venerdì 29 gennaio 2010

Divora il prossimo tuo




"Un pompino al buio non è un pompino"
Peter Sotos


Puoi quasi vederlo; immerso nel desolante silenzio della campagna tedesca, chiuso in una stanza dell'enorme dimora ottocentesca così tragicamente simile ad una fabbrica vittoriana o alla casa di Norman Bates, se ne sta a battere tasti di computer il riverbero azzurrognolo dello schermo quasi lo acceca un caffè dopo l'altro una dimensione esistenziale deprivata persa sventrata dietro l'impossibile chimera di un sogno, di un desiderio.
Di una ossessione.
Armin Meiwes si muove con un nickname, un nomignolo, un ectoplasma di pixel e mouse, disegna scenari ellittici di sesso estremo nel cuore pulsante di chat per depravati e per gente che ritiene il sadomaso una cagata per bambocci viziati, gente che anela a qualcosa di ulteriore tra vasche infognate nella disperazione suburbana e genitori malati di cancro.
Corpi decomposti - il suo cuore batte forte mentre compone annunci, scrive chiaramente cosa cerca, scrive altrettanto chiaramente chi cerca. Le mail in entrata sono un campionario di squallore antropologico, nulla che davvero lo interessi o che susciti la sua ammirazione, legge in sequenza i messaggi inutili, stereotipati, plasticamente trasgressivi. Ma fiuta la loro falsità; nonostante la Lan, nonostante la connessione e la distanza e l'asettica consistenza di monitor e stanze metropolitane e locali gay, capisce che lo stanno prendendo in giro.
E' un destino tragico, da bile nera, da foresta di smeraldi, e da solitudine che lo sta facendo impazzire; non vuole una spalla su cui piangere, anche se un pò patetico lo è. Dobbiamo ammetterlo; Armin è un uomo isolato, povero di spirito, scarsamente interessante, ma non è un imbecille e a differenza di tanti altri sedicenti surfisti della perversione, lui sa cosa va cercando.
Non a caso ha allestito una rugginosa, polverosa, scrostata e fatiscente camera di tortura, così lontana dall'iconografia scintillante di latex e borchie del SM; una sorta di macello privato, con un tavolo verdastro e un tubolare neon poco luminoso ma parecchio coreografico, c'è persino una vasca sudicia e sulla parete settentrionale disposti in bella fila gli strumenti del bricolage psicopatico, seghe, coltelli, macchinari di godimento sanguinolento, attrezzatura per cannibali allo stadio terminale della libido.
Ha sogni di carcasse estroflesse, di carne addentata assaporata cruda strappata con crudele determinazione dalle ossa e dalla colonna vertebrale, morsi purpurei alla lingua, frutto di mare che si dibatte impazzito tra le urla della vittima; diventare uno con l'oggetto amato, la perfezione della vittima. Un debosciato senza futuro.
Armin non si accontenta della bassa macelleria, delle fantasie spersonalizzanti; si cura davvero della personalità della sua vittima, non ha fantasie sdilinquite e generalizzate, ma una ossessione precisa, accurata, che lo muove e che lo guida quando di notte si piazza davanti lo schermo del pc e si perde nella selva digitale. Per cercare l'oggetto del suo amore.
Sa che la ricerca computerizzata dovrà cessare, dovrà diventare un incontro reale, pratico, una stretta di mano, un patto siglato con il sangue e le cicatrici e i tagli suppurati, tortura, baci, dolore, morte e rinascita attraverso un lauto banchetto di carne umana. Vuole vedere l'uomo succhiargli il cazzo, senza denti; glieli avrà strappati prima con le pinze, per lasciare che quella bavetta rossastra e sofferente gli coli sulla cappella mentre l'amato lo spompina con dolorosa partecipazione.
Gli caverà gli occhi, e gli troncherà con le forbici i capezzoli; se li porterà delicatamente alla bocca, ne assaporerà la consistenza spugnosa da giuggiola, per poi inghiottirli. Davanti a lui non un manichino insanguinato ma un amore puro, assoluto, il suo amore. Che a breve entrerà a far parte della sua esistenza.
Entrerà dentro di lui.
Letteralmente.

Nessun commento: