lunedì 7 aprile 2008

Tre Scalini


( Foto di Anna Benedetto http://www.flickr.com/photos/hannabi)



Mi domando; dove siete ?
Squadrato come una fortezza Bastiani ma senza insurgenze tartare ammuffite tra le acque limacciose di un Tevere che ha smesso di essere biondo, screziato forse di meches a base di topi e merda, limacciosi i flutti si confondono alle correnti, al catrame e al traffico che strombazza tutto attorno, ecco a voi l’imponente edificio che separa topograficamente e legalmente i probi dai rifiuti sociali.
Via della Lungara tra dossi e avallamenti, e semafori e palazzi rinascimentali di una Roma padrona ormai addormentata e addomesticata dalla burocrazia che ne ha fatto Disneyland turistica, e dall’altro lato, altra sponda di sagace conformazione lo scempio di una Ara Pacis frettolosamente addobbata nel nome delle Pubbliche Relazioni da un Sindaco Voyeur, e il circolo Ufficiali e livree e foresterie e ministeri e la Corte di Cassazione con statue marmoree di insigni giuristi di epoca classica e la Sinagoga e la scuola ebraica, autobus, cielo livido basso incupito sugli odori di un mondo perduto.
Dove siete?
Lo ribadisco mentalmente, in un ideale smunto consuntivo che debbo porre a me stesso nell’istante stesso in cui varco quel portone; breve permanenza, ma abbastanza lunga da importi un confronto coi tuoi dubbi e con gli incubi. Metaforica acqua sale alla gola, sparandoti ad alzo zero contro tutto un vortice di rapide sensazioni; dolore, sofferenza, spossatezza, quasi una letargia dei sensi che si fa ben presto isolamento e deprivazione.
Istituzionalizzazione, strepitano i soloni agghindati della criminologia. La dignità la si può lasciare fuori dal portone, tanto nessuno verrà a reclamarla; inutile, controproducente, come quegli odori forti, pungenti e speziati che arrivano in volute e spirali dalla strada assediando le finestre sbarrate. Il volo dei gabbiani, ed i loro versi sgarbati, striduli; nulla che vada bene, nulla che confaccia allo stato d’animo presente.
Non è più tempo di stanze di costrizione, di pestaggi furiosi e isolamento barbaro alla Alcatraz, ma fa un suo effetto trovarsi davanti l’intero complesso dagli intonaci scrostati, anzi peggio, fa venire le vertigini esserne dentro proprio come Giona nel ventre della Balena; l’istituzionalizzazione, se la prendete e la cavate via dai pomposi tomi su cui tonnellate di figli di papà si formano, non è altro che un esilio interiore, una cacciata dall’Eden della rispettabilità sociale. E tu sconti quel senso immane di desolazione, come un Caino abbandonato da Dio e che cieco e furioso e dolorante deve prendere la via della fuga; vaghi senza una meta nel profondo della tua anima, e mentre senti il cigolio e poi il clangore del pesante cancello di ferro che ti si chiude alle spalle ecco che un groppo ti serra la gola ed inizi a respirare con fatica. Hai gli occhi lucidi, un gran mal di testa, e ogni rumore è amplificato, ti fa male e ti si sedimenta nelle orecchie. Come l’eco della dannazione.
Avevi detto; meglio regnare all’inferno che servire in paradiso. Eppure adesso saresti disposto a strisciare fuori e a riassoporare quella vita apparentemente banale ed insulsa: un clamoroso caso di rivalutazione postuma.
Muore la libertà, viva la libertà.
Prima che era mai? Una fila all’ufficio di collocamento, un esame all’università, un qualche rituale mondano di socializzazione, una relazione sentimentale più o meno logorata dal tempo, una uscita frettolosa con gli amici, la militanza politica, esistenza randagia e confusa. Adesso, anche la più merdosa di quelle cose scintilla come un faro durante una tempesta; ne avverti la luminosità, il calore, il senso di sicurezza.
A volte è l’assenza a confermare la presenza.
E ti vortica e rotea tutto nella testa, vorresti gridare o piangere ma ti sei imposto, o meglio hai imposto alla tua devastata fisiologia, di resistere il più possibile, di non stramazzare subito, perché la via dolorosa è ancora tragicamente lunga.
Vorresti che parenti, amici, semplici conoscenti fossero qui, ad infonderti un minimo di conforto, con le loro chiacchiere vane ed altrimenti insulse; sei spogliato del tuo essere uomo, immatricolato, incasellato, etichettato e spedito dove altri tuoi simili stazionano da tempi più o meno lunghi. Gergo e burocrazia spersonalizzano; nessun cartello “il lavoro rende liberi”, ma d’altronde qui non troverai né lavoro né libertà né la morte che possa fungere da pietoso surrogato della liberazione.
Sospensione perenne in condizione di non-vita, la sensazione di essere tumulato in una di quelle tombe etrusche aperte a ventaglio tra Lazio e Toscana, col tempo inesorabile a scorrere e le ossa macinate, poi un giorno al posto dell’uomo in blu ecco spuntare la testolina di un turista ai cui occhi apparirai tanto buffo e solenne quanto un graffito rupestre.
Sai che sei solo. Ma non c’è beatitudine in questa solitudine, non l’hai scelta, né voluta, né ancora accettata; dicono non la si debba accettare, perché l’assuefazione è veloce e letale. Solo con una imperativa resistenza mentale ed esistenziale puoi sperare di uscirne vivo.
Chi sei? Ecco la vera domanda. Si, ecce homo; tu stesso portato al cospetto di una folla rabbiosa, e lascia in pace, dimentica parenti, amici, conoscenti, l’avvocato che ha fatto promesse ed illazioni e che invece, ad un certo punto, capisci aver lavorato ai fianchi i tuoi genitori affincè continuassero fiduciosi a versare il suo onorario. Sei completamente solo, in balia di una folla che ha i suoi codici, i suoi parametri, elaborati tutti nella cattività e nelle sale umide e buie di questo posto.
La modernità qui è parola sconosciuta. Intendiamoci, non si è ai Piombi né nelle segrete di Castel Sant’Angelo; il comma terzo dell’art 27 della Costituzione non è stato certo scritto a caso. E che poi certe rieducazioni siano de facto impedite dal sovraffollamento, dagli spazi assurdamenti contenuti, dalla atomizzazione del vivere istituzionalizzato, dagli ordini e dalle pratiche, bè quella è questione di minor rilevanza; l’importante è che i detenuti possano avere la loro razione di televisione.Ad essere sinceri, quella più che rieducazione suona come un patetico tentativo di riprogrammazione, robe staliniste e maoiste di campi di lavoro e di rivoluzioni culturali, solo che al posto del dogma socialista adesso ti ritrovi le Marie de Filippi e i Costanzosciò di varia caratura, ed i tuoi compagni forzati si accapigliano in sfide, scommesse e sollazzanti pernacchie.
Il fetore è lancinante. Come una cortocircuitazione larsen innestata direttamente nelle narici, ti scuote, ti fa soffrire, ti deprime; e poi avresti solo bisogno di calma e silenzio, ed invece quella scatola infernale continua a gracchiare senza fermarsi mai.
Già, chi sei?
Lo stesso interrogativo abissale che si poneva Carl Schmitt.
Non so lui come ce l’abbia fatta; la cultura è un’arma a doppio taglio, perché fino ad un certo punto ti eleva e ti innalza, ma poi c’è una ricaduta come in tutte le convergenze psicotrope non richieste ed allora ti ritrovi con la testa tra le mani, ansioso, boccheggiante, luridamente proteso ad inalare la poca aria che arriva dalla Lungara.
Certe volte senti persino le voci. Non quelle tue di impazzimento furioso; le voci lontane ed echeggianti di coppie che si incamminano sul Gianicolo o sulla Lungara, non sai mai se siano vere voci o illusioni partorite dal tuo ricordo di quando eri libero e passeggiavi per quei paraggi.
Schmitt se ne era stato in una cella singola, isolato e schernito ed interrogato; ma fondamentalmente lasciato in pace. Senza quegli afrori da terzo mondo che costituiscono ossatura portante della istituzionalizzazione multirazziale, senza quelle brande imputridite ed umide, senza tossici boccheggianti o marocchini puzzolenti. Era rimasto un uomo di cultura, alle prese con quesiti certo immani ma che era possibile tenere sotto controllo.
Qui invece, vorrei davvero credere che Tief e Grund nietzschani abbiano una qualche chance di manifestarsi imperiosi, dominando la scena da quadretto gotico; una ricerca esoterica protesa alla definizione della rinascita. Ed invece la puzza dei cessi, il fetore delle brande e delle cucine mi riportano coi piedi per terra.
Non vedo nulla di ascetico in questa fraternizzazione coatta di reciproche miserie, al massimo un caritatevole esercizio di pietà cristiana; empatia come forma estrema di contaminazione. Ora, non per fare davvero l’anticristiano ad ogni costo ma nell’hic et nunc carcerario abbonda il disfacimento del proprio essere; che ciò avvenga ai piedi di una croce ricontestualizzata credo proprio non sia dato incidentale.
Sovvengono alla mente le paradossali, ma poi nemmeno tanto, invocazioni proposte da Meister Eckart; prego Dio affinchè mi liberi da Dio. Sostituite la parola Dio con Speranza e avrete un dettagliato, preciso, analitico indice della mia disperazione; la speranza uccide e corrode, come il cristianesimo. Quoddam indistinctum, quod sua indistinctione distinguitur !
Avere nel cuore il pur minimo briciolo di speranza significa andare incontro alla piena dissoluzione; la vita diventa lotta, artigliata con i denti e con le unghie, conquistata metro per metro, secondo dopo secondo. Non attesa di una qualche celeste discesa salvifica.
“A 6000 piedi al di sopra del mare e molto più in alto di tutte le cose umane!”; come vorrei poter dire lo stesso. Come vorrei avere avuto la chance che in effetti ebbe Nietzsche. Disprezzo e rancore per l’umanità ne ho pure io, ma dico e ammetto che in questo contesto a poco servirebbe il disprezzo. C’è un cristianesimo rappreso in tutto, e non solo nelle messe domenicali; c’è cristianesimo nel fare a se stessi quello che si sarebbe voluto fare agli altri. La propria apparente vittoria diventa sconfitta.
L’isolamento nella cella, quando arrivi e non puoi comunicare con nessuno perché rischieresti di contaminare la validità dei seguenti interrogatori, è il momento peggiore; il momento in cui l’anima ti si vomita fuori agghindata come Arlecchino a carnevale, solo che al posto delle pezze variopinte ti servono una focaccia spianata di merda.
Arrivi dal caos della vita esterna e piombi a capofitto nella tenebra dell’isolamento più serrato, lo scarto è enorme, lancinante; versi le prime timide lacrime, dove nessuno può vederti. E ad essere sinceri non te ne fregherebbe nulla nemmeno se potessero vederti. Piangere è perfettamente naturale. Non hai altra scelta.
Si, vorresti essere al posto del Viandante nel dipinto di Friedrich, innalzato sopra oceani di nebbia, titanicamente proteso verso un Assoluto che cresce come un mare in tempesta; ed invece sconti le ore ed i giorni nella penombra autunnale, non hai libri, riviste, giornali, solo una consunta copia della Bibbia. Ti perseguita quel libro dannato, con le sue storie di speranza, patto e promessa; e ti sembra tutta una clamorosa presa in giro, perché non vuoi essere redentore di nessuno, non hai chiesto un martirio ad personam, vorresti solo essere lasciato in pace.
Capita che qualcuno ogni tanto, sopraffatto dall’angoscia e dal senso di smarrimento, incapace di comprendere i meccanismi vitali che regolano la Fortezza Bastiani del Lungotevere, tenti con alterni risultati di ammazzarsi. Ma è difficile, perché nelle celle di isolamento non hai materiali utili per l’intento e nelle celle stesse ci sono i compagni e le guardie a prevenire certi istinti; la morale diventa che non si è padroni nemmeno del proprio corpo, non se ne può disporre. La volontà si calcifica, e poi scompare nelle memorie di una archeologia del dolore.
In isolamento, pensi; pensi a tutto, dall’alta filosofia alla tua voglia di uscire, cerchi di evitare come nei paradossi zen di arrivare ad immaginare scene felici ed allegre, perché sai che ti rovinerebbero la giornata. Ma è difficile pure questo, un po’ come l’ammazzarsi.
In carcere tutto è difficile.
Basta pensare alle richieste che nel confuso gergo dei detenuti diventano “domandine”; domandine da inoltrare al Direttore, al magistrato di sorveglianza, per ottenere un libro, un permesso di lavoro esterno o per andare al funerale della madre morta. Un termine che indica un regresso simbolico e concettuale preciso, il detenuto diventa un bambino, incapace di decidere autonomamente, privo di sfera personale, di proprietà privata, di privacy; deve essere comandato e gerarchizzato, secondo moduli procedimentali schiettamente asimmetrici. Ecco allora la domandina, nascondere poi una variegata realtà di elementi vitali; dici domandina, intendi speranza allo stadio terminale.In isolamento, puoi dire di non essere ancora entrato nell’atmosfera della Fortezza; nessun contatto visivo e fisico con gli altri internati, nessuna possibilità di proporre domandina, negato accesso alle (poche) comodità escogitate per indorare la pillola a chi si sfracassa di noia quotidianamente. In isolamento non esiste noia, perché non esiste tempo da ingannare; le ore diventano secondi ed i secondi si fanno giorni, niente luce se non una lampada irreale che rende impossibile dire se fuori, all’aria aperta, sia giorno o notte, se faccia caldo e freddo. I vestiti ti si incollano addosso, come i tuoi stessi odori. La barba si allunga. Come le ombre nel profondo della tua mente.
Intanto nel ventre cavo della Fortezza, un immaginario comitato di benvenuto ti sta segretamente valutando, per decidere cosa fare di te; il motivo per cui sei entrato vale parecchio. E poi potrebbe essere che vi sia qualcuno che conosci e che metta una buona parola per te, risultando magari più efficace dell’avvocato che fuori sta imbrattando carte nel tuo nome. Una giustizia veloce, spietata, senza tanti fronzoli formali. Altro che frenologia e scienza comportamentale, i Nostradamus coatti sanno magnificamente prevedere se uno è un infame, un debole, un idiota e se creerà problemi, o se al contrario si integrerà in quella fabbrica di deprivazione.
Quando esci dall’isolamento, hai due strade davanti a te; entrare subito in sintonia con le persone con cui condividerai lo spazio vitale oppure girare al largo alla ricerca di una improbabile solitudine che però nella maggior parte dei casi viene interpretata come scortesia o come ostilità. Varcare la soglia della cella è un po’ come il momento della verità di un esame universitario, quando scopri quale assistente ti è capitato in sorte. Un momento drammatico, e ricco di implicazioni emotive. Perché tu non sai nulla di loro, e loro invece sanno tutto di te.
I detenuti che bulleggiano e opprimono generalmente sono gli stranieri, avvinti dai loro codici tribali sovrapposti all’etica della Fortezza; al contrario gli Italiani, se li rispetti e li tratti con un certo grado non dirò di ossequio ma di umanità e di normalità, saranno ben lieti di accogliere la educanda pecorella smarrita. A meno che non siano tossici svalvolati, ovvio.
Non esiste una vera gerarchia carceraria, ma certamente esistono realtà esterne che finiscono col riprodursi anche dentro; bande, circoli, legami filiali e parentali, che tendono come una ragnatela a separarti dalla piena integrazione. Un po’ come il circolo della fiducia, loro ne sono dentro in automatico, tu per entrarci dovrai penare e attendere. Tutto sommato, la possibilità di scambiare quattro chiacchiere allevia il peso della noia; e non è assolutamente facile calibrare le dimensioni, le parole, dopo che si sono trascorsi giorni e giorni nel silenzio e nella tenebra. C’è una vertigine abissale a farti ronzare i polmoni quando per la prima volta ti rivolgi ai tuoi compagni.
Adesso hai anche diritto a vedere il cielo, durante i camminamenti circolari che qualcuno chiama “ora d’aria” e che rappresentano una lugubre parodia delle passeggiate che avvengono fuori dalle mura, in quella stessa area; sul Gianicolo varie coppiette cinguettano, si abbracciano e si baciano promettendosi fedeltà e amore eterno, qui invece si va alla deriva, camminando senza orientamento né meta, come naufraghi dell’esistenza alle prese col dolore della quotidianità.
La vita non ha altro senso se non in se stessa. Una sfida a trovare motivazioni, una lotta contro l’abbrutimento, ti chiedi perché andare avanti e non sai risponderti, vai avanti per mera fisiologia, solo perché è più arduo porre un termine che non il contrario. Spegnere la volontà affinchè la morte non abbia nulla di terribile, per dirla alla Schopenauer, è un esercizio di metodica e scientifica crudeltà, e non tutti ne sono o sarebbero capaci.
Vivi perché devi vivere. Perché così ordina l’istituzione penitenziaria. Ammazzarsi è contro il regolamento.
Non è una bella cosa, ma d’altronde sono poche le cose degne di essere definite “belle” qui dentro. Sai che dovrai toccare il fondo, e poi prendere a scavare; non per evadere metaforicamente, ma almeno per appropriarti dei tesori nascosti dell’esistenza, facendo appello ad energie che ignoravi persino di avere.
Quando uscirai non sarai un uomo migliore.
Quando uscirai, vedrai il mondo con occhi differenti, e capirai che con le dovute proporzioni siamo tutti prigionieri. Il cancello si chiuederà fragorosamente e tu prenderai un ampio respiro, come se dovessi gettarti in apnea; la vertigine tornerà, non sei più abituato allo strepitare delle scolaresche, agli strombazzamenti, al caos cittadino. Alcuni vomitano, si sentono male. E li capiscono benissimo.
Alle spalle rimane la sagoma della Fortezza. Nonostante porti il nome di una Madonna, di santità se ne vede e trova poca.
Di martirio invece, quanto ne volete.

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