mercoledì 10 dicembre 2008

La Solitudine dell'Universo - Ancora su Sade





In una grande libreria romana si trovano copie de Le 120 Giornate di Sodoma, nella pregevole edizione ES, scontate del 50%; non so quali considerazioni i direttori delle grandi catene librarie pongano alla base delle loro scelte merceologiche, probabilmente anche la fruibilità e la vendibilità del libro-prodotto (il libro, per quanto non ci piaccia doverlo ammettere, è comunque un prodotto o almeno come tale è considerato da librai, editori e critici), ad ogni modo veder accatastate senza ordine, senza cura particolare quelle pile di libri mi ha immalinconito.
L'opera di Sade meriterebbe maggior rispetto. Il rispetto che viene accordato a tutti i testi sacri o legati ad una qualche forma di sapienza mistica, come la Bibbia, il Corano, le massime del Buddha; non vediamo Bibbie raffazzonate, buttate alla rinfusa, ammonticchiate in un angolo di una sala-sconti frequentata da sciacalli della letteratura.
Il paragone è stato azzardato diverse volte, con accenti filosofici e metareligiosi; Klossowski fu il più esplicito nel tratteggiare la similitudine tra l'opera sadiana e quella cristiana, Bataille fu decisamente più cauto (vedendo in filigrana l'essenza misticheggiante nello scatenamento sadiano, ma senza dare adito ad una equazione Sade=Anacoreta), Evola, in La Metafisica del Sesso, simboleggiò in maniera lucida lo scivolamento di Sade verso certe derive tipologicamente connaturate allo gnosticismo orientale (in maniera involontaria, ovviamente, non che Sade fosse a conoscenza del Vama Kara o di certe forme di buddhismo tibetano o dell'induismo radicale). Ma chi più, e forse meglio di altri, ha colto la sostanza del proponimento sadiano, in certa misura della "ragione sociale" sottesa a tutti i libri del Marchese è stato Mauriche Blanchot; con una massima esplicita, icastica, Blanchot annota che nell'opera di Sade si rinviene la solitudine dell'Universo.
Gran parte dell'antropologia moderna e degli studiosi di religione, da Brelich ad Eliade, hanno messo in luce un dato di fatto non confutabile; il fermento religioso nasce come schermo protettivo, per celare la grande paura del Vuoto, per cristallizzare l'orrore della solitudine dell'uomo nel Cosmo. La valenza ierofanica del mito, che non a caso è sempre ammantato di aura eccessiva, travalicante gli umani confini, è pur sempre una produzione culturale umana, che all'uomo serve per razionalizzare il passaggio nella vita; e non a caso Sade, nella sua opera, traccia il suo personale cammino, di morte e di resurrezione e di liberazione, componendo un mosaico tellurico di sentimenti che potessero in qualche misura elevarlo oltre la sua contenzione e gettarlo aldilà dei paradigmi morali. Per Sade la morale ha la stessa consistenza delle sbarre delle prigioni in cui è stato recluso; un qualcosa da cui rifuggire ma di cui, allo stesso tempo e per paradosso ben comprensibile, non si poteva fare a meno e che diventava l'unica misura del reale.
Lo spazio recluso era sintomo della sua prigionia, ma pure caldo utero confortante aldilà del quale si stendeva l'ignoto, l'hic sunt leones delle emozioni e delle risposte a domande forse mai davvero formulate; la sbarra era prospettiva concreta, tangibile, la reclusione una imposizione anacoretica, non a caso l'opera più furente e mistica di Sade, le 120 Giornate, costarono lacrime di sangue al suo autore una volta smarrite nel trambusto della Rivoluzione e furono composte integralmente durante la fase più acuta e dolorosa della sua prigionia.
La solitudine di Sade in quella cella è la solitudine dell'Uomo davanti al grande mistero della creazione, la furia, lo scatenamento, la perversione, la morte, la vita, il sangue sono componenti ontologici di un Rito, ordalico e di purificazione. Una solitudine che non deve essere colmata, un vuoto che continua a crescere, a mostrare le sue zanne e che non potrà mai essere fermato, nemmeno con uno sconto del 50%.

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