lunedì 20 luglio 2009

The hunt for Britain's paedophiles



Nel suo saggio “Metafora dell’Occhio”, interamente dedicato a “Storia dell’Occhio” di Georges Bataille, Roland Barthes si chiedeva “Storia dell’occhio è veramente la storia di un oggetto. Come può un oggetto avere una storia?” – quarant’anni e molte paranoie dopo, i legislatori di mezzo mondo sembrano aver raggiunto una risposta soddisfacente al quesito pur focalizzando la loro attenzione sull’ambito criminologico della lotta alla pedopornografia e non su quello della semiotica e della critica letteraria.
Per Barthes un oggetto poteva avere una sua specifica storia per via delle trasmigrazioni di senso e di esperienza, passando di mano in mano si autoreplicava immutato nella sostanza ma accumulando l’immagine di ciò che lo circonda; per i Governi che, spinti dal panico sociale, decidono di dedicare un po’ del loro prezioso tempo ad infliggere sanzioni draconiane a pedofili veri e/o presunti, la pedopornografia opera più o meno come l’occhio analizzato da Barthes.
Un video, un singolo frame, una fotografia, nel momento in cui sono realizzati e immessi nella rete web diventano qualcosa di altro rispetto alla loro matrice pur rimanendo strutturalmente immutati; in questa prospettiva quindi la creazione, la detenzione, la compravendita devono essere puniti in maniera esemplare (alla Foucault) ma più di ogni altra cosa deve essere sanzionata la circolazione. Perché è proprio la circolazione che vampirizza l’energia esistenziale del minore ripreso e gli infligge nuove ferite, nuovo dolore, nuova sofferenza – un passo non troppo breve separa la semiotica barthesiana dalla ratio delle leggi antipedofilia, ma a questo siamo arrivati.
E se i legislatori, avvinti come sono dal soggiacere supini e proni ai capricci della plebe scatenata, non vanno troppo per il sottile quando si tratta di analisi di fenomeni complessi, articolati e spinosi, figuriamoci i giornalisti; avvezzi da sempre a pasteggiare coi residui ancestrali delle paure popolari e a vendere fobie e mostri, alcune volte creati ad hoc, ci propongono e propinano una vasta sequenza di determinismo d’accatto, cospirazioni globali, orrori insondabili cinici e laidi mostrati in ogni (patologico e sordido) dettaglio, titillano le corde della rabbia e della esasperazione, reificano il dolore e lo strazio e li rendono lussuriosi momenti pornografici devoluti alla soddisfazione dei capricci plebei.
Il pane governa la massa, il pane e i giochi circensi; ma al posto dell’anfiteatro Flavio, la scatola catodica ingolfata di vigilantes che, prendendo il posto dei gladiatori, cacciano senza sosta e senza tregua i pedofili e i mostri.
E’ così che Bob Long, un produttore televisivo inglese, colto da improvvisa epifania all’inizio del nuovo millennio, ha deciso di realizzare un affresco sulla pedofilia britannica; uno spaccato infernale e laido di congreghe di pedofili decisi a rovinare più infanzie possibili per loro puro diletto, dal significativo e sensazionalistico titolo di THE HUNT FOR BRITAIN’S PAEDOPHILES.
Long ritiene che sia internet a creare pedofili; spiega la sua scarna ed essenziale filosofia al Times, dicendo che un ragazzo inizia generalmente guardando normale pornografia eterosessuale, poi annoiato ed assuefatto passa a scenari più truculenti, video con animali, con escrementi, stupri e sadomaso estremo. Per poi terminare la sua maratona afrodisiaca in un tripudio di pedofilia. Si tratta della estrema semplificazione di una teoria, quella dei “kicks”, che già presta il fianco a molte critiche di suo visto che postula l’incidenza del fattore stimolante sulla formazione dei gusti e della personalità.
Uno dei più autorevoli sostenitori di questa tesi, Ray Wyre, è un criminologo estremamente controverso, accusato di aver creato egli stesso falsi pedofili per fini di promozione commerciale – di certo c’è che la sua metodologia operativa è discutibile.
Long, come Wyre, mutua le sue massime dalle dichiarazioni rilasciate dagli stessi pedofili (a loro o alla polizia); uno dei pedofili intervistati nel documentario è un ventinovenne di belle speranze con una “normale” vita sociale e affettiva, che una volta arrestato “ammette” di essere diventato pedofilo a causa della prolungata esposizione alla pornografia su internet. Non è facile dire se Long creda davvero a queste idiozie o se al contrario ci creda per mere ragioni di cassetta; ma è facile controbattere a queste asserzioni che un arrestato, soprattutto quando parliamo di crimini infamanti come la pedofilia i quali crimini generalmente determinano demonizzazione e morte sociale del reo (o del semplice accusato…), cerca giustificazioni e vie di uscita. Ted Bundy, pur di sfuggire alla pena di morte, inventò varie versioni delle cause scatenanti dei suoi crimini, dall’infanzia malandata alle delusioni d’amore, dalla pornografia estrema all’alcolismo – ammettendo che una di quelle cause fosse vera (ma restano dubbi estremamente ampi), le altre erano delle mere balle addotte come scusa.
Dire che la colpa della propria indole sessuale deviata è di internet rappresenta la via più facile per lavarsi la coscienza e scaricare le proprie responsabilità. Anche perché sia il pedofilo sia Long sono costretti ad una palese menzogna e cioè ad affermare che il fatto di reperire pedofilia su internet sia facile; chiunque abbia un minimo di familiarità col web sa perfettamente che reperire materiali pedopornografici non è facile per niente e che, soprattutto, solo in rarissimi casi, si finisce per visitare siti pedofili per puro caso. Molto spesso questi siti sono occultati tra le pieghe invisibili della rete, protetti da sistemi elaborati di crittografia e da password sofisticate – è evidente che l’esposizione di una persona alla pedofilia su internet è blanda, ai limiti dell’inesistente. Quindi su certi siti ci si va con piena pienissima cognizione di causa.
Ma il piatto forte del documentario, la sua impalcatura potremmo dire, è il seguire passo passo le vicende di Operation Doorknock, una gigantesca operazione antipedofila che ha condotto all’arresto di centinaia di (presunti) pedofili e alla disarticolazione di un network che, parole della polizia, ha operato per “30 anni, abusando di migliaia di ragazzini e di ragazzine”. Un network simile somiglia più a qualche internazionale paramassonica o agli Illuminati di Baviera che non ad una realtà effettiva, ma si sa il senso del ridicolo e delle proporzioni quando si parla di pedofilia spesso va a farsi benedire.
Un altro piatto forte dei sensazionalisti è ovviamente la duplicità della natura del pedofilo – in apparenza una persona ragionevole, intelligente, affabile, di buone maniere, ma in realtà un mostro privo di scrupoli e di rara crudeltà.
Più o meno è così che ci viene “venduto” Mark Hanson, un quarantunenne presentato letteralmente come “nice guy” – gli intervistatori fingono di non sapere, o vogliono farci credere di non sapere, di quali crimini si è reso responsabile. Solo così d’altronde possono venderci il “colpo di scena”, emozionalmente intrigante per le casalinghe meno evolute, di giustapporre il “nice guy” alle foto che vengono sequestrate a casa sua e che lo vedono intento a stuprare ragazzini di sei anni.
Sarebbe stato più onesto e ligio ai fatti presentarlo per quello che era in effetti, senza prima doverlo santificare e poi insozzare; ma il contrasto, ovviamente, ha il suo perché in termini di audience.
Per non farsi mancare nulla, i documentaristi ci informano che Hanson poco dopo l’intervista, dovendo fronteggiare la prospettiva dell’ennesima lunga detenzione, si è tolto la vita – altro giochetto iper-emozionale, visto che lo shock e il dispiacere iniziale è mitigato da un “pellegrinaggio” in compagnia di un poliziotto sui luoghi utilizzati da Hanson per violentare le sue giovanissime vittime. Davanti a tanto conradiano cuore di tenebra, ogni genere di empatia e di umana pietà vanno a farsi benedire e la troupe può tirare un sospiro di sollievo perché un ennesimo mostro ha smesso di rappresentare un pericolo per i ragazzini.
Una curiosa contraddizione per chi dice a parole di essere così attento alla santità della vita umana.
Naturalmente visto che non ci si potrebbe accontentare di mostrare singoli pedofili slegati gli uni dagli altri, è decisamente preferibile accodarsi alle storie di mostruose internazionali organizzate e dedite al turpe mercimonio delle carni infantili; addirittura viene mostrato il booklet autoprodotto di una sorta di Fight Club pedofilo, in cui l’abuso viene descritto eufemisticamente come “the hobby”, con tanto di decalogo e regole comportamentali.
Dal punto di vista tecnico, si tratta di un solido docudrama; niente colonna sonora, né voce fuori campo, si segue l’operato di una task force anti-pedofila composta da quindici poliziotti e sei tra psichiatri e criminologi civili, la troupe si limita a porre le domande ai pedofili e ai loro “cacciatori” e a qualche episodio di turismo dei sentimenti come quello sopra descritto. Due anni di riprese, ventimila ore di girato, tanto dolore.
E tantissimo sensazionalismo.

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