martedì 29 gennaio 2008

La Cura dell'Odio






Chissà a cosa pensavano i tecnici ed i fonici chiamati ad installare il sistema audio dentro e fuori il Tribunale di Como in vista dell’happening criminologico del momento, il processo ad Olindo e Rosa; non è stata una normale giornata lavorativa per loro, poco ma sicuro. Circondati da gente in fila, curiosi, giornalisti, poliziotti, il consueto via vai di magistrati e avvocati, e con quella fredda aria resa ancora più pungente da tutti gli occhi d’Italia puntati addosso.
La celebrazione mediatica di un processo e la decostruzione semipornografica di un fatto di sangue non rappresentano ormai una novità; siamo abituati da anni a vedere madri assassine piangere e proclamare la loro innocenza, plastici del luogo del delitto (ciò che con insopportabile protervia si definisce scena del crimine…scena, come se si trattasse di un teatro di posa, di un locus slegato per sempre dalla sua dimensione di carne e morte e divenisse una mera replica olografica; non a caso si tratta di una dizione propria della criminologia americana), scrittori improvvisati criminologi che con l’aiuto delle unità investigative replicano come copia originante da nessun originale l’estasi ed il martirio della criminologia e ci propongono/propinano le fasi evolutive del delitto.
Siamo persino abituati a comprare, come fosse merce, l’assassinio; entrate in una libreria e fatevi un giro tra gli scaffali di sociologia e psicologia e noterete che abuso sessuale, omicidio, serial killer vanno per la maggiore e vendono benissimo. Mesi fa ho dato conto, in una breve panoramica, di quanti libri sul delitto seriale siano stati pubblicati in Italia negli ultimi tempi, intere collane precipitosamente messe su dalle case editrici quando ci si è resi conto che la domanda era impetuosa; persino collane da edicola, approfondimenti sui quotidiani. Dvd modulati sulla frequenza di un CSI genuino. Cronaca nera sbattuta in faccia senza tanti complimenti.
Quando nel 1995 iniziai a scrivere su Halogen, allora era il suo primo anno, avevo negli anni precedenti raccolto una certa mole di materiali su assassini seriali e vari delitti, e avevo composto una sorta di personale archivio, quasi una ragnatela fatta di libri (americani, per la maggior parte), corrispondenze intrattenute con autentici killer e items da collezionisti sempre di provenienza anglo-americana; internet non c’era ancora, non era diffuso come oggi e quindi la distanza faceva valere il suo peso. Quando mi capitava di andare in vacanza in Inghilterra, le prime famigerate vacanze-studio per imparare la lingua, me ne tornavo con lo zaino pieno di libri true crime; d’altronde leggere in lingua originale è un ottimo esercizio di apprendimento e ai miei genitori importava relativamente quale fosse l’oggetto dei libri che avevo comprato. Ma in Italia questo interesse non esisteva, era appannaggio di due distinte Elite, le quali generalmente non erano a contatto; da un lato gli accademici, i primi criminologi, gli psichiatri tutti raccolti nelle loro torri di sapere, dall’altro lato invece gli entusiasti underground che celebravano nella psicosi delittuosa l’incarnazione del Libertino sadiano.

Generalmente, per chi si dibatteva nell’Underground il criminologo istituzionale rappresentava (e rappresenta ancora) poco più di un voyeur ipocrita e legittimato nelle sue scorribande dall’aura santificatrice della voglia di conoscenza e dello studio. Al contrario, gli psichiatri guardavano e guardano a queste esplosioni di entusiasta empatia con gli psicopatici come fenomeni di devianza la cui intensità sarebbe bene monitorare. Non si è mai arrivati ad una resa dei conti, soprattutto perché la mole dei fans del delitto seriale in Italia non ha mai costituito numericamente e qualitativamente una seria minaccia al business della criminologia universitaria.
Così quando decisi di autopubblicare le mie analisi sull’assassinio, fui ben conscio che sarei finito in una delle due categorie; intendiamoci, non era una bella prospettiva. Da un lato il concetto stesso di “fan” mi ripugna, perché presuppone una volontà alterata, dimidiata, un supino modellarsi sulla morfologia di un soggetto altro. Dall’altro invece il grigiore dell’accademia mi ripugnava dal profondo del cuore, mi faceva schifo quel tasso insopportabile di ipocrisia che se possibile negli ultimi tempi è persino aumentato. A me non interessava parlare del delitto seriale in termini tecnici, né proporre soluzioni preventive o di cura; non mi interessa nemmeno oggi, anche perché chi tenta di delineare una cura preventiva per evitare che un delitto seriale venga commesso o non ha capito nulla oppure è in malafede. Mi interessava, assai più prosaicamente, definire una mia pornografia personale intessuta di tutte quelle emozioni così urgenti e viscerali che in teoria dovrebbero animare la buona pornografia.
Perchè in fondo il porno non dovrebbe essere innocuo, consolatorio, non dovrebbe vezzeggiare lo spettatore né coccolarlo teneramente promettendogli una comoda sega da divano; al contrario, dovrebbe aggredirlo, porlo in discussione, mettergli davanti un magma di confuse emozioni. E lo stesso, sia detto per inciso, vale per l’Arte, degradata ormai a esibizione fatua di accomodamento con lo Status Quo.
Non pretendevo di essere originale, come non lo pretendo ora. L’originalità non esiste più, ormai la vera sfida è dire ciò che è stato già detto ma in maniera adeguatamente contestualizzata alle esigenze personali, utilizzando i residui dell’intelligenza che una dieta a base di televisione e deprivazione culturale ci ha lasciato. Avrei scoperto anni dopo che autori come Peter Sotos e Dennis Cooper avevano fatto qualcosa di assai simile, e con esiti certo più brillanti. Ma come ripeto, all’epoca le informazioni circolavano in modo limitato.
Il mio punto di partenza è stato Sade. Tutto viene da lì. Precisamente da Le 120 Giornate di Sodoma, che per tanti e tanti motivi è un testo-limite, un confine oltre cui non è possibile andare. Un libro arduo, ripetitivo, monotono come solo i grandi testi sapienziali e religiosi possono essere, un viaggio sfiancante in un sottosuolo demonico. Quando si esce, se se ne esce, dalla lettura dell’opus sadiano si è cerebralmente sfiancati, provati, si è attraversato un deserto in cui il desiderio balugina come un sinistro sole d’inferno.Le prime righe di Halogen, i primi tentativi, abbozzi e persino aborti tradiscono buona volontà ma anche una ingenuità degna di miglior causa. Eppure un certo valore in quel tentativo c’era. Non mi risulta che ci siano stati molti tentativi in Italia di trattare la materia criminologica, tutto quanto va sotto la generica dizione di cronaca nera, come fosse pornografia. Non volevo celebrare gli assassini seriali, mi interessavano le loro azioni e le conseguenze, in termini emozionali, di quelle azioni; le reazioni affrante dei media, dei parenti delle vittime, le biografie delle vittime. Il carnefice finiva per scomparire, per sdilinquirsi e perdere importanza davanti all’esigenza di immedesimazione tra la mia scrittura e il piacere oscuro del delitto.
Unire tra loro in carnale simbiosi omicidio e pornografia, insegnamento princeps di Sade, attingendo ai più atroci casi di cronaca nera, era attività che negli anni novanta non veniva vista di buon occhio; forse, ad alcune condizioni, nemmeno oggi, ma allora la situazione era decisamente più preoccupante. Si considerino questi punti; l’ignoranza del comune uomo della strada in termini di delitto seriale, l’aver giusto sentito nominare la parola “serial killer”, predisponeva la società ad una ritrosia feroce. Mi capitò persino di sentirmi dire che avrei potuto creare “una epidemia”, una sorta di effetto emulazione, una fascinazione per quei delitti…ironico, se visto con il senno del poi, e alla luce di quanto ingolfa oggi i palinsesti tv. “pervertito” e “depravato” erano le definizioni che andavano per la maggiore, dopo aver distribuito i primi numeri di Halogen ebbi anche un abbozzo di analisi psichiatrica da parte di un anonimo cuor di leone che, a quanto pare, aveva letto la rivistina a casa di un abbonato; vi risparmio la solita sequela, prevedibile, di “frustrazione”, “impotenza”, e via dicendo. Nulla di nuovo, nulla di interessante, se non forse nei termini di una analisi di chi aveva scritto quelle righe.
Diciamo che all’epoca interessarsi di argomenti scabrosi come pedofilia, violenza sessuale e omicidio sadico non era il miglior biglietto da visita per entrare nel club dei socialmente rispettabili. Se poi a ciò si aggiunge che non vi era l’alibi culturale del “voler capire le ragioni” ma solo un viscerale impulso pornografico, bè fatevi due conti e tirate le vostre conclusioni su quale potesse essere la mia fama.
In realtà non sono mai stato un masochista; non lo facevo per alienarmi simpatie, per farmi tabula rasa attorno, certo ho sempre nutrito un disprezzo asoluto per il genere umano di oggi, per questo degradato ammasso di punti di carne, ma nemmeno la misantropia forniva adeguata giustificazione. E nemmeno un frainteso senso di super-omismo, magari devoluto al porre un argine che mi separasse dal consesso dei probi. Molto più semplicemente, e molto più banalmente, lo facevo perché lo volevo fare. Perché mi piaceva farlo. Mi gratificava reperire quei materiali, metterli assieme, scrivere e porre il tutto in una luce più soddisfacente per quelli che sono i miei gusti. Motivazioni profane, e incomprensibili per chi è abituato ad incasellare tutto in griglie comportamentali.
E intendiamoci bene, non mi interessava nemmeno un quoziente di provocazione fine a se stessa; non c’è nulla che sia degno di essere provocato, a meno che non si stia parlando di energie interiori ed impulsi metasessuali.
Adesso però la musica è radicalmente cambiata; in un quadro di generale accettazione di certe tematiche, in una società che tollera l’acquisto da parte di stimabili cittadini di libri che contengono descrizioni precise e vivide di cannibalismo, sevizie sessuali, stupri, omicidi, e che propone mediaticamente analisi quasi pornografiche di omicidi ed eventi di cronaca nera, tutto ciò che scrivo diventa altro. Me ne sono reso conto da ultimo.

Fornisco un commento sociologico sulle dinamiche comunicative, una critica dell’ipocrisia dei media che condanna da un lato emulazione e morbosità e poi dall’altro pastura nell’oggetto oscuro del desiderio. Non vorrei fornirlo, non mi interessa fornirlo, così come continua a non interessarmi il delineare uno scenario di shock culturale, di provocazione artistica…eppure è tutto cambiato, la Fortezza Bastiani dentro cui mi nascondevo aspettando i barbari è crollata in modo sonoro e disgustoso. L’accelerazione del degrado sociale mi ha sommerso.
Probabilmente una persona potrebbe indignarsi per ciò che ho scritto e che in una qualche misura (anche se meno di prima) continuo a scrivere, perché la pornografia non è mai tollerata, soprattutto quando è sincera ed ha qualcosa da dire; l’ipocrisia regna sovrana e la casalinga che si masturba il cervello tra Cogne e il massacro di Erba non ammetterà mai di farlo. Dirà assai semplicemente che vuole essere informata e al corrente dei fatti. Tanto per avere qualcosa di cui parlare dal parrucchiere o mentre fa la fila in posta.
Questa volgarizzazione dell’omicidio è disgustosa. E non lo dico per moralismo; non tutelo il presunto valore sacrale dell’esistenza umana. Non potrebbe interessarmene di meno, detto francamente. Ma mi infastidisce l’idea che queste schiere di persone si crogiolino nell’ipocrisia più pura, che leggano e guardino la tv senza sapere bene perché, che agiscano in punta di istinti mai del tutto compresi e razionalizzati.
Adesso davanti al processo di Erba/Como trasformato in arena rock, persino le cose che scrivevo nel 1995 impallidiscono e scolorano visibilmente. Davanti alla caccia al biglietto, nemmeno suonassero i riformati Pink Floyd, davanti alla ressa, alla calca, ai flash dei fotografi, tutto quello che ho scritto e che scrivo assume una luce diversa. Diviene altro. Altro da se stesso.
E la cosa peggiore è che adesso sono io a suonare come un moralista.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

In realtà trovo questa spettacolarizzazione dell'omicidio estremamente divertente, o meglio, ironica, forse patetica, ma non riesco a contenere una grassa risata che tutto ciò fà esplodere sul mio viso. Massaie dalla vita vuota che trovano, seppur inconsciamente, una loro pornografia. Un fremito di piacere dietro quel ostentato disgusto, che le fà fremere come non succederà loro neanche dopo innumerevoli amplessi noiosi con i loro degni mariti puttanieri. Ebbene si, non lo ammetterebbero mai, tanto più dinnanzi a loro stesse, ma è il massimo. Minuziose descrizioni di infanticidi, bagni di sangue, massacri familiari, stupri e altre gesta messe in atto in nome del piacere, e di impulsi puri e viscerali; si preoccupano di deprecarli, parlandone dalla parrucchiera, in un piccolo non-dibattito o polpettone di banalità, moralismi, particolari e televisione, ma divorano il nuovo reparto di criminologia in libreria, se non dall'edicolante, imboccati da criminologi e opinionisti della domenica, come fosse l'ultimo barlume d'emozione nella loro vita. Spettacolarizzazione in nome d'una vita surrogata, succhiando la pappetta e già pronti per la fossa. La forte risata si tramuta in nausea e vomito. In compenso c'è sempre la possibilità di ritrovarsi ancor più increduli e divertiti, talvolta, ormai sempre più spesso invoco la censura, a cui ovviamente presiederei. Intanto mi godo la mia pornografia personale, e osservo ridendomela, almeno oggi che sono quasi di buon umore. Domani i conati.

AV ha detto...

innanzitutto, e questo vale per tutti e tre i commenti che hai lasciato, è un piacere leggerti e vederti su questi lidi :)
Per il resto hai perfettamente ragione, e sai che siamo sulla stessa lunghezza d'onda; se questi inetti avessero l'onestà intellettuale di dire che vanno lì ad assistere per compiacere un profondo senso di morbosità metasessuale, allora non avrei nulla da obiettare. E me ne starei in silenzio. Invece bisogna pure ingoiare i loro pistolotti moralistici, di indignata empatia sul bimbo morto o sulle carni bruciate, mentre poi nel segreto ci si masturbano sopra...tutto questo circo mediatico sta andando incontro ad un cortocircuito di proporzioni inaudite, con l'incistamento di cronaca nera e cronaca rosa, diventa persino difficile trovare qualcosa di interessante quando troppi maiali si gettano a pasteggiare nel fango. Ultimamente sono usciti libri patetici, risibili su delitto seriale, sette sataniche, assassinii vari, la qualità non si è mai elevata, le analisi continuano ad essere grossolani cloni di quelle che in America erano già vecchie 10 anni fa, in Italia importiamo CSI e lo cloniamo coi RIS, stiamo rendendo stupido e volgare persino l'omicidio...

Anonimo ha detto...

Considerazioni cristalline.
Niente di cui meravigliarsi, comunque: perchè l'omicidio e la violenza scatenantesi in furia distruttiva dovrebbero fare eccezione?
La banalità degli automi spermatici fagocita tutto, rende tutto digeribile per i loro stomaci ipocriti e tritatutto... nessun bisogno di essere stupiti.

P.S.: "Non c’è nulla che sia degno di essere provocato, a meno che non si stia parlando di energie interiori ed impulsi metasessuali"... Una gran verità.

AV ha detto...

Originariamente La Cura dell'Odio avrebbe dovuto avere altra consistenza, e si sarebbe dovuto inserire nel contesto de I Frammenti del Caos, ideale seguito del libro parcheggiato tra i corridoi della Coniglio Editore (quando lo pubblicheranno, intonerò il gaudeamus igitur). Una sorta di metodologia su come rendere produttivo l'odio, secondo l'insegnamento di Kraus, e quindi canalizzare e utilizzare tutti gli input di decadenza che ci circondano. In una certa misura, alcuni aspetti di questo tipo li si possono rinvenire tra queste righe, anche se ormai la componente maggioritaria è quella di una presa d'atto di come si sia morfologicamente ricontestualizzato ciò che scrivo nell'arco temporale di 13 anni...una testimonianza dell'accelerazione del costume, e appunto una presa d'atto "a fini interni".
Sulla provocazione invece mi sono dilungato in Gli Idoli Anonimi,che nasce da uno spunto preso tra le pagine mirabili di Caraco