lunedì 12 maggio 2008

Memorie del Fiume freddo


Arrivo a Seattle come uno dei tanti profughi dello spleen, estasi autunnale di piazzole desertiche, balle di fieno, camion e distese alcaline che si perdono all’orizzonte a fare da contorno ad una scena degna di miglior causa; lo zaino semi-vuoto, la solita testa piena di merda, e un pacchetto di sigarette che fa tanto Kerouac. Angeli di desolazione su torri e avamposti di una civiltà postmoderna men che baudrillardiana, ma serial killer come compagni di viaggio e storie cartacee di sangue e tortura e umiliazione, piccolo bambino alle prese con la sua Mecca disneyficata, eccomi a te Seattle, città grigia di grunge e suicidi.
Fiumi verdi dalle acque putride, canneti, nebbia ed una cortina di inquinamento e pioggia mi accolgono; pioggia che gronda, cade, ticchetta ritmicamente sul parabrezza del gigantesco Greyhound, sono un GG Allin beat e carnografico in partenza per la deriva finale, totale, ammaestrata nel nome dell’omicidio sessuale, partenza che si consuma a ritmo di hardcore e quando scendo rivolgendo un rammollito cenno di testa all’autista so già che un’epoca si chiude.
Difficile rimanere delusi da Seattle; campo di concentramento di lugubre grigiore, monumento alla depressione cronica, e chi si stupisce che Kurt Cobain possa essersi fatto saltare il cranio dovrebbe venirsene qui ad assaporare i venti carichi di odori salmastri e di palude e il freddo pungente, i pub, i locali, i moduli abitativi, l’informatica atomizzante elevata a paradigma di una nuova solitudine, meno boscaiola, meno nevosa (per quello c’è il confine, col Canada a stendersi dietro e poi pure l’Alaska con le sue storie di caccia all’uomo e pionieri cercatori). L’oceano immoto, blu cupo, una marea concupiscente di ricordi, si stende là da qualche parte.
Un viaggio concilia sempre dei bilanci e dei consuntivi, ed io ascoltando Black Flag e Husker Du ho compreso di non essere poi una persona tanto spregevole; certo, ho passato gran parte della mia esistenza a guardare Chi L’ha Visto per godere di qualche pianto raffazzonato e qualche lacrima di genitore crudelmente avvinto dalla speranza di ritrovare i suoi teneri cuccioli vivi da qualche parte, ma nessuno è perfetto. In fondo, una volta credevo di essere l’unico debosciato che assisteva a quella trasmissione con puro spirito pornografico ma poi col passare di mesi e anni ho compreso di essere in buona compagnia; scambisti e trasgressivi del delitto seriale, delle famiglie distrutte, dei volti cianotici e degli sguardi vacui, un mondo oscuro, sotterraneo, carsico che come i fiumi di Seattle regala gioie e corpi gonfi di putredine.
Sono venuto a portare il mio personale tributo al Green River Killer, adepto di una religione senza più officianti.Non sono una persona orribile. In una certa misura non mi ritengo nemmeno un depravato. Ma ho deciso di vivere la mia vita seguendo i miei gusti, ed i miei peculiari interessi, e se questo mi pone fuori dal consesso dei probi cittadini non avrò di che recriminare. Henry Rollins bofonchia qualcosa, qui ed ora, vorrei ascoltare gli Swans ma li ho lasciati giù a San Francisco, mi maledico mentalmente, maledico la mia insipienza e la memoria che va a farsi benedire annientata da studi giuridici in terra d’Italia. Eccomi, Seattle città delle promesse di sangue, eccomi Henry Rollins, ecco un fuorisede del dolore emozionale.
La conformazione geomorfologica della città, coi fiumi a schiudersi in una raggiera di petali verdastri tutto attorno, ricorda, può ricordare, una città egizia incistata sull’epidermide di un Blade Runner criptato; psicomagia inconsistente, spogliarelliste e prostitute e negri, meno che in california ma pur sempre tanti, cinema porno, periferia eterna sedimentatasi nell’animo profondo di questo lembo settentrionale.
Sono il viandante, tra schizzi purpurei di un dipinto alla Waterhouse, o grugniti esplosivi alla Francis Bacon, sigarette, alcolismo e la promessa di una Los Angeles nordica, non pessimista come i fiordi di Hamsun ma pur sempre fredda e glaciale. Eccola questa Seattle di cui son venuto ad assaporare i frutti. Non tanto proibiti.
Sono cambiato da quei giorni, lo ammetto. Cambiato tanto. Non dirò se in meglio o in peggio, perché sarebbe di cattivo gusto stabilire autonomamente la mia eventuale crescita. Dirò solo che il cambiamento è evidente. Son passati anni, ed eoni in termini emozionali, da quando cercavo di farmi crescere nelle narici l’afrore macabro di Plainfield o nelle orecchie le urla delle vittime di Albert Fish, guardando l’orizzonte lontano con tramonto annesso e non vedendo altro che cadaveri emaciati lasciati ad ingiallire sul crinale della Storia. I giorni delle maglie col volto di Ian Brady o di Charles Manson, dei video neri, cupi come il Ragnarok del true crime.
Avevo un pantheon di divinità assetate di crudeltà, sofferenza e dolore, volevo io stesso bagnarmici come in una estasi zen di chiodi, morsetti, lacci e legacci, invocazioni di misericordia, genitori obesi, tossicodipendenza, pornografia dozzinale e ,ringraziando Dio, omicidio.
Tutte le puttane ammazzate dal Green River Killer presentavano una biografia talmente insulsa e stereotipata da rendere il Reader’s Digest una lettura fenomenale, come un romanzo di De Lillo; il me, non tanto a soqquadro e rovesciato nonostante gli esperimenti psichedelici californiani, che giunge nel paradiso dello Xanax è un me lucidamente determinato ad immergersi, in metafora e spirito sia chiaro, nelle acque verdi di quei fiumi.
E’ un me che vuole specchiarsi nello stesso punto d’acqua in cui anni prima, tra copertoni, sacchi di tela e batterie di autovetture, sono state rinvenute le puttane brutalmente torturate e ammazzate.
Lady of Shalot di Waterhouse, ma col capo rivolto in basso come presenza ctonia e sessualizzata di un Twin Peaks convunsalmente giocato tra Lynch e Jodorowsky.
Where the wild roses grow, roco gorgoglio di Nick Cave, l’acqua scorre portando via rose e rane che hanno smesso di gracidare e se ne saltellano beate portandosi via brandelli di carne e dignità.
La scena di apertura di Henry-Pioggia di sangue, frammenti fotografici sovrapposti, ululati, richieste di misericordia, un cadavere in calze nere affiora dalle acque limacciose. Perché diciamolo, un serial killer è un esteta, un poeta e una persona gentile. A parte quando ammazza, ovvio.
Persino The River di Bruce Springsteen.
Ogni fiume ha i suoi segreti, le sue memorie. Ed i suoi cadaveri.
Dubito che un assassino che si sbarazza delle sue vittime gettandole in un fiume non sappia che quei corpi martoriati, gonfi di acqua e putrefazione, saranno rinvenuti da un qualche pescatore o un ragazzino che nella migliore tradizione kinghiana di Stand By Me perderà la sua innocenza dopo l’avvistamento mortuario. Sirene, lampeggianti, ed il coroner a far rilevazioni, prende appunti, segna dati asettici, ingolfando l’aria di trita criminologia.
Questo è già un livello che mi interessa meno. Io sono fermo alle madri straziate avvertite senza particolare tatto da un ufficiale di polizia, magari nel cuore della notte; sai, tutte quelle illusioni confortevoli erette come protezione psicologica nel corso degli anni, magari spendendo pure bei soldi da uno strizzacervelli e amore filiale e stanze fredde rimaste vuote in modo desolante con ancora i peluche di una infanzia distrutta, vanno a farsi fottere adesso che lo sbirro compare sulla soglia di casa e intona il peana della compassione burocratica.
Mi dispiace signora, sussurra. Ma non gli dispiace per niente. Ha visto troppe morti, troppe sofferenze assortite, per dispiacersi davvero davanti a questa donnona cellulitica che gli prende a piangere davanti. Certe volte benedico dio di non essere un poliziotto; assuefatto al dolore, incapace ormai di goderne, vedersi evaporare davanti tutto quel potenziale, deve essere francamente orribile.
Una vittima senza famiglia sarebbe solo un miserando pezzo di carne. Invece l’aspetto meraviglioso di tutta la faccenda sta proprio nella sovrastruttura di dolore cosmico che i familiari sono costretti ad affrontare, le loro lacrime, le loro universali recriminazioni, l’adulazione giornalistica e la pietas pubblica, di questa città grigia, insulsa e sonnolenta in cui i giovani si fanno di speed, ice e crack per lenire il vuoto dell’esistenza. Prostitute celebrate come fossero le migliori figlie del mondo.
Ma dove eravate quando queste figlie avevano bisogno di voi?
Dove eravate quando il peso insostenibile della droga le ha spinte a vendere i loro corpi?
Quando lagnanti e frignanti si automutilavano per reclamare un pur minimo barlume di attenzione?
Erano morte. Morte da tempo, e voi non lo sapevate. Troppo presi ad andare avanti comprando birra e biglietti della lotteria e guardando la televisione, Torazina catodica diventata Dea Madre di una generazione di teste di cazzo.
Genitori premurosi post-mortem ma inconsistenti quando le vostre figlie abbordavano camionisti e li spompinavano nelle piazzole di sosta per dieci dollari, le gravidanze non volute, i pestaggi, gli aborti, ex fidanzati rivelatisi spietati papponi, le lettere a casa senza risposta. Indifferenti a tutto. Glaciali e silenziosi come questa cazzo di città.
Tra i canneti, l’acqua dipinge arabeschi smeraldini, ed il cielo si specchia tra gli umori e le piante; io sto fermo, in beata contemplazione, cerco di immaginare la sofferenza, la paura, le lacrime delle vittime chiuse nel vano puzzolente di un qualche furgone. Il Green River Killer sapeva quel che faceva. In una certa misura ha reso delle patetiche inconsistenti non-esistenze degne almeno di essere ricordate e piante, foto amorevoli da lapide tombale su cui posare un fiore.
Se ripenso a quegli istanti, sono assalito da un profondo senso di malinconia. Guardi le buste di plastica ondeggiare sulla lieve corrente del fiume e pensi ad un mondo che si è estinto, ad un me rimasto prigioniero tra quei flutti.
Un me andato per sempre, proprio come quei cadaveri.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ormai è ufficiale: la tua parola preferita è "carsico" :)
G

AV ha detto...

certamente, anche se si tratta di un aggettivo :)

Anonimo ha detto...

oddio,spero che l'anima di Trubeckoj mi perdoni se dico una boiata,ma sia gli aggettivi che i sostantivi sono parole!( certo poi che cosa sia di preciso una parola non è ancora stato appurato ecc ecc).
G

AV ha detto...

fonema, segno, su quello saremmo d'accordo, ma "parola" come termine e aggettivo per me rimangono due cose abbastanza distinte, soprattutto poi quando come nel caso presente l'aggettivo finisce appunto per diventare qualificazione necessitata di altri termini (visto che uso "carsico" non nella sua accezione puramente geomorfologica) ^^