sabato 6 settembre 2008

Nan Goldin - la dipendenza dalle emozioni


Amo la fotografia di Nan Goldin.
Personale, triste, vagabonda, di atmosfera urbana, permeata di profonde emozioni, specchio perfetto e limpido dell'anima della fotografa, intersezione immaginifica di esistenze, fallimenti, derive umane, bar e peep show, travestiti, abuso di droga, violenza familiare, la sofferenza della solitudine, appartamenti dimenticati e incistati nel fianco di alveari cementificati, luna park con siringhe infisse sulle giostre, confusione sessuale, volti sporchi, volti stralunati, volti perduti anche quando apparentemente carichi d'amore, volti devastati dalla droga e dalla malattia, scatti che non fingono, scatti che dicono molto sull'artista e molto sui soggetti fotografati, oggetto di un desiderio e di una paura con cui non si è mai venuti a patti.
Nan Goldin ha sofferto. E molto. Innegabile.
Il suicidio della sorella. L'infanzia problematica, e isolazionisticamente condotta nel tentativo di cristallizzare i pochi attimi felici. Una casa povera, dispersa in uno di quei sobborghi che portano alla mente le atmosfere alla Furore di Steinbeck. Ritratto di una famiglia americana, verrebbe da dire, gotico metropolitano dalle sfumature post-moderne, storie di viaggi e di ritorni e di treni che si disperdono nel ventre sibilante della notte, distributori di benzina, neon rossi e tremolanti.
La Goldin, prima di studiare all'accademia delle belle arti, ha realizzato un notevole corpus di scatti istantanei in bianco/nero, senza raffinate soluzioni tecniche ma dettati da una vorace ricerca interiore; la fotografa ha immortalato chiunque le si sia avvicinato nel corso dei suoi anni, anni problematici va detto.
Il suo trasferimento a New York segna l' avvicinamento alla scena sex-oriented e al punk; assiste a concerti, defenestrazioni sociali, degrado, prostituzione, le esperienze di Times Square, droga e abuso di alcolici, lei stessa ne è vittima, succube, fino alla quasi nullificazione. Gran parte dei suoi amici e dei suoi collaboratori muoiono, di over-dose, di AIDS, tremende forme di morte-in-vita, lento emotivamente doloroso disfacimento durante il corso dell'esistenza. Sperimenta col colore, e l'impatto dei suoi scatti ne beneficia; gli ambienti si rendono claustrofobici, ristretti, perchè la Goldin conferisce ad ogni sua foto la sensazione di una immediatezza urgente e viscerale, si ha l'impressione che rubi le sue foto, vampirizzi gli improvvisati modelli. Anche se in alcuni casi si tratta di articolate ed accurate messe in posa.
Le sue esibizioni si legano funzionalmente alla decadenza del tessuto urbano di New York. Il Punk è davvero morto? Nessuno potrà dirlo, ma certamente gran parte dei soggetti fotografati dalla Goldin lo sono; il peso della morte della sorella e di cento mille altre morti, costringono la Goldin ad una sistematica introspezione.
Ciò che adoro è proprio l'aderenza totalizzante del suo patrimonio emozionale ed esistenziale alla poetica artistica, non finge, non costruisce sovrastrutture ideologiche o fintamente intellettuali. Trovi la disperazione di Kent Klich, l'afrore baccanalesco di un Antoine D'Agata, le luci virate e vorticanti di una Olivia Gay, i contesti socialmente deprivatidi uno Stephen Shames, ma come valore aggiunto la vita stessa della Goldin. A volte capita di eleggere un artista a paradigma e a summa a cui paragonare l'opera di altri artisti; a me è capitato, durante l'esibizione di Nobuyoshi Araki tenutasi a Roma lo scorso inverno, di citare gli scatti della Goldin in maniera continua.
Tra quei saloni, colloquiando intensamente con A3bla, che la fotografia la pratica ma soprattutto la vive e in cui scorgo le stesse esigenze della Goldin pur con differenze strutturali legate alla formazione diversa, mi sono reso conto che le cascate di polaroid di Araki conciliavano in me quell'overload emozionale, quella ricerca palese e sofferente che anche la fotografia della Goldin è sempre stata in grado di originare. Non a caso i due hanno collaborato, mi dico.
Pur se la Goldin resta una spanna sopra Araki. Più sentita. Più dolorosa ed incupita. Più vera. Per quanto pure Araki faccia della immediatezza il fulcro della sua opera, la Goldin resta insuperata.
Trasmette emozioni a ruota libera, sangue che pulsa nelle vene. Come un Bacon prestato allo scatto fotografico, anche in lei si trova la pesantezza (a tratti insostenibile) della vita.

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