sui seni, lentamente, in modo sinuoso e preciso - l'aria rarefatta dentro una cantina dalle pareti scrostate, il dolore agonizzante del petto che sballonzola una muta richiesta di pietà.
Non sanno quello che le attende, un party privato di estetica crudeltà misogina e di ferite che difficilmente si rimarginano; purulente ebollizioni scariche disumane come escrementi di cane spiattellati sulle pareti della stanza, un corpo nudo ferito sanguinante aperte le cicatrici riaperte dopo la suppurazione, feedback, larsen, cortocircuitazioni delle corde vocali elettroniche l'urlo infinito della sofferenza nel cuore dell'abisso.
Tre cd, re-release di un fetido ammasso di power electronics junkie e deviante, 14 canzoni per il primo cd, 14 per il secondo, 16 per il terzo, tutte innominate come giustamente si conviene all'atrocità aurale proposta. Non cercate di capire, non cadete nel loro stesso errore - l'errore muta in terrore, in coltelli seghettati e dalle lame scrostate sporche di sangue raggrumato croste nerastre ampiamente putrefatte.
Fetore.
Carne marcia.
Piscio.
Vomito.
I video privati della collezione di Jamie Gillis. Kelly Stafford che ingoia l'urina di Rocco in una camera di albergo a Parigi - rudi gang bang da sottoscala di motel. GGG allo stadio terminale, dove tutto è a pagamento a parte l'AIDS.
L'universo di Bizarre Uproar.

Oltre lo specchio - analisi di un tabù





Uno dei principali tabù culturali della società contemporanea è senza ombra di dubbio la pedofilia - sono estremamente rare le analisi lucide, non gridate nè sensazionalistiche che affrontino questo delicato e scottante argomento. Eppure la prima, grande sorpresa emerge dal termine stesso, dato che una definizione univoca della pedofilia non esiste.
Aldilà delle questioni meramente nominali, un autorevole studioso, Cosimo Schinaia, tra i primi in Italia ad aver approntato una task-force di studiosi, analisti, psicoterapeuti dedicatisi alla analisi e al trattamento di pedofili, ha messo brillantemente in luce come non sia corretto parlare di pedofilia al singolare, ma di come il termine debba essere declinato al plurale.
Pedofilie.
Per lungo tempo tanto la psichiatria quanto la criminologia indulgendo in una sorta di curiosa pruderie (frutto di un equivoco freudiano; quello del bambino perverso polimorfo) hanno evitato qualunque studio serio ed organico, riprendendo il tema pedofilico come surrogato della sodomia. Non solo, ma sempre Freud in due suoi testi decisamente controversi (“Dostoevskji e il Parricidio” e soprattutto “Introduzione al Narcisismo”), e dopo aver fondamentalmente rinnegato la sua originaria impostazione, vede nella accusa di pedofilia un costrutto narcisistico del bambino stesso – questo ha portato gli psichiatri freudiani a sottovalutare in modo enorme la portata del tema o a relegarla al rango di pederastia come sinonimo strutturale del rapporto omosessuale.
In realtà la pederastia classico-ellenica era propriamente quel che noi intendiamo per pedofilia, relazione minore-adulto con tentativo di iniziazione sessuale e culturale (la paidika socratica…ma non solo, basta considerare che il diritto penale ateniese arrivava a considerare lo stesso fenomeno o estremamente formativo oppure estremamente dannoso, la discriminante risiedendo nella condizione di insegnante/pedagogo dell’adulto, cfr. Cantarella “Secondo Natura”), e si trattava eminentemente di pedofilia omosessuale la qual cosa ha fatto scivolare il termine pederastia verso l’omosessualità tout court.
Il “problema” freudiano si è riverberato nella trattatistica psichiatrica, basti pensare che su decine e decine di trattati, manuali, opere monografiche sulle parafilie il termine pedofilia compare solo in tre casi.
Ma lo stesso Krafft-Ebing, a cui Freud si era ispirato per le parti di sessuologia, aveva derubricato la pedofilia, visto che riteneva esservi perversioni ben peggiori come la necrofilia. Questo ha comportato un ritardo mostruoso nell’approccio al tema/problema.
Ad ogni modo per tornare all’assunto di Schinaia, condiviso da molti terapeuti (basta leggere i saggi che compongono il volume “Pedofilia – stato dell’arte sulle perversioni pedosessuali” a cura di Marco Casonato), la declinazione del termine deve essere necessariamente al plurale; perché non esiste una sola pedofilia, ma una molteplicità.
La prima distinzione operata in criminologia è tra pedofilia tout court e perversione pedofila (quella sconfinante nell’abuso) ; tecnicamente la pedofilia (la cui etimologia significa “amore per i bambini”) non implica l’atto sessuale, il quale può essere sublimato dalla mente del pedofilo senza alcuna traccia di contatto.
La perversione pedofila invece, nelle sue varianti (semplice, sadica, omicida), sfocia necessariamente nell’abuso e nei comportamenti criminali di cui leggiamo.
Da cosa nasce la mente pedofila? Fondamentalmente non necessariamente, come sentiamo dire, da abusi ricevuti nell’infanzia – a livello definitorio si tratta di una cristallizzazione narcisistica che fa regredire la mente allo stadio infantile, per cui ci si può relazionare soltanto asimmetricamente con chi è meno formato e strutturato. Più infantile-narcisistico sarà il pedofilo, più piccolo sarà l’oggetto del suo desiderio; tuttavia questo non implica che ci debba essere un relazionarsi sessualmente orientato.
Per lungo tempo la relazione non sessuale (ma che oggi comunque riterremmo morbosa) tra adulto e minore/bambino è stata tollerata e vista come elemento necessitato in alcuni circoli - il caso più eclatante è certamente quello di Lewis Carroll, il matematico autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, riconosciuto estimatore di nudi di bambine che in molti casi realizzava egli stesso. La sua modella preferita, Alice Liddell, contribuirà a dare il titolo all’opera letteraria per cui oggi Carroll è maggiormente conosciuto.
Ma l’intera storia della fotografia è costellata di casi simili, anzi si potrebbe dire che la genesi della fotografia si accompagna alla pedofilia, penso ai casi di Oscar Gustave Rejlander, considerato il padre della moderna fotografia, e di Julia Margaret Cameron.
Nessuno dei tre citati ha mai avuto rapporti di abuso/sessuali con i minori utilizzati come soggetti per le loro foto.
Ma anche in letteratura le cose non stavano poi in modo tanto diverso se si considera che il protagonista di Morte a Venezia, Aschenbach, è un pedofilo raffinato ed estetizzante, Stavroghin il protagonista de I Demoni di Dostoevskji è un assassino sadico che confessa con piacere l’omicidio di un ragazzino, ovviamente l’Humbert Humbert nabokovoviano, senza contare nelle arti figurative Hans Bellmer, Balthus (fratello di Pierre Klossowski) – ma da quando, quindi la pedofilia diventa un panico sociale ?
La criminalizzazione di massa della relazione adulto-minore prende avvio negli anni trenta, sulla scia di alcuni fraintendimenti psicanalitici (Kraepelin teorizza ad esempio che il pedofilo sia uno psicotico grave…la psicosi comporta e porta ad atti di violenza quasi meccanici, da qui ne consegue che la pedofilia è considerata sempre foriera di violenza) e soprattutto dalla emersione prepotente della riconsiderazione critica del passato, frutto in una certa misura del pensiero della crisi (lo stesso Freud ne “Il Disagio della Civiltà” si lascia andare a considerazioni contraddittorie rispetto alla sua precedente produzione.
Del 1932 uno studio sulla “pedofilia vittoriana” in cui i fotografi che ho citato prima vengono dipinti per la prima volta come “mostri”.
Il “mostro pedofilo” inizia a diventare un paradigma di un più esteso panico sociale – i regimi totalitari, sul versante criminologico, ritenendo il delitto una estrinsecazione borghese ( e quelli a fine di piacere peggio ancora…) abdicheranno allo studio del fenomeno, tanto che il Terzo Reich metterà al bando alcuni testi (anche perché redatti da psichiatri ebrei, come Der Sadist di Berg, sul Mostro di Dusseldorf e Storia di un Lupo Mannaro di Lessing).
Ma a dire il vero le sedicenti democrazie non andranno tanto più in là se si considera che il rapporto Kinsey sulla sessualità negli USA si guardò bene dal prendere in considerazione la pederastia…
Ad un certo punto poi nasce una ulteriore distorsione; la pedofilia diventa funzionale al mantenimento dello status quo.
Diventa “normalizzazione” in senso foucaultiano; si crea il mito negativo, questo mito genera panico e terrore, la proba cittadinanza ne sarà giustamente spaventata e chiederà aiuto allo Status Quo.
Lo stesso Foucault non a caso è ritenuto, a torto o a ragione, il primo organico teorico dell’orgoglio pedofilo (anche se la espressione è eccessiva e decisamente fuorviante), prevalentemente nei suoi saggi sulla storia della sessualità ma soprattutto in La Loi de la Pudeur, pubblicato in Recherces nel 1979, laddove il filosofo francese ricostruisce un caso giudiziario in cui un contadino avrebbe “carezzato” una ragazzina e da cui nacque un infamante processo giudiziario.
Curioso notare come si dica spesso che la pedofilia è un fenomeno in allarmante crescita quando invece gli studiosi del settore devono ammettere candidamente che non c’è nessun aumento, ma al massimo è aumentata la percezione che abbiamo della incombenza pedofila (Miller “Il bambino inascoltato”) nella società contemporanea.
Il crimine pedofilo in realtà non è né in aumento né in diminuzione ma: innanzitutto è metodologicamente scorretto considerare la pedofilia solamente come un “crimine” nel senso giuridico del termine.
Perché questo postulerebbe un approccio soltanto tecnico-repressivo del tutto inutile – visto che il pedofilo non ha alcuna cognizione del commettere un crimine dal punto di vista sociale, può avere rimorsi dovuti alla criminalizzazione e alla percezione di fare qualcosa di “ingiusto” ma in una ottica di formazione relazionale.
Il pedofilo deve essere eventualmente seguito, trattato, non abbandonato e soprattutto non destinato alla morte sociale; la morte sociale implica che il pedofilo estremizzi il suo vissuto e si spinga alla commissione di atti delittuosi spesso omicidiari.
Quello che è davvero in aumento è il numero delle campagne sensazionalistiche che “vendono” la pedofilia come enorme industria internazionale. in Italia il primo tentativo di seguire questa strada si ha nel 1998 con il libro I Santi Innocenti di Claudio Camarca – scrittura emozionale, orrorifica e non tecnica che mira a presentare il “mostro” e a sbatterlo in prima pagina. Questi libri non vogliono informare ma solleticare gli istinti repressivi più bassi; non a caso la pedofilia in questi libri è sempre presentata a braccetto con altri due enormi tabù, il satanismo e il nazionalsocialismo.
La legislazione italiana non aiuta, anzi; sembra redatta sull’onda del sensazionalismo emotivo.
La legge 269/1998, che è la normativa quadro in tema di sfruttamento sessuale di minori e detenzione di materiale pedopornografico, commina sanzioni draconiane senza nemmeno peritarsi a definire i termini pornografia e pedofilia, tanto che come fu messo in luce in vari convegni la sua applicazione letterale potrebbe portare in galera persino un genitore che conservi sul pc le foto del bimbo a cui ha fatto il bagnetto…ma il legislatore si è spinto oltre; il 25 gennaio del 2006 ha fatto un addendum normativo all’art. 600-quater del codice penale, stabilendo il terrificante reato di detenzione di immagini di pedopornografia “virtuale”; l’articolo è una gemma di ipocrisia giuridica, visto che non punisce la detenzione di foto o di materiali reali, ma soltanto di immagini disegnate, in morphing e comunque finte...alla stregua di questa norma, chi ha un Balthus nella sua collezione pittorica o un libro di disegni di Bellmer sarebbe passibile di incriminazione.

The hunt for Britain's paedophiles



Nel suo saggio “Metafora dell’Occhio”, interamente dedicato a “Storia dell’Occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes si chiedeva “Storia dell’occhio è veramente la storia di un oggetto. Come può un oggetto avere una storia?” – quarant’anni e molte paranoie dopo, i legislatori di mezzo mondo sembrano aver raggiunto una risposta soddisfacente al quesito pur focalizzando la loro attenzione sull’ambito criminologico della lotta alla pedopornografia e non su quello della semiotica e della critica letteraria.
Per Barthes un oggetto poteva avere una sua specifica storia per via delle trasmigrazioni di senso e di esperienza, passando di mano in mano si autoreplicava immutato nella sostanza ma accumulando l’immagine di ciò che lo circonda; per i Governi che, spinti dal panico sociale, decidono di dedicare un po’ del loro prezioso tempo ad infliggere sanzioni draconiane a pedofili veri e/o presunti, la pedopornografia opera più o meno come l’occhio analizzato da Barthes.
Un video, un singolo frame, una fotografia, nel momento in cui sono realizzati e immessi nella rete web diventano qualcosa di altro rispetto alla loro matrice pur rimanendo strutturalmente immutati; in questa prospettiva quindi la creazione, la detenzione, la compravendita devono essere puniti in maniera esemplare (alla Foucault) ma più di ogni altra cosa deve essere sanzionata la circolazione. Perché è proprio la circolazione che vampirizza l’energia esistenziale del minore ripreso e gli infligge nuove ferite, nuovo dolore, nuova sofferenza – un passo non troppo breve separa la semiotica barthesiana dalla ratio delle leggi antipedofilia, ma a questo siamo arrivati.
E se i legislatori, avvinti come sono dal soggiacere supini e proni ai capricci della plebe scatenata, non vanno troppo per il sottile quando si tratta di analisi di fenomeni complessi, articolati e spinosi, figuriamoci i giornalisti; avvezzi da sempre a pasteggiare coi residui ancestrali delle paure popolari e a vendere fobie e mostri, alcune volte creati ad hoc, ci propongono e propinano una vasta sequenza di determinismo d’accatto, cospirazioni globali, orrori insondabili cinici e laidi mostrati in ogni (patologico e sordido) dettaglio, titillano le corde della rabbia e della esasperazione, reificano il dolore e lo strazio e li rendono lussuriosi momenti pornografici devoluti alla soddisfazione dei capricci plebei.
Il pane governa la massa, il pane e i giochi circensi; ma al posto dell’anfiteatro Flavio, la scatola catodica ingolfata di vigilantes che, prendendo il posto dei gladiatori, cacciano senza sosta e senza tregua i pedofili e i mostri.
E’ così che Bob Long, un produttore televisivo inglese, colto da improvvisa epifania all’inizio del nuovo millennio, ha deciso di realizzare un affresco sulla pedofilia britannica; uno spaccato infernale e laido di congreghe di pedofili decisi a rovinare più infanzie possibili per loro puro diletto, dal significativo e sensazionalistico titolo di THE HUNT FOR BRITAIN’S PAEDOPHILES.
Long ritiene che sia internet a creare pedofili; spiega la sua scarna ed essenziale filosofia al Times, dicendo che un ragazzo inizia generalmente guardando normale pornografia eterosessuale, poi annoiato ed assuefatto passa a scenari più truculenti, video con animali, con escrementi, stupri e sadomaso estremo. Per poi terminare la sua maratona afrodisiaca in un tripudio di pedofilia. Si tratta della estrema semplificazione di una teoria, quella dei “kicks”, che già presta il fianco a molte critiche di suo visto che postula l’incidenza del fattore stimolante sulla formazione dei gusti e della personalità.
Uno dei più autorevoli sostenitori di questa tesi, Ray Wyre, è un criminologo estremamente controverso, accusato di aver creato egli stesso falsi pedofili per fini di promozione commerciale – di certo c’è che la sua metodologia operativa è discutibile.
Long, come Wyre, mutua le sue massime dalle dichiarazioni rilasciate dagli stessi pedofili (a loro o alla polizia); uno dei pedofili intervistati nel documentario è un ventinovenne di belle speranze con una “normale” vita sociale e affettiva, che una volta arrestato “ammette” di essere diventato pedofilo a causa della prolungata esposizione alla pornografia su internet. Non è facile dire se Long creda davvero a queste idiozie o se al contrario ci creda per mere ragioni di cassetta; ma è facile controbattere a queste asserzioni che un arrestato, soprattutto quando parliamo di crimini infamanti come la pedofilia i quali crimini generalmente determinano demonizzazione e morte sociale del reo (o del semplice accusato…), cerca giustificazioni e vie di uscita. Ted Bundy, pur di sfuggire alla pena di morte, inventò varie versioni delle cause scatenanti dei suoi crimini, dall’infanzia malandata alle delusioni d’amore, dalla pornografia estrema all’alcolismo – ammettendo che una di quelle cause fosse vera (ma restano dubbi estremamente ampi), le altre erano delle mere balle addotte come scusa.
Dire che la colpa della propria indole sessuale deviata è di internet rappresenta la via più facile per lavarsi la coscienza e scaricare le proprie responsabilità. Anche perché sia il pedofilo sia Long sono costretti ad una palese menzogna e cioè ad affermare che il fatto di reperire pedofilia su internet sia facile; chiunque abbia un minimo di familiarità col web sa perfettamente che reperire materiali pedopornografici non è facile per niente e che, soprattutto, solo in rarissimi casi, si finisce per visitare siti pedofili per puro caso. Molto spesso questi siti sono occultati tra le pieghe invisibili della rete, protetti da sistemi elaborati di crittografia e da password sofisticate – è evidente che l’esposizione di una persona alla pedofilia su internet è blanda, ai limiti dell’inesistente. Quindi su certi siti ci si va con piena pienissima cognizione di causa.
Ma il piatto forte del documentario, la sua impalcatura potremmo dire, è il seguire passo passo le vicende di Operation Doorknock, una gigantesca operazione antipedofila che ha condotto all’arresto di centinaia di (presunti) pedofili e alla disarticolazione di un network che, parole della polizia, ha operato per “30 anni, abusando di migliaia di ragazzini e di ragazzine”. Un network simile somiglia più a qualche internazionale paramassonica o agli Illuminati di Baviera che non ad una realtà effettiva, ma si sa il senso del ridicolo e delle proporzioni quando si parla di pedofilia spesso va a farsi benedire.
Un altro piatto forte dei sensazionalisti è ovviamente la duplicità della natura del pedofilo – in apparenza una persona ragionevole, intelligente, affabile, di buone maniere, ma in realtà un mostro privo di scrupoli e di rara crudeltà.
Più o meno è così che ci viene “venduto” Mark Hanson, un quarantunenne presentato letteralmente come “nice guy” – gli intervistatori fingono di non sapere, o vogliono farci credere di non sapere, di quali crimini si è reso responsabile. Solo così d’altronde possono venderci il “colpo di scena”, emozionalmente intrigante per le casalinghe meno evolute, di giustapporre il “nice guy” alle foto che vengono sequestrate a casa sua e che lo vedono intento a stuprare ragazzini di sei anni.
Sarebbe stato più onesto e ligio ai fatti presentarlo per quello che era in effetti, senza prima doverlo santificare e poi insozzare; ma il contrasto, ovviamente, ha il suo perché in termini di audience.
Per non farsi mancare nulla, i documentaristi ci informano che Hanson poco dopo l’intervista, dovendo fronteggiare la prospettiva dell’ennesima lunga detenzione, si è tolto la vita – altro giochetto iper-emozionale, visto che lo shock e il dispiacere iniziale è mitigato da un “pellegrinaggio” in compagnia di un poliziotto sui luoghi utilizzati da Hanson per violentare le sue giovanissime vittime. Davanti a tanto conradiano cuore di tenebra, ogni genere di empatia e di umana pietà vanno a farsi benedire e la troupe può tirare un sospiro di sollievo perché un ennesimo mostro ha smesso di rappresentare un pericolo per i ragazzini.
Una curiosa contraddizione per chi dice a parole di essere così attento alla santità della vita umana.
Naturalmente visto che non ci si potrebbe accontentare di mostrare singoli pedofili slegati gli uni dagli altri, è decisamente preferibile accodarsi alle storie di mostruose internazionali organizzate e dedite al turpe mercimonio delle carni infantili; addirittura viene mostrato il booklet autoprodotto di una sorta di Fight Club pedofilo, in cui l’abuso viene descritto eufemisticamente come “the hobby”, con tanto di decalogo e regole comportamentali.
Dal punto di vista tecnico, si tratta di un solido docudrama; niente colonna sonora, né voce fuori campo, si segue l’operato di una task force anti-pedofila composta da quindici poliziotti e sei tra psichiatri e criminologi civili, la troupe si limita a porre le domande ai pedofili e ai loro “cacciatori” e a qualche episodio di turismo dei sentimenti come quello sopra descritto. Due anni di riprese, ventimila ore di girato, tanto dolore.
E tantissimo sensazionalismo.

lunedì 6 luglio 2009

La bellezza mutilata





Viviamo nell'epoca delle pari opportunità - quindi potrebbe stupire l'indignazione che ha circondato la nascita e lo svolgimento del concorso di bellezza per ragazze mutilate (specificamente a causa dello scoppio di mine antiuomo). Ma poi viene da pensare che si tratta pure dell'epoca del politicamente corretto, nel cui nome il menomato dovrebbe/potrebbe solo essere compianto tra strali di affettuosa carineria e smielata partecipazione emotiva catodicamente riaggiornata, sarebbe invece sconveniente supporre che possa decidere di partecipare (senza coartazione psicologica) ad un contest di bellezza.
La donna mutilata è bella ? Per molti la risposta non solo è rigorosamente affermativa, ma addiritura limitativa visto che la mutilazione e le amputazioni rappresenterebbero un bonus assoluto; negli anni settanta la rubrica della posta di Penthouse riceveva abbastanza regolarmente delle lettere con cui alcuni lettori chiedevano la pubblicazione di foto di ragazze mutilate nude. E sempre in quegli anni agiva ed operava la pornostarlette Long Jeanne Silver, la cui principale caratteristica come lascia intuire il nomignolo d'arte era una gamba in meno...il suo turgido moncherino dalla consistenza metasessuale finiva poi bizzarramente e inesorabilmente per incunearsi negli orifizi femminili a disposizione.
Uno scrittore di fantascienza USA, ritenuto da molti il vero ed unico erede di P K Dick, l'ottimo K W Jeter, scrisse negli anni settanta un bizzarro e violento romanzo, Dr Adder, in cui un pornochirurgo pre-ballardiano riassembla la morfologia delle prostitute indulgendo in mutilazioni sessualmente orientate.
Potremmo dire che la bellezza per sottrazione risponde a stimoli ulteriori rispetto al mero freak show; in fondo un pò tutti amiamo le fotografie di Diane Arbus, ma pochi trovano poi eccitanti ed intriganti i soggetti di quelle foto desiderando addirittura del sesso...
Ultimamente la pornografia sta virando ex novo su coordinate di mutilazione, amputazione e deformità varie - un tale di colore usa il suo moncherino esattamente come 30 anni prima faceva la moretta Long Jeanne, su Youtube sono visionabili video come Miss Amputee Beauty Contest e Weird Pin Ups, quindi per quale motivo ci si dovrebbe indignare per la creazione (ad opera di un gruppo norvegese) del contest Miss Landmine che nel 2009 è di scena in Cambogia?
Ovvio, l'accusa di strumentalizzazione per fini commerciali è palese e scoperta; ma tutto sommato, e aldilà del punto di vista dei pervertiti, c'è da dire che un futuro a base di becera compassione, carezzine da ritardati e coccole mielose non è poi tanto preferibile per queste ragazze...

sabato 4 luglio 2009

La città degli Angeli Perduti











(Scatti fotografici di Alfredo Falvo, da "Lost Angels")


L’uomo è in ginocchio sull’asfalto, mentre sotto di lui una macchia di liquido rosso va allargandosi come un piccolo torrente nella stagione delle inondazioni - alle sue spalle un poliziotto che vediamo soltanto dalla cintola in giù, il manganello legato in vita, una radio nella mano guantata, probabilmente ha il busto voltato verso la strada nell’approssimativo tentativo di allontanare i (pochi) curiosi.
Il soggetto dello scatto fotografico è un ispanico coi capelli arruffati, l’espressione stranita e un polmone perforato, uno squarcio longitudinale aperto sul petto da un colpo secco di coltello – la lama è penetrata in profondità ed ecco quel che ci rimane, un immigrato-cristo deposto in evidente stato di shock, il suo sguardo vacuo, perso, sinuosamente languido supera perfino la sofferenza che un simile taglio provoca, supera di un balzo ,fino ad innalzarsi sopra le vette della vita, tutto il grigiore catramato dello Skid Row.
Niente rock n roll nel nome – un quartiere dormitorio di planimetria scombussolata, nel ventre addormentato del serpente che va sotto il nome di Los Angeles, la città degli Angeli. Ma qui gli angeli hanno nella migliore delle ipotesi le braccia tatuate e bucate dagli aghi, costipazione tossica e tanfo di decomposizione, zombies pregni di una non-morte capitalisticamente accettata, invisibili persino alla dimensione della carità; ex veterani del Vietnam convenientemente abbandonati a loro stessi nel nome di Chuck Norris e Rambo, la revanche in celluloide dell’unica guerra persa – non sta bene rammentare con la propria presenza fisica il senso della sconfitta, per questo i reduci fatti di crack e di eroina, con addosso tatuaggi dozzinali, pustole, pidocchi e le giacche con cui hanno combattuto decenni prima, sballonzolano vagolano e vagabondano tra sacchi della spazzatura, campi da basket, ruderi abitativi e falò.
L’architettura è un residuo politicamente avariato di 1997 Fuga da New York, assembramenti cancerosi di edilizia popolare ed alberghi un tempo rinomati ed oggi ridotti ad ostelli per barboni e falliti – il Million Dollar Hotel, quello del film di Wenders/Bono, l’apoteosi della ipocrisia americana, pigione anticipata per l’intero mese, i nomadi non hanno soldi per 30 giorni così si riducono a pernottare per due settimane e poi le due settimane successive si riversano come scarafaggi per le strade o nelle aule fatiscenti dei centri per la carità, che di tanto in tanto si degnano di aprire i battenti.
Lo Skid Row è un campo di concentramento in cui tubercolosi e AIDS fanno il lavoro sporco, eliminando i più deboli, i più malnutriti, i più malati – scene di desolazione senza precedenti, un grattacielo crollato aperto in due come una grotta dentro cui vengono “ospitati” centinaia di barboni, stesi su brandine. Una sorta di ospedale da campo tra lucori arancioni di lampioni e neon morenti, carne umana che va frollandosi nel caldo losangelino mentre attorno lontani ma non troppo i ricchi si arroccano in assetto di autodifesa sulle colline dorate.
Ma questo non è un incubo lynchano, non sono le carpenteriane brigate della morte, lo Skid Row è un ghetto purulento dentro cui fermentano odori, umori, sapori, e il lezzo acre della sconfitta esistenziale.
Puttane senza denti vendono la loro fica malata, mentre un prete regala due dollari ai barboni in fila, file vorticose e composte come quelle per andare a vedere le partite dei Lakers o i funerali di Michael Jackson ma senza paillettes e lustrini– questa gente è morta, innegabilmente. Non importa il fatto che si muovano, che brancolino nel buio, che si disperino, che piangano, che maledicano il cielo cremisi al tramonto agitando i pugni scarnificati da coltellate e dalla denutrizione, sono morti che camminano, mandati avanti dalla mera fisiologia del capitalismo multinazionale.
Bush e Obama qui più che nomi sono semplicemente echi lontani, esotici, il clamore e le esultanze per il primo presidente di colore non hanno mai attecchito perché i fighetti che un tempo chiedevano la liberazione di Nelson Mandela ed oggi si compiacciono per l’elezione di Obama non osano mettere piede nello Skid Row – d’altronde la stessa polizia ha le sue difficoltà, e quando interviene lo fa in forze e col pugno di ferro. Il tasso di omicidi è altissimo, e si può essere ammazzati persino per i resti di un cheeseburger rinvenuti tra la spazzatura, ogni tanto il silenzio è interrotto dalle sirene delle ambulanze, qualche ferito, qualche collassato, qualche tossico in overdose, un matto corvo nero di eco artaudiana urlacchia le sue insopportabili verità gridandole in faccia al mondo – uno scatto impressionante di un tale che viene portato via schiumante in overdose dalla sua stanza dentro il Million Dollar Hotel, alla faccia di Bono e delle campagne stellari pro-Terzo Mondo.
Rockstar troppo impegnate a salvare il terzo mondo, si sono dimenticate che una appendice della miseria universale se la ritrovano sotto casa – questi uomini annientati, cioraniani inni distrutti alla deriva nel nero della notte, maledicono la loro condizione di cittadini americani, d’altronde chi mai crederebbe alla esistenza di questo piccolo inferno che ricorda Calcutta, Rio o le città peggio messe dell’Africa proprio a pochi chilometri da Malibu e da Hollywood ?
Si produce compassione su scala industriale per un etiope, per un senegalese, ma non certo per un americano – lo stesso Governo centrale americano preferirebbe farsi annientare piuttosto che ammettere il dramma senza fine e senza tempo che gli abitanti dello Skid Row sono chiamati a sperimentare sulla loro pelle scabbiosa.
Qui non entrano i turisti, i curiosi, gli approfondimenti di MTV, i Beach Boys e le epopee hippies sono disperse lungo eoni mai materializzati; un ecosistema sotto-urbano di lumpenproletariat finito, i rammendi, la tristezza, le crisi depressive che portano al suicidio tragico e cantato, voli post-pindarici dall’ultimo piano verso la liberazione del contatto con l’asfalto, poltiglie macilente di intestini srotolati mentre attorno vorticano gli zombies alla ricerca di un graal tossico.
Case del crack e scantinati per vene recise, probabilmente molti degli abitanti che la sera si riscaldano davanti abborracciate palizzate e falò cupibondi non sanno nemmeno come sia fatto il sole, escono solo di notte per bearsi dell’utero amorevole e nero della tenebra, per sfuggire ai lampeggianti blu e persino a coloro i quali dicono, a parole, di voler aiutare. Qui non esiste dignità che una certa quantità di denaro non possa infrangere, scalino più basso della gerarchia della prostituzione, volti rugosi, braccia incartapecorite, indumenti dozzinali e sporchi, nessuna sensualità, scopate vendute per barboni e clienti tagliati fuori dal circuito della prostituzione che conta.
Disneyland-Dachau sola andata – i liberatori si sono persi per strada questa volta, il loro paradiso evidentemente può attendere.Gli abitanti dello Skid Row, loro no.