martedì 9 settembre 2008

La Ballata del Crack



Addossate al muro graffitato, voi troie sembrate tutte uguali.
Dico sul serio; in sovrappeso, truccate male, vestite con abiti che definire dozzinali sarebbe riduttivo, pettinature improbabili, capannelli di carne messa male, chiacchiericcio inutile di banalità esistenziali e problemi con la giustizia, potete pure illudervi che qualche padre di famiglia ridotto all’isteria casalinga da una moglie orrenda scelga la vostra fica per una trasgressione rapida ed economicamente negoziabile, sentirvi per ciò dotate di una qualche intrinseca utilità, e magari cercare di scucire un extra promettendo prestazioni più particolari, se il cliente è un coglione attratto dal “sesso estremo”, oppure millantando un cambio di vita o l’operazione per salvare vostro figlio, se il cliente è affetto da complesso del buon samaritano.
Ma prese una ad una tornate ad essere delle persone, e la questione cambia radicalmente.
Crack Whore Confessions è una serie pornografica americana che schiude nuove prospettive al concetto di mercificazione, concetto fin qui generalmente fermo al contratto in base al quale pagare una troietta per insozzarla su schermo; gli ideatori di CWC sono evidentemente annoiati dalle sequenze stereotipate di introduzione, intervista, pompino, scopata in fica ed in culo, più inevitabile conclusione a base di sperma in volto o in bocca, sequenza che costituisce l’intima sostanza della industria porno internazionale e che, effettivamente, può andar bene per qualche imbecille convinto tutto sommato che il cinema hardcore sia comunque un cinema tout court.
Anche io, come i gestori di CWC, sono mortalmente annoiato dall’idea che il porno debba avere a che fare per forza con la fica, come se quella crepa femminile fosse il centro del mondo.
Prendere una troia dalla strada e porla in una situazione che prescinda dal suo commercio usuale è già un buon punto di partenza, e dice molto più sui gusti del cliente che non su quelli della puttana; se poniamo a fondamento della prostituzione, e dell’acquistare le prestazioni sessuali di una troia, il concetto di atto sessuale, carne come surrogato della masturbazione, ricettacolo di sperma e frustrazioni, un semplice, mero, rapido scaricarsi le palle, non faremo che sottovalutare il potere di una serie come questa. Ma se invece partiamo dal, per me necessitato, presupposto che ogni singola puttana sia una persona con una vita devastata alle spalle allora la questione muta sostanza e si fa molto più interessante; lasciamo da parte i canoni estetici, le bionde californiane siliconate e le casalinghe finto-amatoriali, le loro imbecillità naive, le pretenziose sterzate femministe, l’intellettualità porno che si avvita su se stessa come un elicottero prossimo a schiantarsi al suolo, e prendiamo ciò che queste donne hanno da offrire.
Se poi ci concentriamo sull’esistenza del cliente, sulle sue motivazioni, vedremo che anche questo è un campo ricco di intriganti scoperte.
Inventarsi una giustificazione con moglie, figli, amici, colleghi di lavoro per poter sgattaiolare fuori dalla rispettabilità sociale, farsi un giro tra i neon fluorescenti del distretto alternativo adocchiando le puttane, le vetrine colme di dvd, riviste, omosessuali latenti in classico impermeabile interessati ad un po’ di sana azione tra le sale ombrose dei club e dei peep show, fermarsi ad un bar per bere un drink, guardando le evoluzioni di una spogliarellista a cui il futuro non ha riservato alternativa migliore.
Una tragica routine fatta di codici, regole non scritte, lampeggiamenti furtivi, approcci distratti e la solita richiesta tariffaria, scegliere con apparente cura la fisionomia delle troie; cosa ti va questa sera ? Una slava, una negra, una tossica, una messicana, un trans ?
Il supermarket della carne addossato a fatiscenti strutture post-industriali, capannoni dentro cui cresce rigogliosa l’erba e decine di pneumatici accatastati che costituiscono una torre di Babele, i graffiti, le serate di rave che rovinano la piazza ai puttanieri, le stelle che brillano nel cielo perennemente cupo e che segnano, inesorabilmente, il simbolo di chi non riesce ad uscire dal circuito dell’autocommiserazione; invece dovreste tutti smetterla di considerare la trasgressione come un attimo di emersione dall’apnea sociale che il posto di lavoro o la famiglia vi impongono e scegliere le puttane secondo criteri più funzionali, più prosaici, passarle in rassegna come schiavisti, guardarle, concupire non le loro tette o le loro bocche ma i segni evidenti e tangibili della loro disperazione.
In Crack Whore Confessions, il regista-attore intervista le ragazze che accettano di farsi riprendere; carrellata di casi umani, donne senza denti, alcune ancora invischiate nella tossicodipendenza, altre appena riemerse e desiderose di guadagnare dei soldi che possano tenerle lontane dalla tentazione di rubare per fumare cristalli di crack, le loro idiozie, le loro scuse, i loro ragionamenti sono devastanti ricordi del tempo trascorso nelle case del crack, nei ghetti, a vendersi per pochissimi spiccioli, a massacrare poveri cuccioli di cane con serrati colpi di bastone solo perché quell’abbaiare infastidisce le orecchie rese iper-ricettive dall’abuso di droga.
Nessuno acquista questi video per il quoziente sessuale e dire che queste puttane possano succhiare il cazzo meglio delle starlette siliconate sarebbe un mero esercizio di stile, un qualcosa di assolutamente privo di senso o valore; i corpi rovinati, le dentature saltate vanno bene per i primi minuti, ma il vero punto di forza sta nelle chiacchiere, nel loro accettare di essere riprese e nel mettere a nudo, letteralmente, il loro dolore esistenziale, le loro patetiche esistenze nutrite di un continuo fallimento.
Ideale compendio di queste scene può essere il libro Crack Pipe As Pimp (Lexington Books), curato da Mitchell Ratner, una investigazione socio-antropologica condotta tra i casi più disperati delle crack-houses; come tanti novelli Krafft-Ebing, gli autori dei saggi che compongono questo libro si limitano a raccogliere il flusso di coscienza schizoide di vari personaggi, tutti rigorosamente reali, dai nomi pittoreschi come Negro, Kingrats, Skeezer. Un mondo oscuro di scopate in cambio di una dose, risse animalesche, stupri di gruppo, fogne abitative diventate inferni architettonici; la storia migliore è certamente quella di Rose e Ronney, due teneri piccioncini infetti dall’AIDS e resi violenti, irascibili e paranoici dal consumo smodato di cristalli, li seguiamo nel loro mesto vagabondare tra i bassifondi di una qualunque metropoli americana, e quando non sono impegnati a fottere o a rubare per pagarsi i loro vizi li vediamo torturare cucciolotti di cane, generalmente attraverso estrazioni forzate dei denti o bastonature feroci. Il tono generale del testo è malevolo e crudo, lontano da ipotesi di saccenza accademica, il gergo è scurrile e deriva direttamente dalle bocche dei protagonisti, Ratner si guarda bene dal censurare, rimuovere, obliare, preferendo invece concentrarsi in un accorpamento di casi, umanamente e psicologicamente simili; così vediamo persone in vari stadi di tossicodipendenza e di umiliazione sociale, vari comportamenti ricondotti non tanto a spiegazioni sociologiche quanto a manie esistenziali.

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