domenica 14 marzo 2010

Entra nel vuoto




Godfrey Reggio e Peter Sotos, datevi la mano.
C'è l'accelerazione delle luci ad imporvelo, e quel caotico allucinato e vomitevole vorticare della camera da presa esperienza già sperimentata in Irreversible e qui portata alle sue (il)logiche conseguenze; lì era estetica e metodologia di disperazione urbana tra trans e spedizioni punitive notturne tra sobborghi metropolitani e papponi e stupri plasticamente artefatti e insondabili club per omosessuali infetti e lerci di cuoio vestiti, qui invece quel vorticare confusionario è il film stesso.
Non una parte, non una scelta morfologica; ma essenza di pura devastazione somatica.
Ha un bel dire Gaspar quando cita come primaria ispirazione il libro tibetano dei morti - ogni fotogramma è virato, lercio, sporco, granuloso, rovesciato, in costante peregrinazione in una Mecca degna del Ram di Chicago. Il libro tibetano dei morti a scuola da W. A. Dodd, esattamente, e il satori imposto da Dean Corll.
Club rossi. Rossicci. Carnicini, e detournati. Una spogliarellista, un fratello incestuoso tossicodipendente e spacciatore, autoreferenziale e psichedelicamente mistico - la loro non/storia ci impone di brancolare in estasi tossica per le strade strette di Tokyo, nella feritoia post-barthesiana della mancanza di centro, irradiazioni zen di neon blu e secrezioni malevole di gang di strada, come nell'epos di Karl Taro Greenfeld, o nei mille film di Shojin Fukui e Tsukamoto, e polveri di acciaio che piovono misteriosamente dal cielo nero e screziato sempre di neon.
La spogliarellista è un non-senso; non percepisce, è mutila, e autistica come potrebbe esserlo il cadavere di Savanah. Pornografia per necrofili, ciò che vogliamo da sempre.
La soggettiva che ci viene imposta è soffocamento - come scrisse Norman Mailer per stroncare Bret Easton Ellis, la tecnica della soggettiva alla lunga impone asfissia e annegamento dell'esperienza sensoriale. Il che può per noi miserabili degenerati essere un complimento non da poco: il film è brutto, e per questo stupendo. Non ha pretese intellettuali e contrariamente a quanto urlacchiano nelle redazioni penose di La Repubblica e di Le Monde, nessun afflato da epater le bourgeois; Noe molto semplicemente riesce a divertirsi spendendo i soldi di qualche produttore e propinandoci una cavalcata di estenuante pornografia luminosa, con quel raggio-sonda scandagliante sordidi desideri.
Vedere tutto attraverso gli occhi malati del ragazzo ci impone scopate da dentro, fluttuanti (siamo a Tokyo in fondo, Araki e Slocombe ringraziano) voli pindarici di carcasse tecniche e peep show annegati nel nulla cosmico di una città che fagocita e metabolizza tutto. I genitori morti in incidente d'auto, i feti mostrati con sommo compiacimento, l'apparizione ierofanica del pervertito Daikichi Amano il pornografo di gradevoli commistioni tra giapponesine e animali viscidi, tutto scorre sotto la pelle e nella carne come un fiume di sperma acido.
Dire che questo film celi una metafora sarebbe come dire che Ed Kemper aveva un problema comportamentale. Ma non strangoli spari trituri una autostoppista quindicenne per poi violentarne il cadavere ed esibirne la testa decapitata sul lunotto della macchina se hai un problema comportamentale.
Questo film è incomprensibile. Potrebbe essere bellissimo o bruttissimo o entrambe le cose; di certo vi faranno male gli occhi.
Guardarlo dritto in faccia il vuoto è roba non da poco; entrarci, ancora peggio. Il soldato Woyzeck se ne sentiva caoticamente e paranoicamente circondato; e l'orrore di Conrad, che si stendeva come un sudario di tenebra e malsane paludi. La paura non ha ragione, non ha e non vuole avere giustificazione. Può essere paura di invecchiare, di essere violentate, di perdere il controllo o il proprio lavoro, la paura irrazionale dell'uomo davanti al caos cosmico di cui scriveva Eliade; e in questo senso, ma solo in questo senso, il film opera come lezione di antropologia religiosa. Certo, la religione spiegata da un obeso turista tedesco in gita a Pattaya per saziare i suoi impulsi carnali nella miseria ontologica della luna e dei blowjob bars.
Non ho alcun dubbio, visto che lo so, Gaspar si è divertito molto più a girarlo questo film che non a vederlo montarlo e pensarlo destinato ad un pubblico; e mi viene da ridere pensando al povero Mereghetti che se lo vede col fine ultimo di recensirlo razionalmente. Come se a Raspelli servissero un piatto di merda fumante e lui dovesse, il giorno dopo, parlarcene compitamente su Rete4.
Non c'è proprio più morale.
Per fortuna.