lunedì 19 novembre 2007

Dirge





Mentre la folla rumoreggiante prende posto tra le sedie e tra le pareti bianche della Galleria Mondo Bizzarro, dentro cui ancora svettano le pregevoli opere di Ray Caesar, allungo una occhiata verso il banchetto dietro cui è seduto il motivo di questo raduno di neogotici, freak esibizionisti e attempati intellettuali post-moderni; Roman Dirge, autore del fumetto Lenore e collaboratore di Tim Burton.
Premesso che mi ritengo maggiormente un fan della galleria in sé che non di Dirge, della cui opera so davvero poco e ho idea che un approfondimento sia fuori luogo soprattutto alla luce di una certa divergenza di interessi e di inconciliabilità di aree tematiche, ho subito capito, subdorando pure l’irritazione della mia amica americana Linda, che sarebbe stato un pomeriggio di passione. Fuori d’altronde gli auspici di cielo nerastro e nuvole gravide di pioggia non aiutavano l’ottimismo.
Di Lenore so quel che basta per farmene una idea; ragazzina non-morta di taglio goticheggiante, il cui nome echeggia sensibilmente atmosfere alla Poe, eppure calata in una serie di vicende concatenate alla Ghost World, con tanto di tocco biografico dell’autore. Teratologia d’avanguardia ed estetica del side-show alla Jim Rose, con tanto di sapore vaudeville molto in voga oggi negli USA; basta pensare alla rinascenza del death-rock, alla fortuna dei Dresden Dolls, alla mai sopita passione per il Reverendo Marilyn Manson il cui immaginario ( in questa nuova incarnazione gotica è frutto principalmente del talento di Floria Sigismondi, va detto) intriso di morbosa oscurità non accenna a placare l’entusiasmo delle platee, il burlesque tutto pizzo e lustrini della Von Teese, persino alla rinnovata fortuna che arride a conventicole esoterico-gotico-sataniche.
Già questo contorno avrebbe suggerito un taglio di presentazione intriso di elementi su cui insistere e da decostruire, avendo a disposizione l’autore. Eppure, ed eccolo il punctum dolens, una delle persone chiamate ad introdurre la traduzione in Italia dell’albo di Lenore è un giornalista di Repubblica, a quanto si dice, o meglio a quanto dice lui stesso esperto di fumetti e addirittura organizzatori di eventi a tema; ora, quale sia la sua competenza nel settore non è affar mio, potrebbe davvero essere il massimo esponente della cultura fumettistica mondiale ma ho fondati motivi per dubitarne. Si presenta scusandosi per non essersi preparato un discorso, poco male, mi dico, molte volte quella strana prolusione (quasi una timida giustificazione) è propedeutica alle migliori analisi intellettuali, proprio perché non c’è stata una pregressa decostruzione razionale e ci si lascia spingere dalla propria sensibilità e dalle emozioni del momento; ovvio però che l’improvvisazione richieda un quoziente elevato di capacità e di intelletto, persino di sangue freddo. Artaud che parla di Van Gogh senza nessuno studio artistico alle spalle è uno degli immortali capolavori della Cultura mondiale, ma certo che di Artaud non ce ne sono tanti in giro…
Qui inizia la processione dello sconcerto. Perché la prima domanda che il giornalista rivolge a Dirge, dopo una assai confusa e banale introduzione a base di esorcismo della morte e catarsi psichica, verte proprio sul rapporto che lega l’autore alla morte. In un certo senso è una preoccupazione tipicamente italiana quella di voler rendere plastificata ed innocua la morte, il cristianesimo ci ha inculcato una paura talmente grande del giudizio divino da averci resi stupidi e tremanti davanti al mistero del trapasso; così, agli occhi di un intellettuale italiano, un fumetto avente come protagonista una ragazzina non-morta non può che essere un esercizio di catarsi.
Con buona pace quindi di Joe Coleman, Leilah Wendell, Marilyn Manson, e della quasi totalità dell’underground americano che nella estetica della morte ci sguazza, Dirge si trova metaforicamente sul lettino dello psicoanalista a dover rendere conto dei suoi trascorsi personali che possano far dire alla audience (ma al giornalista, principalmente) “ah, ecco disvelato l’arcano!”. In realtà noi siamo circondati dalla morte, c’è la morte esibita nei tg e negli show, sui libri, quella violenta delle guerre e dei serial killer che ormai vanno per la maggiore anche da noi, quella serafica ed altera dell’arte cristiana, dei cimiteri monumentali. Non esiste una morte sola, ce ne sono tante e tutte diverse tra loro.
E, cosa più importante, ogni persona ha un approcio differente; c’è chi se la fa sotto al pensiero di crepare, chi brama la morte come una liberazione, chi con visione stoica se ne frega, chi è incuriosito dalle implicazioni di cultura popolare, chi la studia e chi la evita in tutti i modi. La morte fa parte di tutti noi, è il grande estremo situato all’angolo opposto rispetto alla nascita; è talmente fisiologica e naturale che di morte potremmo parlare persino alla presentazione di una puntata dei Teletubbies, senza dover ricorrere per forza alle estetiche funerarie e gotiche che, nella mente degli intellettuali, sembrerebbero legittimare uno sdilinquimento pre-suicida.
Mentre Dirge risponde dando corpo ad una serie di comprensibili luoghi comuni, io stacco il cervello e vado in rewind interrogandomi seriamente sul perché il giornalista pur dovendo improvvisare non sia riuscito ad escogitare una domanda migliore (qualunque altra domanda sarebbe stata migliore). Non lo so, davvero. Credo che chiunque là tra i presenti avrebbe saputo fare meglio. La sequenza drammatica di inani banalità sulla creazione artistica come esorcismo da opporre ad una presunta paura della morte si è ormai sedimentata nella coscienza del giornalista, e tutto ciò che riesce a proporre sono solo variazioni sul tema.
In realtà la cultura americana, tanto quella mainstream quanto quella popolare ed underground, è popolata dalla morte, da un grado così intenso di fatalità e violenza da rendere mammolette i nostri incalliti mafiosi divenuti pure serial tv. Per un americano la morte è uno spettacolo, grandioso o miserando ma pur sempre uno spettacolo da decorare e da mettere in scena.
E poi ho idea che tutto dovrebbe essere adeguatamente contestualizzato, nel senso che alla presentazione di un fumetto le sovrastrutture intellettuali dovrebbero essere lasciate a casa. Inutile disquisire di Schopenauer e della sua filosofia quando invece l’estrazione underground dei disegni è evidente, e l’unica morte che può interessare è quella di zucchero filato che si trascina tra i giochi di Disneyland.
Invece vedo ancora una volta che a mancare è proprio il senso delle proporzioni e della misura, ennesima brutta figura per i nostri uomini di cultura. Ennesima prova di quanto l’intellettuale sia una macchina ornamentale priva di sostanza.

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