lunedì 12 novembre 2007

Frammenti del Caos





La domanda “dove va questo attimo?” mi fa precipitare fuori dal sonno. “Alla morte fu la mia risposta, e ripresi subito a dormire, così Emil Cioran.
La psicosi della morte si è insinuata come il serpente tentatore tra gli ammassi di lamiere che siamo soliti definire città, agglomerati caotici di devozione pietista sparati in iper-accelerazione fino a raggiungere l’abbraccio emotivo bianco-allucinato di cui parlava Virilio. Linee frastagliate e attrattori ripiegati nel grembo della dissoluzione, stille di sudore che impongono all’essere umano di alzarsi nel cuore della notte quando ancora sono solo i neon a irradiare timide secrezioni luminescenti ed ambrate contro le pareti graffitate, gli impongono una definizione deprivata, povera, succube dell’incubo; perché, non nascondiamocelo, la morte è stata elevata a incubo satanizzato.
Uno spettro aleggia tra i respiri sinuosi del vento, e quello spettro è la morte. Una volta, non troppo tempo fa si direbbe, la morte non era tanto diversa dalla pallida e scarna figura nero-vestita che ne Il Settimo Sigillo di Bergman si intrattiene a giocare a scacchi con il cavaliere, caratterizzazione in celluloide dell’afflato dureriano, stessa grandezza espressiva, stessa intensità emotiva; ci si fermava a colloquiare, a intrattenere gli attimi fuggiti consci che davvero l’uomo non è che un inno distrutto, per citare ancora Cioran.
I nostri Maestri, affermava giustamente Drieu, ci hanno insegnato a considerare la morte come un dato ineliminabile della condizione umana, né ad odiarla né a bramarla stupidamente; la morte sta lì, ferma, immobile al centro dell’universo sotterraneo dove i desideri si intrecciano in languide sinfonie con le frustrazioni ed un ideale consuntivo dell’esistenza emerge e risorge come l’Araba Fenice delle possibilità. La morte non ha e non deve avere un senso specifico, non la si può razionalizzare come fosse una formuletta matematica; la consunzione dei tessuti non è che una devoluzione al momento fisiologico di un livello superiore, di un attimo ininterrotto e trascendente che decade a realtà nel momento stesso della venuta ad esistenza.
Oggi invece, nell’abbacinante frastuono del post-fordismo produttivo, anche la morte non è che una categoria della merceologia, strumento sensibile del marketing pubblicitario. Diventata poco più che un gingillo per adornarsi di nero e teschi senza avere la minima idea di cosa si stia facendo, se non sentire in fondo alla bocca quel retrogusto amaro della plastica.
Rivitalizzare la morte sarebbe una opera assai ironica. Degna certo dello humour nero di bretoniana memoria; infondere il pneuma divino nella consunzione delle ossa macinate dal tempo per raggiungere una gloria personale e mitizzante, proprio come i viandanti dei dipinti di Friedrich.
Nel quadro La Rovina di Eldena si scorge la sagoma imponente di una abbazia decaduta, tra i cui torrioni franati è cresciuta rigogliosa la vegetazione; ai piedi della costruzione, cinta da palizzate di roccia e da alberi scheletrici che supplici si ramificano verso un cielo plumbeo, sorge una casa verosimilmente abbandonata, un lineare memento mori atto a rammentare la caducità dell’esperienza umana.
Come in tutti i dipinti di Friedrich anche in questo si vede chiaramente una assenza, e per quanto possa essere paradossale avvicinare due concetti tra loro in apparenza distanti come vista e assenza non ho dubbi sul fatto che l’assenza nei dipinti romantici sia protagonista di olio e carne; l’assenza è la protagonista assoluta ed assolutizzata nella sua mancanza di presenza, di tratto grafico, il non esserci del punto di riferimento che sdilinquisce la visuale dello spettatore. Esattamente come la morte, che rappresenta della vita una grande parte in assenza.
Nel dipinto di Friedrich, come più in generale nella totalità della sua opera, la desolazione dello sguardo d’insieme viene incupita dai colori scuri, dalla natura rigogliosa e selvaggia e dall’assenza appunto di figure umane con cui ci si possa interfacciare emotivamente; una sofferenza spartana, nordicamente accettata, balugina tra creste di fiamma, in quei tramonti pieni e pastosi che si stendono tra la roccia della Tomba di Ulrich Von Hutten, altro pregevole dipinto friedrichiano. Un sole morente, pallido, raggi arancioni appena accennati penetrano tra fessure architettoniche per rischiarare leggermente il monumento coperto dall’erba selvatica. Un viandante è piegato in avanti per leggere l’iscrizione funebre inscritta sul marmo.
La morte è lì. In quella sala ingombra di pietra franata e verde smeraldo.
E nonostante un uomo, vivo ed in carne e sangue e ossa non ancora disfatte, se ne stia lì fiero ed in piedi giusto leggermente curvo, la morte la puoi vedere. Annusare persino.
Si pensa generalmente che la morte sia una esperienza di solitudine. Interiore, spirituale ed anche morfologica, la consunzione dei tessuti, il disfacimento della lucidità, l’oblio dei sensi e il rigoglio delle memorie passate e dei rimpianti. Eppure, chi ha vissuto davvero, in maniera piena e meravigliosa, non muore nutrendo rimpianti; “uomo è a te che penso”, ammonisce gelidamente Knut Hamsun nel suo straziante epitaffio letterario, Per i Sentieri dove cresce l’Erba, il soffio del vento sui fiordi diventa una mano fredda che carezza il volto del morente e davanti cui si stende l’intero passato.
Rivitalizzarla questa accettazione della morte, come ci insegnavano i Tibetani e gli Indiani ed i Greci nel loro pazzo morire istantaneo, così metafisicamente proteso alla ricerca dell’Assoluto e dell’Imperativo, non potrebbe che farci scoprire tutto quello che abbiamo perso. Ecco la tragicità della condizione umana moderna, in cui la morte è feticizzata per motivi commerciali; resa schiava dei cicli produttivi, buona per qualche film horror privo di consistenza narrativa ed etica, venduta, mercificata, reificata, abbassata ad elemento dialettico-sociale di livellamento tra classi questa morte è solo una maschera di Halloween.
Una forza in grado di liberare la morte è il Caos. Lo sguardo lucido e gelido del Caos.
Come una fiaccola accesa nel ventre nero della notte, in grado di guidarci per via al sordo rullio dei tamburi rammentando i versi di Holderlin “e perché i poeti nel tempo del bisogno? / ma sono, dici, come i sacri sacerdoti di Bacco /che di paese in paese, / errano nella notte santa”, il Caos è davvero la stella danzante nietzschana, quella meravigliosa stella luminescente che ci para davanti durante il corso della marcia perché come noto siamo e riusciamo ad essere liberi solo laddove siamo maggiormente in pericolo.
Viviamo in una gigantesca e titanica terra del tramonto, tanto per riprendere la notazione heideggeriana; i bagliori del crepuscolo si stendono come un sudario di prima tenebra sui lineamenti delle nostre speranze, e ci impediscono di vivere compiutamente. Mutili della coscienza di morte, non possiamo che vagare come raminghi, come gli indovini di Dante che procedono con il capo voltato.
Sarà il Caos a salvarci. Quella forza immane e tellurica in grado di dissotterrare dal centro del mondo l’Aghartha della pazienza. Ordine nel caos, certo.”Come i moti di figure danzanti in una sala da ballo illuminata da una luce intensa in cui si guarda dal buio della notte all’esterno e da una distanza tale che non si sente la musica…la vita può apparire senza senso”. Le oscillazioni del pendolo della natura ci costringono a confrontarci con l’immane potere della morte. Finalmente, è lo sforzo, il sacrificio sublimato nella devastante attesa della fine, che ci eleva sopra mari di nebbia, a guardare come pullulare di formiche la vita quotidiana di chi non si è risvegliato.
E’ la non-linearità a determinare l’evoluzione del suono e la sua non-percezione; a confondere i sensi, ad alterare e mutare il contesto e all’interno di esso il traslarsi dal piano della forma a quello della sostanza. Come nella vita, è proprio la non-linearità del nostro divenire, la consistenza non normativa e non rigidamente strutturata delle aspirazioni a dare un senso alla presenza della morte.
Genuino e lucido cantore del Caos, il poco conosciuto ed eccellente Albert Caraco, ci dice a più riprese nel suo Breviario del Caos che “siamo già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini : noi moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono ridotti a torrenti e l’oceano entra a sua volta in agonia, ma la fede, la morale, l’ordine e l’interesse materiale si uniscono per condannarci alla tribolazione, alle religioni occorrono fedeli, alle nazioni difensori, agli industriali consumatori, il che significa che a tutti occorrono bambini, non importa quello che ne sarà una volta diventati adulti”; grida con accorata fermezza quanto orrido sia il mondo moderno, avvinto solo dalla preoccupazione di sviluppare un corpus letterario che vada di pari passo con la sua esistenza.
Caraco non considera la morte un passaggio, né necessariamente una liberazione. La chiama a sé per non sopravvivere al padre, come aveva avuto modo di spiegare nelle sue Confessioni, “attendo la morte con impazienza e arrivo ad augurarmi il decesso di mio padre, poiché non oso uccidermi prima che se ne vada. Il suo corpo non sarà freddo quando io non sarò più al mondo”; si avvelena coi barbiturici e si taglia la gola come prova totale di una lucida determinazione. Non lascia traccia di una qualche confusione, di un pentimento o di un dolore esistenziale che non sia invece sublimazione espressa della desolazione umana.
Si scaglia contro tutto. Contro tutti. Contro le cattedrali costruite nel deserto su cui si adagiano ondate di sabbia, la demografia folle ed impazzita, la religione, il vivere quotidiano che siamo soliti definire civile e che invece è solo una maschera di perversione e freddezza emotiva.
Sempre nel Breviario del Caos, Caraco scrive “le città che abitiamo sono scuole di morte perché sono disumane. Ognuna di esse è diventata il ricettacolo del frastuono e del tanfo, poiché ognuna è diventata un caos d'edifici, dove ci ammassiamo a milioni smarrendo le nostre ragioni di vita. Sventurati senza scampo, sentiamo di esserci cacciati, volenti o nolenti, nel labirinto dell'assurdo, da cui non usciremo che morti, giacché il nostro destino e continuare a moltiplicarci unicamente per morire innumerevoli”. In ogni singola linea scritta dall’autore francese emerge il senso abissale di una perdita, di una profonda assenza, quasi uno spettro scuoiato che vada in cerca tra cripte e catacombe della sua propria dimensione; ha uno stile raffinato, classicheggiante Caraco, dispone le singole parole in un ordine preciso e sontuoso, come note di seta su di un pentagramma, e poi sta lì a guardarle prendere vita.
Le vede emergere dall’ombra insondabile dell’assenza, eccole frementi e gelide di sangue ghiacciato, portano con loro un tragico messaggio di dissoluzione e di verità; non è un esteta, né un profeta, anche se assomma il nitore del primo e il dolore del secondo, vive attraverso percorsi di solitudine, conduce una non-esistenza di isolamento incupito tra scaffali colmi di libri ed una famiglia cui è molto legato.
Il ghiaccio di Cioran, lo splendore cinico di Celine, stalattiti di odio alla deriva nell’oceano della decadenza, nell’opera di Caraco si trova tutto ciò; lo smarrimento iniziale lascia il posto ad un desiderio furibondo di nichilismo, nichilismo della penombra e dei chiaroscuri. In ogni angolo, in ogni via poco illuminata dove qualche cane va a pisciare, davanti le insegne neon di qualche bordello, un Caraco attende il suo turno per gridare in faccia al mondo il suo odio.
Nichilismo della notte, una notte infinita, assurda, magmatica, che stende i suoi tentacoli neri fin dove lo sguardo possa arrivare; non c’è altra soluzione se non la distruzione totale, la buona distruzione rigeneratrice che appicchi le fiamme alla carcasse della civilizzazione e poi se ne stia in disparte su qualche balcone ad osservare intonando il de profundis dell’umanità.
Le nostre religioni sono pestilenze e i poteri che le appoggiano congiure di avvelenatori, la nostra spiritualità non è che una masturbazione delle facoltà mentali, ormai abbiamo bisogno di tutte le nostre risorse se vogliamo ripensare il mondo, un mondo in cui l'uomo è l'unico padrone della vita e della morte, l'unico, si badi bene, perché l'alibi metafisico viene ormai definitivamente a cadere, e non possiamo nasconderci dietro la nostra impotenza”, come nel Trionfo della Morte di Brueghel scheletri a cavallo e carri carichi di cadaveri e decomposizione si aggirano per la scena cercando di non lasciare scampo ai parassiti umani in fuga e così, allo stesso tempo, il disincanto ultra-violetto di Caraco ci indica una strada infernale, battuta dai venti, sotterranea e sulfurea; una strada di sofferenza e morte.
Non si è mai detto sia piacevole diventare Cantori dell’Apocalisse e del Caos, non c’è nulla di particolarmente eccitante o intellettualmente intrigante; non si guadagnano i salotti letterari o televisivi sbattendo in faccia all’uomo la sua vera disgustosa natura.
Come Dino Campana, ebbro dei suoi stessi versi, scamiciato e scarmigliato, isolato dalla società senza che la società abbia mai saputo che Campana si era già isolato per conto suo, per non dover condividere l’aria con la fogna antropologica.
Splendido esempio di odio e di amore per la morte, lasciate che il Caos sommerga i resti della civiltà moderna, ponga fine allo squallore generalizzato, sarà poi il futuro a dire se avevamo torto o ragione.

3 commenti:

mod ha detto...

Non ho capito niente...con tutte 'ste citazioni difficilissimi e complicatissimi (vuol dire che se fossero stati due o tre, sarei andata alla ricerca, per capire meglio, ma visto l'ondata, m'arrendo subito)....non ho capito cosa ne pensi tu della morte....tu e basta.
poi magari ti dico anche cosa ne penso io...
potrebbe essere interessante.

love, mod

AV ha detto...

le citazioni non sono un mero ornamento ma sono pienamente funzionali al discorso; le metto perchè le condivido e perchè sono certo che quegli autori hanno espresso quei concetti in maniera decisamente più limpida e chiara di quanto non potrei fare io. La mia personale visione quindi sta in ogni singola riga, in ogni virgola. Ad ogni modo se proprio vuoi una formulazione netta, lì dove parlo dei "nostri maestri ci hanno insegnato", lì trovi quello che credo stessi cercando

Anonimo ha detto...

grazie per la risposta...in effetti si intuisce. non volevo dire che le citazioni le hai messe come ornamento o altro. volevo esprimere la mia posizione indifesa di fronte al tuo discorso che è un fiume in piena. pietà... :-)
love, mod