lunedì 8 febbraio 2010

Con questi frammenti






Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
T.S. Eliot, La Terra Desolata

Per qualcuno, un angolo di paradiso.
Per altri, molti altri, uno squallido squarcio di degrado urbano – segmento di terra, asfalto, pineta, tronchi cavi e buste di plastica, a delimitare il perimetro che sorge a poche centinaia di metri dal mare, un mare che la selvaggia cementificazione ha reso una illusione.
Quando hai smesso di poterti dire un essere umano?
Quando hai acquistato quel genere di drammatica consapevolezza?
Guardati.
Sei praticamente nuda. E potresti essere mia madre; tessuti adiposi in eccesso, trucco sfatto a celare capillari rotti, alcolismo, leggeri flirt con la droga e penitenze e pestaggi educativi di qualche pappone i cui guadagni sono ormai inversamente proporzionali al’avanzare della tua età – il documento, testamento anagrafico di sogni e speranze, non so per quale motivo tu sia venuta qui e non mi interessa, non amo i pompini sociologici, le scopate statistiche e gli approfondimenti anali, il documento ha appiccicata una foto di una te felice, curata, vestita bene, sorridente, in posa, lo prendo e lo guardo come se stessi contemplando la migliore opera d’arte del mondo, attorno sfrecciano le macchine, fanno finta di essere tutti affaccendati nei frenetici e caotici ritmi della loro vita, le loro vacanze, le loro rate per il mutuo, il loro leasing e le finanziarie e i problemi di salute del figlio, e voi puttane adesso cessate di esistere, di rappresentare la comoda valvola di sfogo per lenire insopportabili frustrazioni sociali, sfrecciano in macchina ascoltando la radio le felici chiacchiere per l’ennesima vittoria della Roma o la classifica dei singoli maggiormente venduti o le metafore di Avatar.
Voglio davvero tu perda un po’ del tuo, non so quanto, prezioso tempo per capire quanto in basso sei scesa, un rapido raffronto con la foto del tuo documento suggerisce la linea evidente del tuo abbrutimento, la discesa nel baratro, sparata come un proiettile di fucile – la tua esistenza è funzione del sesso promiscuo e bestiale che clienti disperati, confusi, emotivamente deprivati, comprano, di queste scopate animalesche tra le fratte.
Bisogna stare inchinati per raggiungere il ventre dell’alcova improvvisata, tra divani putrefatti, materassi gonfi di pioggia e di merda di cani e di uccelli, il sole filtra a scacchi tra le fronde basse dei pini e della macchia mediterranea, invisibili sentieri si disperdono lungo l’orizzonte ed io batto ogni singolo pertugio, cammino in avanti e indietro, ansimando, gemendo, chiedendomi quale sia la drammatica ragione della mia permanenza nel sordido cuore pulsante della pineta – sei quasi nuda, l’ho detto.
E in questo contesto, è uno spettacolo francamente osceno; non sei sexy, solo patetica. Tette flaccide da vacca strizzate in un corpetto di latex nero, una minigonna sformata dal culone, autoreggenti e un volto di fame, immiserito, languidamente triste, disperato.
Chi sono i tuoi clienti?
Gente troppo povera per aspirare ad altro?
Amanti del patologico?
Imbecilli?
Combinazioni delle sopra menzionate categorie?
Hai un protettore? No, mi rispondi, con una flebile voce di bestia straniera, sono sola, sola e persa in questo grande paese di speranze e pompini che è l’Italia, duemila anni di storia e cultura e pinete a luci rosse.
Abbiamo tutti dei sogni, quali sono i tuoi?
Nessuno. Hai smesso di avere sogni quando hai dovuto per la prima volta leccare le palle sudate di un camionista di passaggio – nessuna conversazione, nessuna richiesta di aiuto, hai persino smesso di considerarti un essere umano, una donna, un’anima, uno spirito inquieto, tutto ciò che hai fatto prima, nella tua vita rispettabile, è evaporato per sempre, hai imparato che stabilire una qualche forma di empatica connessione tra cliente e puttana è un’arma a doppio taglio.
A nessun cliente importa davvero della donna che scopa – ognuno di loro da qualche parte ha una madre apprensiva, una fidanzata rompicoglioni, le pastarelle da portare ai suoceri la domenica mattina, un figlio da accudire e una morale da ristorare a messa, con la mente metaforicamente imperlata di sudore a ripensare alle scopate da pineta, nell’afrore di erba bagnata, quadri osceni di kleenex preservativi usati abbigliamento dozzinale e depressione lenita giusto giusto dai tentativi sagaci di crearsi una dimensione da dominatore.
Da quanto sei in Italia?
Non rispondi, trincerata in un mutismo che non ha traccia alcuna di dignità e di compostezza; è solo una barriera tangibile di disprezzo, di miseria, quel tentativo residuo di restare a galla, mentre attorno il mondo è in fiamme.
Sei malata?
Ci sono buone possibilità.
Scabbia.
Epatite.
Eczemi.
Non necessariamente AIDS, mi dici che molti clienti chiedono rigorosamente il preservativo; faccio fatica a crederlo, sinceramente. Ma non è questo il punto – il punto, e su questo converrai con me, è l’idea di prendere la macchina dal garage, mettere in moto dopo aver inventato una qualche risibile scusa con la moglie o la madre o il padre, ed essere venuti qui per una battuta di caccia sessuale, passando in rassegna le puttane, tutte va detto decisamente malmesse.
Me li vedo insinuarsi lentamente tra le frasche questi clienti, mentre il sole inizia a declinare in un lago rosso di sangue; passi leggeri, felpati, il rumore secco dei rametti che si spezzano sotto le loro scarpe, guidati dalla puttana che hanno scelto, la puttana è davanti a loro e nonostante l’abbigliamento scarso e il freddo e i tacchi a spillo procede velocemente. Conosce come una guida indiana i mille sentieri di questo posto di merda, si incunea, sposta i rami fittiziamente posti a celare determinati ingressi di radure dove poter scopare.
Buste piene di abbigliamento – perché le puttane si cambiano velocemente nel folto della pineta.
Sei sola?
Oppure, ed è ciò che credo, ci sono altre puttane qui nei paraggi?
Dimmelo, senza tanti giri di parole – tanto, e lo sai benissimo, le troverò.
Non ci fai mai il callo; per quanto tu voglia giocare alla donna dura, di vita, a questa estasi posticcia pasoliniana, il dolore è troppo grande, e la ferita continua a sanguinare. Ti hanno picchiata, pochi giorni fa; quattro giorni di referto, tre a Rebibbia, so che alcune puttane bulgare hanno preso male il tuo arrivo.
Le guerre etniche dei balcani perpetuate nella pineta di Ostia, nel nome dello sfruttamento sessuale. E mentre mi racconti dei colpi che hai ricevuto, sembri tradire per la prima volta una espressione umana, contrita, da cane bastonato.
Sono lucciconi quelli che vedo brillare nel profondo dei tuoi occhi neri?
Stai per piangere?
Non farlo, davvero. Non c’è bisogno; e sinceramente, a me le lacrime così gratuite, così drammaticamente immotivate, infastidiscono.
Ancora non ti ho dato un vero motivo per piangere. E posso assicurarti che quando lo avrai, potrai dare libero sfogo alla tua sofferenza.
Sei un animale.
Una bestia.
Non hai alcun valore, e non lo hai mai avuto, né per i tuoi genitori né per i figli che certamente hai da qualche merdosa parte della Romania, nessun valore, nessun diritto, nessuna sacralità del corpo umano, nessuna consistenza positivamente apprezzabile, nessun interesse o gusto che io possa reputare degno di attenzione, sei ferma, immobile, paralizzata, cristallizzata, respiri piano, con fatica, la paura che provi si percepisce lontano un miglio. Il silenzio della pineta, ed il rombo delle macchine che sfrecciano sulla strada a poche decine di metri da noi.
Ironica colonna sonora, non trovi?
Hai paura delle violenze dei trans – quando arrivano sciamando in pineta, seminudi e coi cazzi e le tette di fuori, li vedi drogati, gonfi di alcolici, disposti a tutto, e tu per loro sei una minaccia commerciale, una nemica, uno scarafaggio da fare a pezzi e schiacciare.
Hai paura delle retate, dei viaggi al fotosegnalamento, delle battute volgari e grevi dei poliziotti.
Hai paura degli altri protettori. Ma in realtà, hai paura anche del tuo protettore, che ti sfrutta senza pietà pronto a lasciarti per strada quando non gli servirai più.
Ti senti esaurita, finita, stremata.
Interiormente, vuota.
Priva di un senso. Di una qualche logica che davvero ti spinga ad andare avanti.
Nulla che ti emozioni, che ti renda felice. Vivi meccanicamente, e ti trascini di giorno in giorno per pura fisiologia dividendo un lercio appartamentino con altre otto puttane est-europee.
Arriverà un giorno, in cui diventerai trafiletto di cronaca nera. Qualche sospiro di circostanza da parte dei professionisti della compassione, e poi più nulla. Nemmeno una tomba, niente parenti a reclamare la salma. Potresti esssere sepolta qui, tra i preservativi i divani sfasciati e le merde di cane.
Non sarebbe una cattiva idea.

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