sabato 11 aprile 2009

La danza degli inni distrutti


Ammazzare il tempo sorseggiando una birra fermo sul ciglio della strada, tra un secchione della spazzatura e un camioncino di ferrivecchi, tutto attorno il traffico della Tiburtina, zone di Roma di consistenza esoterica case popolari graffiti e tag scolorite, un gruppo di rumeni aspetta l’autobus, questo è quel che definisco “buttare la propria vita”; è sera, cielo cupo senza stelle, se guardo in alto vedo solo le antenne paraboliche un dedalo di cemento e ferro aperto a ventaglio sopra la mia testaccia, cavi dell’alta tensione a scacchiera un po’ più defilati.
Entro nel bar; una sala biliardi e un tavolino con panno verde, odore di fumo, di chiuso, su una lavagna scorgo i segni di una partita finita con punteggio alto, una rastrelliera con le stecche e gessetti disposti in ordine sequenziale. Rivolgo un frettoloso saluto al proprietario che armeggia con dei bicchieri dietro il bancone e mi dirigo a larghe falcate verso una porta su cui svetta il cartellino “solo per il personale”.
Ho abbastanza confidenza col proprietario per poter pisciare nel suo cesso, evitando le pozzanghere di piscio e merda che si spandono in quello messo a disposizione dei clienti.
Prendo un’altra birra; sto parlando con Carlo e la ragazza, parliamo di varie inutilità, quel genere di conversazione che porti avanti per mera cortesia o per fisiologia dialogica, non ho idea di come ci si sia finiti dentro ad ogni modo so che non mi attira particolarmente. Parliamo di puttane olandesi e di scopare sotto mdma, passati trascorsi da bestia raver vita smozzicata di uomini divinizzati nell’epifania psichedelica, epopee di sesso promiscuo vomitate di piazza e ostelli della gioventù, lei è una spogliarellista, sa fare il suo mestiere, è brava, sinuosa ed eccitante; e dio solo sa quanto io detesti le spogliarelliste, il loro modo contorto di pietire amore di autoghettizzarsi in lande desolate dove esiste solo un vago pensiero libertario, elevato come torre d’avorio a massimo sistema, a comodo alibi culturale per giustificare una lunga sequenza di fallimenti.
Non mi piace commiserarmi, figuriamoci se posso commiserare una perfetta sconosciuta; pretenziosità hippie, visione del mondo naive, so perfettamente che ho stima solo del mio ombelico, anche se lei mi sta simpatica non tollero i consuntivi esistenziali sparati in faccia al primo che passa che poi nel caso specifico sarei io.
Carlo abbozza un dribbling tematico e prendendo spunto dal fattore rave, la butta in musica; Aphex Twin – visto a Barcellona, gran signore seduto sul divano intento a fumare un sigarillo mentre attorno la folla vorticava in una esplosione di beat elettronici e colori. Boards to Canada – Music has the right to children; pastose armonie elettroniche di desolazione. Introduco il discorso isolazionismo, Kevin Martin, Martyn Bates, Scorn, la necessità di dire addio alla socializzazione, la dimensione post-esistenziale della cameretta, voglio legioni di hikikomori e suicidi di massa; lei mi guarda un po’ stranita, non sa mai se sto scherzando o se sono serio, io invece lo so benissimo, d’altronde l’unico tatuaggio che mi farei non potrebbe che essere qualche aforisma cioraniano.
Lei reitera la sua convinzione che scopare sotto droga sia fantastico, una volta l’avrei pensata così anche io; e non per frainteso senso di decadentismo, non per naufragio nel vecchio oceano lautremontiano, niente contrabbando di illusioni e paradisi artificiali, soltanto perché io pure ero solito pensare che lo stordimento ti aprisse tutta una serie di inestricabili sentieri che conducevano nel punto più lontano del nulla.
Trainspotting l’ho letto relativamente tardi, non ha nulla a che fare con tutto ciò, lo giuro.
Carlo sta continuando a buttare là nomi di progetti musicali e dischi particolarmente importanti per la sua formazione, di cui a dire il vero non frega un cazzo a nessuno; Photek, DJ Krush, DJ Shadow, Techno Animal – io sto in assoluta ieratica contemplazione delle bottiglie impilate che svettano alle spalle del barista, sottofondo inadeguato di Laura Pausini.
Decidiamo di andare; dobbiamo arrivare alla stazione Tiburtina a prendere due spogliarelliste rumene, amiche o colleghe (o entrambe le cose, sti cazzi) della mia conoscente. I sensi di marcia interrotti e i perenni lavori per l’allungamento della Metro C ci costringono ad un giro del cazzo, tratto di Tangenziale, costeggiamo le mura graffitate del cimitero del Verano, illuminazione arancione per strada con un parchetto sulla sinistra dove svettano due canestri e un branco scimmiesco di ragazzini bianchi e negri ed ispanici intenti in una disputa hip hop, vedo velocemente le movenze artefatte acquisite andando a ripetizione da 50Cent e Wu Tang Clan, poi è solo il mio volto riflesso dal finestrino.
La stazione Tiburtina di notte; una macchina della polizia, una ambulanza col lampeggiante che per qualche strano motivo è acceso e tradisce la sua risibile luminescenza fetish inondandoci di secrezioni blu, barboni, rumeni, albanesi, zingari, puttane, gente che sembra appena uscita di galera, qualche rara persona rispettabile, niente soldati, zero ronde. Ultimi autobus in partenza, corriere per i Castelli, furgoncini Roma-Bucarest o Roma-Kiev, non riesco nemmeno ad immaginare quanto possa essere alienante il viaggio, stipati come merci nel vano puzzolente di quei trabiccoli. Assurdo.
Carlo fuma una marlboro, la mia amica spogliarellista lo imita, io sono lombrosionamente intento a catalogare il devasto umano che ci scivola furtivo intorno; tutta robaccia da descrivere, da disprezzare – l’incubo di De Gobineau.
Per ingannare l’attesa, d’altronde sempre meglio che essere ingannati dall’attesa, affrontiamo il discorso dei nostri passati e troviamo un punto di comunanza, di vicinanza emotiva quando salta fuori il nome mitologico di Rebibbia; quel carcere Fortezza Bastiani proteso a difendere le praterie cementificate del nord di Roma, ognuno di noi dentro c’ha lasciato qualche persona cara, chi un parente, chi un amico, chi una persona sentimentalmente importante. I colloqui, i pertugi, le scartoffie burocratiche, l’alienazione, persino la merdosità del viaggio per arrivare alle mura del carcere; poi prendo la tangente e parlo di Foucault e di Bentham, due nomi che volevo fare, che ogni volta che si parla di carcere o di istituzione devo snocciolare. Non tanto per sadico gusto di erudizione, ma soltanto perché quei due la sapevano davvero lunga.
Le sconfitte di una intera vita vengono frettolosamente messe sul piatto della conversazione, come in una triste partita di poker giocata tra disperati; a nessuno importa degli altri, conta solo narrare con dovizia di particolari e trasporto emotivo il proprio naufragio. Dovremmo chiedere a Matteo Garrone (non quello di Gomorra, ma quello de L’Imbalsamatore) di venirci a riprendere, c’è sufficiente materiale per qualche suo film di blues notturno.
E parlando di sconfitte, le due colleghe della mia amica sono portatrici (in)sane di dolore e di tutti quei segni che manderebbero in sollucchero un approfondimento televisivo sulla tratta delle bianche; volti poveri, di fame assoluta, trucco pesante da puttane, borse dentro cui celano gli abiti provocanti con cui scucire qualche extra ai clienti, occhi cupi, insondabili, capelli cotonati come in un videoclip glam degli anni ottanta. In effetti sembrano uscite da qualche backstage di un concerto dei Motley Crue.
Io e Carlo ci sentiamo un po’ papponi; appena scopriamo che sono entrambe clandestine, dobbiamo arrenderci all’evidenza che in quel momento pure per la legge lo siamo. In macchina, guida la mia amica, dobbiamo scambiare quattro chiacchiere con le tipe, mentre dallo stereo risuonano i bassi virali dei Massive Attack, propagandosi nel freddo ventre della Roma dimenticata. Di questa Roma dimenticata.
Le chiacchiere sono un nulla, lo potete immaginare; da quanto siete in Italia? Come vi ci trovate? La banalità, anzi una banalità talmente assoluta da rendere Alberoni profondo e intenso come Caraco.
Intersezioni stradali geometricamente inespugnabili, Via dello Scalo di San Lorenzo, tra Porta Maggiore, la Prestina e il CIM, c’è una scritta anarchica bellissima in vernice nera sbafata proprio fuori dal portone del “sanatorio”, LE VOSTRE MEDICINE NON SCONFIGGONO I NOSTRI SOGNI, eco artaudiana di viaggi al paese dei tarahumara, penso che a volte gli anarchici sono magnifici, quando si concentrano di più nell’essere davvero libertari e si dimenticano di tutti i loro anti e le loro costruzioni teoriche di paranoia; manifesti dei centri sociali, feste della canapa, inviti ai punkabbestia a lasciare i cani a casa e non portarli alle feste perché sennò rompono il cazzo, feste e concerti mobili in piena piazza a San Lorenzo.
Lasciamo le tre ragazze davanti l’ingresso del locale, noi andiamo a parcheggiare; torneremo dopo, il tempo di farle cambiare e di dare una chance al posto di animarsi e di popolarsi visto che ora siamo a densità prossima allo zero. A due metri, una pizzeria e un ostello abitato da voci straniere, proprio davanti il muro meridionale del Verano, tanti ricordi di scontri di piazza per celebrazioni di 25 aprile e 28 ottobre, sempre io e Carlo fianco a fianco nel percorso ineludibile di identificazioni, fermi, manganellate e pazza gioia di essere fascisti.
Una volta parcheggiata la macchina, andiamo a bere qualcosa; questa zona di Roma sembra un distretto rurale di paesi abbandonati, uno schifo unico. Ci immergiamo nel carnaio vitale di San Lorenzo, la movida da suburra etnica e universitaria, shottini a 1 euro, un pub che regala ogni due birre la terza, beviamo entriamo e usciamo di continuo sguardi distratti a quel che ci succede attorno, sagome industriali e negozi e ristoranti messicani indiani cingalesi eritrei. Vorrei scattare una foto al CIM e alla scritta anarchica ma un vigilante mi fa capire che non è aria; puzzo di alcolici e non ho un bell’aspetto, ma poi boh non ho mai un bell’aspetto.
Piscio contro un muro, davanti agli occhi un manifesto contro Bush; graficamente molto povero, me lo squadro bene bene, fino ad impararmi a memoria ogni singola frase (polemiche e velenose) ed i sottoscrittori del manifesto, centri sociali, associazioni culturali e sezioni varie di rifondazione comunista. Piscio, piscio, non la smetto più, cazzo di alcolici, il rivolo giallognolo diventa un fiume con tanto di schiuma e sono costretto ad allargare le gambe per non inzupparmi le scarpe; sono sotto ad un lampione morto, passano tre ragazze americane che cinguettano yes e no e tutte robe inglesi stronze, penso mi stiano guardando ma se mi volto è il momento che mi faccio le scarpe in umido.
Carlo ride, beve, sta scrutando l’orizzonte che muore lungo le mura dell’Università, zone di desolazione urbana. Mi rinserro in un sonoro porcoddio, svuotata ben bene la vescica, il vigilante sta sempre là voltato l’angolo niente foto alla scritta mi toccherà tornarci in altra occasione per quanto io non sia abituale frequentatore di San Lorenzo.
Abbiamo tutti e due fame ma i ristoranti etnici non paiono poi così invitanti; sono le 11 e 15, più o meno. Sto ruttando da cinque minuti senza soluzione di continuità, siamo trincerati nella nostra ontologica diversità rispetto a queste balde comitive di fuorisede, la vita a cui abbiamo rinunciato mettendoci il muro dell’apartheid politica attorno; ma ci siamo davvero persi qualcosa?
Siamo degli esclusi, degli esuli in patria, ecco perché andiamo così d’accordo con le spogliarelliste.
Torniamo sui nostri passi. Non fa particolarmente freddo, anche se la nostra percezione è necessariamente alterata dalla mole consistente di alcolici che ci ballano in corpo; varie sagome furtive, ci orientiamo alla buona per gli stretti vicoli del quartiere. Una volta arrivati al locale, impiego un po’ di tempo per capire dove sia l’ingresso; non c’è insegna, soltanto un miserando portoncino defilato rispetto alla porta della pizzeria vicina, tanto per evitare imbarazzati incontri tra i clienti dei due posti, due lampioncini fiochi e alberelli e un prato curato non tanto bene, per ironia della sorte il cimitero da qui si vede benissimo. Altro che pace dei sensi.
Sulla soglia il ritratto somatico del pappone, vecchio ossigenato con camicia bianca a maniche corte sbottonata a mettere in vista un petto ridicolo e glabro su cui brilla una pesante catena d’oro, nella migliore tradizione della blackexploitation, nel complesso fa molto anni settanta; ci lancia una divertita e complice occhiata, come a dire “vi siete venuti a divertire nel posto giusto”, ma sinceramente non siamo venuti poi a divertirci e certamente quello non è il posto giusto.
C’è tanta trasgressione nella sagoma di questo peep-show quanta potrebbe essercene nell’ordinare una margherita in pizzeria; paghiamo i venti euro a cranio per l’ingresso, accanto a noi nella saletta di ingresso ci sono una decina di ragazze, volti est-europei di fame mortale, ragazze vestite come zoccole del parchetto, nessun genere di raffinatezza erotica da boudoir di sete ed incensi. E dentro è pure peggio; una lucetta rossiccia si incanala desolatamente in due ambienti separati da un pilastro di cemento, minuscolo bar ricavato in una rientranza delle pareti dietro il cui bancone si cela una sorta di matrona abbigliata in modo ributtante e trash, pochissimi clienti assiepati su divanetti da club privè bulgaro.
Tendaggi caotici e tovaglie bianche macchiate sulle poltrone e sui divani, musica fintamente languida irriconoscibile, mi siedo davanti il palo della lap-dance per evitare più che altro di finire accanto alle rare ragazze sedute e ai tristissimi clienti; non il posto più adatto per evocare la gioia della solitudine.
Infatti non faccio in tempo a scambiare un malinconico cenno d’intesa con Carlo che eccoci la matrona-barista addosso, ci chiede se vogliamo bere, se vogliamo compagnia, sarebbe dura spiegare a questo rivoltante esempio di ammiccamenti incapacitanti il senso profondo e cortese della nostra visita, tanto più che abbiamo promesso che non faremo parola della nostra amicizia con la spogliarellista.
Arriva qualche altro cliente, varia umanità, alcuni tradiscono origini plebee riscattate da chissà quali traffici, costruttori, venditori di auto, gente sulla quarantina, sulla cinquantina, casi umani che trascorreranno l’intera serata in disparte a bearsi delle movenze oggettivamente animalesche delle ragazze. C’è chi beve birra, chi offre vodka o champagne alle puttane, gli alcolici sono parecchio scadenti e decisamente cari, ci si avventura in fantasiose conversazioni con le ragazze come se a queste potesse importare davvero delle (s)venture di chi si trovano davanti; ricettacoli di storie esistenziali, le spogliarelliste quando non ballano cercano di scucire un ballo privato in separata sede ai vari astanti. Fonte primaria di introiti, quei balli sono esosi e brevi, ma forniscono al cliente l’illusione di un contatto ravvicinato; si mormora pure di pompini e altri affari sessuali in quegli stretti loculi di cemento adorni solo di una poltroncina rossa.
Io e Carlo liquidiamo con fastidio tutte le ragazze che vengono vicine a noi, tanto sappiamo che dopo qualche preliminare verbale arrivano al sodo, ovvero alla richiesta di un ballo privato. Sessanta euro per 15 minuti di blando “paradiso”, no grazie diocristo. I più squallidi sono quelli che pretendono di aver stabilito un contatto, una qualche conoscenza con le ragazze; li vedi salutarle per nome, abbozzare qualche battuta, cinger loro la vita con le braccia come fossero amiche di lunghissima data e non delle puttane che mirano soltanto a spremere quei portafogli particolarmente gonfi.
Tre coatti tatuati, rasati, vestiti da hardcore, evidentemente fatti di cocaina (la supposizione su quale droga si siano fatti, diventa una certezza quando vado al cesso e li vedo pippare abbondanti strisciate) si dimenano in maniera patetica su un divanetto, passano in rassegna le ragazze mentre ballano, si sfottono a vicenda, propongono sconti comitiva per i balletti privati; davvero non riesco a capire cosa ci sia di divertente in serate come queste. Né economiche, né eccitanti; stereotipate, pura coazione a ripetere, un cerimoniale grottesco fatto di tanti piccoli rituali di pseudocorteggiamento. Quando poi, a ben vedere, ciò che conta sono solo i soldi.
Un tale manda sms compulsivamente, testa china sul display, mentre a pochi passi da lui una puttana faccia zingara evidentemente in trasferta da qualche campo nomadi è nuda, contorta e con la mano ficcata nella fica depilata; la scena uccide qualunque libido. Il tizio messaggista ha un aspetto da pingue assistente universitario, mezzo pelato, occhiali, barba sfatta, non arrischia né sorrisi né alzate di ciglia, è preso dagli sms.
La mia amica, seduta tra me e Carlo per un attimo di relax, mi spiega che il poveraccio pensa di aver fatto colpo su una spogliarellista che lavora in altro locale e attende da un momento all’altro un suo sms per andarsi a mangiare qualcosa fuori; non so nemmeno se definire il tutto patetico o grottesco. So solo che illudersi di aver fatto breccia nella mente o nel cuore di una spogliarellista, presa durante il suo lavoro, quando la sua ricezione ai contatti umani è pari a quella di un anatomopatologo, è una grande balla; indice di una solitudine irrisolta e disperata.
Me lo immagino, fallito quarantenne a Natale coi genitori, senza nessuno che gli faccia gli auguri, senza nessuno che gli abbia mai detto “ti amo” o un più semplice, meno impegnativo ma sempre gradito “ti voglio bene”.
Anche le ragazze sono interessanti; nude, cercano di risultare eccitanti, si dimenano freneticamente, scomposte in gesti di richiamo sessuale, bacini accennati, dita che esplorano sinuosamente i loro stessi corpi, ma se le guardi negli occhi non puoi non notare la desolazione, il gelo, la loro freddezza. Una mi si avvinghia addosso, ma lascia la presa perché capisce che sono poco interessato a quel genere di macelleria dei sensi.
Le loro danze sono prevedibili, sottolineate da musiche di pop dozzinale; le più atletiche si innalzano sul palo, usano attrezzi vari, inseriscono i vibratori nella fica e nel culo, mentre il pappone che ci ha accolto all’ingresso commenta con microfono malfunzionante le loro evoluzioni. Invita il pubblico ad applausi, ricorda che tutte le ragazze sono disponibili a balli privati; mi vien da chiedere al dio delle schifezze, come abbia ottenuto quella…disponibilità.
Bande di rumeni o di albanesi che picchiano, ricattano, fanno capire alle ragazze che devono piegarsi ad ogni richiesta, ad ogni voglia dei clienti, e lui il proprietario che paga e ringrazia per i servigi resi.
Due ragazze ci siedono davanti, parlottano tra loro, ad un certo punto il pappone si avvicina loro e con fare deciso ci indica; io e Carlo infatti stiamo bivaccando sul divano senza puttane al fianco, intollerabile visione per il buzzurro che vuol ingozzarsi di pecunia, siamo stonati e alcolici ma ancora da strizzare economicamente parlando. Io ormai vedo dipinti di Francis Bacon sulle chiappe di una negra. Le due troie ci vengono vicine, riluttanti, mentre il pappa ci guarda come a dire “problemi?”; sono entrambe italiane, una mora e una bionda, accoppiata vincente per film porno anni ottanta. Risibili in strizzati abiti fetish, la “mia” è quella mora, piccolina, bel visino, scopro che è una novizia; lavora da poco lì, e per quanto son certo che il suo nome, la sua età e il resto dei dati esistenziali che mi comunica siano palesi stronzate, sono certo che sia una debuttante. E’ troppo timida, insicura e soprattutto commette un grave errore; mi chiede subito se voglio fare un ballo privato, mentre i lerci frequentatori di questi posti non amano domande così esplicite, vogliono coltivare l’illusione che il privè sia la fisiologica conclusione di un qualche rapporto di conoscenza, il momento apicale delle chiacchiere, vogliono pensare, autoingannandosi, che la ragazza nutra un qualche interesse per loro, loro come persone e uomini.
Quella di Carlo è una shampista. Cliche puro, ma a quanto apprendo dopo è vero pure questo; biondina niente male, più puttana e sfrontata della mia, ma Carlo la liquida con qualche grugnito di disapprovazione e lei rimane a guardarsi le unghie, in imbarazzo, mentre il pappa-proprietario perde le speranze e guarda noi 4 con faccia sconsolata.
La mia, non mi ricordo il nome, tanto era falso, mi sente parlare, sono logorroico, lo sono sempre; le mie parole sono fuori luogo, non so chi o cosa cito, parlo di serial killer. Mi dice che lei studia Psicologia, che ha avuto problemi in famiglia, la madre gravemente malata, e che si appassiona di delitto seriale; conversiamo per una ventina di minuti, immagini tetre di sadismo omicida mentre attorno le spogliarelliste vorticano promettendo estasi a poco prezzo ed i clienti fischiano strepitano battono le mani. Io e la ragazza parliamo di massacri, rapimenti, fantasie sessualmente deviate, scioriniamo dati e nomi di serial killer, le consiglio libri, film, personaggi, per un istante mi rendo conto di quanto paradossale sia la situazione, tanto che la faccio presente a Carlo alla mia amica e mando pure un sms ad Alberta, più che altro per autoconvincermi che sia reale questa situazione.
Empaticamente protesa alla confidenza totalizzante, la ragazza smette di essere una ribollente spogliarellista (sia pure alle prime armi) e mi racconta i drammi della sua adolescenza problematica ed incompresa, una sorta di trattato post-mocciano che succhia linfa vitale nei testi femministi ed arriva a presentare l’industria del sesso come un inferno di miseria (morale e materiale); esperienze con le droghe, una storia sentimentale con un ragazzo sbagliato, l’università, poi la malattia della madre, più lei parla più io mi astraggo dal contesto delle tette esibite e mi eccito, la mia anima sadica emerge dall’abisso, questa commistione di sesso e dolore, questa sinergia tra corpi femminili nudi, volgarità dell’insieme e sofferenza genuina, pagine di Sade che prendono vita e compongono arabeschi potenti. Non arriva alle lacrime, ma è evidentemente immalinconita dalla narrazione, stremata,sfiancata, come nemmeno al termine di una gang bang. Le deve essere pesata la cosa.
Carlo sbadiglia, è tardi. Le lancette del mio orologio segnano le 3. Abbiamo trascorso varie ore nel nulla elevato a sistema. Bel “divertimento” del cazzo.
Salutiamo la mia amica, ce ne andiamo.
Il giorno dopo la sento al telefono e mi ringrazia per esserla andata a trovare, dice che le ho portato fortuna visto che ben tre clienti le hanno pagato un ballo privato, le dico della sua stramba collega criminologa e lei mi conferma trattarsi di ragazza nuova, che ha qualche problema. Promette di mettermici in contatto.
Una settimana dopo vengo a sapere che il padre della ragazza ha fatto irruzione nel locale, ha cazziato la figlia quasi venendo alle mani con due clienti e col proprietario, l’ha umiliata davanti a tutti portandosela poi via.
Una fine impagabile.

1 commento:

Anonimo ha detto...

E' un piacere rivedere qui i tuoi arazzi sulla Roma poco conosciuta.

Icaro