martedì 9 settembre 2008

Kent Klich - confessioni di un voyeur


La disperazione è una terra desolata, un lungo cammino che si inerpica tra bidonville e volti di miseria. Facile trarne emozioni a buon mercato, decisamente più difficile mantenere un equilibrio tra compiacimento e compassione mercificata.
Il fotografo svedese Kent Klich, miracolosamente verrebbe da dire, riesce a mantenere questo delicato equilibrio; ha realizzato due libri significativi in cui si esplora la relazione che intercorre tra droga e desolazione umana; uno, The Book of Beth (Aperture), raccoglie la vita di una tossicomane svedese di nome Beth, vari scatti in bianco/nero che documentano l’inferno esistenziale della ragazza, i rari momenti di emersione dal dolore quotidiano, la cristallizzazione del ricordo, della prostituzione, le lacrime, la lagnante automutilazione, squallidi interni di altrettanto squallide case popolari, alveari di devastazione e miseria morale.
Seguiamo la sua crescita, la sua decadenza, come una Anne Frank dispersa tra le nebbie metropolitane del freddo nord, la vediamo mutare da ragazza a donna, nel turbinio drammatico del fallimento più completo; uno studio analitico delle posture, delle espressioni, delle emozioni tradite dal volto incartapecorito, le lacrime amare e la solitudine di un appartamento squallido, una esistenza atomizzata e priva di consistenza corporea
Una sorta di Christiane F scandinava, meno compiaciuta, meno underground, ma certamente più toccante.
L’altro libro di Klich degno di attenzione è il drammatico Children of Ceausescu (umbrage) ; negli ultimi anni la Romania è divenuta terra promessa di pedofili e fotografi umanitari, decisi i primi a ficcare il cazzo in qualunque buco a disposizione i secondi invece a riscattare l’abisso di depravazione attraverso fotografie e testi e fondi ricavati devoluti ad associazioni che lottano contro malattie infettive, denutrizione, povertà, ed è piuttosto divertente immaginare queste orde di depravati e di artisti, gli uni inconsapevoli degli altri, scivolarsi addosso tra i bar e le strade del centro cittadino di Bucarest, i volti zingari, i sorrisi di fame, i capelli rasati a zero, le puttane e le richieste di sesso, gli scatti fotografici che tanto gli artisti quanto i pedofili, ciascuno con la sua peculiare motivazione, porteranno con loro una volta che l’aereo Tarom si sia lasciato alle spalle la planimetria cittadina rigidamente socialista.
In Children of Ceausescu, il tema centrale sono i miserandi orfanatrofi di Stato, luoghi bui e sordidi, veri lager dentro cui i bambini di strada, molto spesso affetti da AIDS o da ritardo mentale, vengono stipati, incatenati, rinchiusi e celati allo sguardo dei capitalisti e dei turisti occidentali, una lunga fila di bambini incancreniti, fisicamente e psicologicamente annientati da una non-vita di mercificazione, incontro prematuro con droghe sintetiche, abusi, stupri, sesso con pedofili di varie parti del mondo, e li vedi questi bambini, li vedi i loro occhi spenti, iniettati di sangue, non sorridono, e se qualche operatore sanitario cerca di farli ridere a beneficio della fotocamera sai che quel sorriso è solo una nuova ferita inferta in uno strazio già abbondante.
Non ci sono regali, coccole, amore che possano riesumare un barlume di umanità e di speranza. Questi ragazzini, anche se si muovono, anche se rincorrono un pallone nel cortile cinto da una palizzata da gulag, anche se di tanto in tanto guardano in alto verso il cielo spento coperto da una rada foschia, sono morti. Morti in attesa di capire cosa significhi la morte.
Negli scatti di Klich vedi ogni singola ferita, ogni solco nella pelle e nella carne, le pustole, il pus, la calvizie imposta dall’AIDS, le contorsioni dolorose, le feci, le poche lacrime che sono rimaste in quegli occhi secchi.

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