martedì 21 aprile 2009

Davanti a lui la notte della città, dietro l'inferno


Era tanto quel piacere che io non potrei fare a meno di procurarmene e uccidere altre donne
Vincenzo Verzeni, citato in C. Lombroso, “Verzeni”, rivista di discipline carcerarie, 1873

Se lo guardi in faccia, sembra un innocuo beone di provincia, un timido introverso insicuro esempio di isolazionismo compulsivo e fallimento esistenziale – incapace di fare del male a chiunque, uno scemo come ce ne sono tanti. Ma se per un istante appunti il tuo sguardo su quegli occhi, ecco emergere il fuoco letale di un abisso, il peso di un odio abbacinante ed assoluto, quel genere di profezia che da sola potrebbe portare alla dissoluzione della civiltà.
Il giovane Trenton si insinua nelle case – passi felpati da gatto, modi veloci e scattanti, la furia giovanile del pazzo. Una madre incinta di 22 anni, ferma in cucina di notte davanti al frigo per lenire qualche estemporanea voglia alimentare, se lo trova davanti; sobbalza, il cuore in gola. E non solo per metafora, perché il giovane le sferra una violenta pugnalata che le squarcia l’addome, tra urla disumane di sofferenza e fiotti di sangue che finiscono sparati sul pavimento; due vite, Trenton sta ponendo fine a due vite, si lava nel sangue mentre continua a colpire, imita le stridule urla della vittima, colpisce, mena fendenti, apre il ventre e fa srotolare frattaglie e il feto che la ragazza porta in grembo.
La cucina è ridotta ad un mattatoio, macchie di latte e di sangue sul tavolo, sulle mura, sul forno, la donna è caduta a terra cinta amorevolmente da un cordone croccante di budella; Trenton la sovrasta e continua a colpire, come un ossesso. Non conosce sosta, né pietà; ha ridotto il feto ad un ammasso distorto di carne e placenta, le sembianze bambinoidali ridotte a quelle di un pupazzetto gommoso eretto in slime, idoli perduti e mai davvero amati.
Lei, la madre ormai prossima alla morte, soffre terribilmente, boccheggia come un pesce preso all’amo, ha gli occhi iniettati di rosso, il corpo solcato da spasmi e convulsioni, lui invece beve il sangue da terra, lappa come un cane furioso, è felice, contento – letteralmente, vivo. Vive e si riproduce nella morte altrui, la non-morte come condizione di esistenza.
Non ha vita sociale, né amici né hobby, soltanto la passione per il sangue e la carne umana frollata – è il geek assurdo e tentacolare, la spazzatura che prende fango sul lato rovesciato delle metafore gotiche. E’ lontano il Dracula di Bram Stoker, quelle distese profumate di mughetto ed assenzio, luci soffuse, crepuscolari che si stagliano contro pinnacoli di roccia carpatici, l’ululato lontano dei lupi e le sagome curve di antichi castelli.
Un vampiro gentiluomo, che non è qui. Il tanfo degli escrementi, la gola tranciata, la morte dopo lunga lenta straziante agonia della madre, che si è vista mangiare il feto davanti, le ire di un prossimo becchino con sede al centro di Sacramento, le conferenze stampa della polizia, il dolore dei parenti. No, decisamente; Stoker non è di queste parti. Al massimo, cospirazionismo telepatico di Ufo nazisti e stelle di david tatuate sulla fronte del giovane Trenton, la necessità di uccidere perché così hanno ordinato invisibili presenze – Herb Mullin ne sarebbe fiero.
Nella mente del Ghoul – il buon vecchio rozzo Schaefer sapeva come intrattenere il suo pubblico: non ha mai esplicitamente scelto come modello letterario Trenton, troppo confuso, troppo da I Cari Estinti di Lovecraft, preferisce concentrarsi sulla brutalità di Bundy e di Toole. Dicono Toole ridotto senza denti e senza dentiera facesse pompini agli altri detenuti in Florida, per prezzi modici; disegnava infernali lingue di fiamma, teschi, evocazioni demoniche, tutto con tratto naive ed incerto. Ma Toole era un campione nell’uccidere, non ci stava a pensare su troppo, diceva “voglio farmi il suo culo” e puoi essere certo che se lo sarebbe fatto, donna o uomo, vivo o morto che fosse – certo, una netta e smaccata preferenza per gli uomini, alle donne generalmente pensava Lucas.
Toole è il necroghoul fatto carne ed ossa; non esce da qualche delirante racconto letterario, è stato vivo, vegeto, potente, e furibondo. Come un treno impazzito a trecento chilometri orari, senza conducente né freni da azionare; un bastardo sdentato, pervertito, sadico, necrofilo, e cannibale. Schaefer lo ha conosciuto bene – impiccando bimboline bionde nel folto delle paludi floridiane, ex poliziotto, maniaco sessuale, mitomane compulsivo e talentuoso scrittore, Schaefer si è fatto una reputazione, scrive di assassinii morbosi, ripugnanti, disegna ed orna le sue opere con raffigurazioni vivide e realistiche del puzzo virale della morte.
Un resoconto di orgasmi raggiunti medianti impiccagione – nessuna possibilità di godere, neppure attraverso gli orpelli bdsm; solo tortura, degrado, umiliazione e omicidio lo gratificano. Solo la carne morta lo eccita.
Il suo racconto più famoso è Nigger Jack, una storia di vivida necrofilia consumata in un carcere – roba da rendere serie come OZ e Prison Break la roba per bambocci viziati quali poi in fin dei conti sono. Trasgressione per dementi coccolati, e vogliosi di avere argomenti di conversazioni con le puttane che rimorchiano in giro per locali.
Nigger Jack è un residuo ancestrale di una umanità ferina e ferita, un laido cinico depravato incarcerato che gode scopandosi i cadaveri fritti sulla sedia elettrica – e che racconta all’io narrante che supponiamo essere Schaefer stesso del suo passato lavoro di becchino e di come sia bello molestare sul freddo acciaio di un lettino autoptico una qualche puttanella deceduta.
La fantasia è la più potente delle armi; come scrive Berg a proposito di Kurten “la solitudine della cella del carcere ha fatto sì che egli sia diventato un virtuoso nel raggiungimento dell’orgasmo unicamente con fantasie sadiche”, basta focalizzare attentamente il proprio pensiero, elevarlo sopra le nebbie della fisiologia, liberarlo da castranti sovrastrutture quali la necessità del sesso con i vivi. La morte diventa – in questa prospettiva decisamente deleuziana– desiderio ed oggetto del desiderio allo stesso tempo; volontà di appropriarsi e di fabbricare, di creare, un cadavere e raggiungimento dell’orgasmo in corso d’opera.
Voluttà necrosadica allo stadio assoluto. Sublimata nella potenza della meditazione claustrale.Kurten a differenza di Schaefer e di Chase è una persona di cultura, intelligente, brillante. Simile al titano assiso sulla torre d’avorio di cui parla Goethe, scruta l’orizzonte incendiato, i tramonti rosso sangue che si aprono in spiragli su Dusseldorf, incarna il Sade scatenato e finalmente libero di essere se stesso, la conclusione in accelerazione de Le 120 Giornate di Sodoma in un solo uomo – e la senti e la percepisci la lotta all’ultimo respiro che si consuma nel suo petto. “Anche per il delinquente peggiore arriva il momento in cui capisce che non può più andare avanti e io ho vissuto questo crollo psicologico”, vaga nomade nel ventre industriale della città tedesca, sconfitto eppure odiato, temuto, eroico, si è lasciato dietro una scia immane di morte e di dolore, sa che per lui non c’è speranza, che non è interessato al carcere o ad integrarsi, non può smettere.
Ma Kurten parla, blandisce i medici che lo visitano, la corte, i giornalisti, la pubblica accusa; articola lunghi discorsi introspettivi, è uno che ha letto, che apprende, che ha buona memoria ed ottime maniere. Tanto che parecchie ragazzine, serial killer groupies ante-litteram, vorrebbero trascorrere del tempo in sua compagnia, “ho sentito dire ad una studentessa, probabilmente di un liceo – vorrei essere una volta assieme a lui, se fossi sicura che non mi succedesse nulla – si riferiva al Mostro di Dusseldorf”, Kurten ironicamente passa accanto a queste miserie morali e rivela il cuore dell’ipocrisia, il sensazionalismo latente della società.
E’ una metafora che detesta le metafore, e che ci ricorda che la sociologia non si fa con le penne di Alberoni ma coi martelli ed i pugnali – perché in fondo per disossare la realtà, ci vuole predisposizione al martirio, quello proprio e quello altrui.
Ho sempre proclamato il Genio di Peter Kurten, e qui lo ribadisco – non mi stupisce Schaefer non si sia mai veramente interessato a lui. Troppo preso dalla apologetica manifestazione del proprio ego, non avrebbe mai arrischiato di misurarsi con chi avrebbe potuto oscurarlo dieci, cento, mille volte. Come una perfida eclissi solare in revanche dal passato, ecco il revisionismo dei serial killer – la faida delle ingenuità perdute e verosimilmente dimenticate.
Nietzsche dice “ciò che si fa per amore lo si fa aldilà del bene e del male”, Kurten gli fa eco “non ho mai pensato che le mie azioni fossero cattive, perché mi hanno sempre dato piacere e senso di benessere”, come il notturno nichilismo che trasuda dalle pagine di Sade – un potere assoluto di introspezione, di comprensione risoluta e risolutiva delle proprie voglie, dei propri istinti, delle proprie idiosincrasie. Non accetta regole che non siano le sue proprie, e su tutto trionfante il Piacere personale elevato a Dio, un dio di fiamma, un dio di tuono, il dio delle guerre e dell’odio, della pestilenza e delle mosche ma senza pentacoli satanici.
L’amore per Kurten è sangue – dolore inflitto agli altri, piacere ricavato attraverso la sofferenza altrui, una strada lastricata di cadaveri da andare a trovare in via crucis per ottenere altra gratificazione sessuale. Paradigma di un sadismo che non conosce limiti.
Il paragone tra Schaefer e Kurten è quasi blasfemo; tanto è gretto, stupido e risibile il primo quanto brillante, determinato e lucido è il secondo. Schaefer si dedica agli altri perché non ha il coraggio di ammettere a se stesso che non è nulla di davvero speciale, è soltanto un povero ghoul di provincia, disperatamente proteso alla ricerca di notorietà e fama; Kurten invece non si dedica ad altri che a se stesso, si analizza, si pone domande e questioni cruciali, cerca di comprendere se esistono soglie di piacere e di voluttà superiori a quelli che va sperimentando seminando morti per le strade di Dusseldorf.
Avevo bevuto il sangue dalla sua ferita al collo. Le avevo tagliato il collo e mi ero sdraiato obliquamente vicino a lei; ho bevuto il sangue che zampillava dalla ferita” e non lo dice col tono sbruffone, da sudicio camionista, che contraddistingue Schaefer; lo sentenzia lentamente, senza orgoglio ma solo come puro dato di fatto.
Davanti a lui la notte della città, dietro l’inferno.

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