giovedì 20 marzo 2008

Il Volto impresso sul rovescio della mia Mente





Prendo a prestito le battute conclusive del dramma Psicosi delle 4:48 composto dalla brillante drammaturga inglese, purtroppo morta suicida in età giovanissima, Sarah Kane e lo faccio non tanto per indicare una mia eventuale predisposizione a commettere quel gesto che Evola, Seneca, Drieu la Rochelle, Michelstaedter e Weininger ci hanno dimostrato essere pieno rifiuto della decadenza e forma di liberazione individuale quanto per dare l’idea di uno stato d’animo differenziato e mutevole, in continua frammentaria crescita.
Capita a volte nella vita di dover trarre un bilancio, un consuntivo, e se lo si fa attraverso il medium espressivo come la scrittura esso finisce col diventare un doloroso mostrarsi, un Ecce Homo di intensa consistenza che prende a manifestarsi nel sole morente e non smette di conficcarsi nelle carni e nelle ferite, non smette fin quando non subentra un qualcosa di altro, fin quando le urla di disperato giubilo della massa sbavante non lasciano intendere che ancora una volta Barabba ha vinto.
Si preferirebbe essere frustati, legari al cippo marmoreo, esposti alla gente rabbiosa e arrabbiata, piuttosto che stare immobili, con un foglio in mano e leggere a tutti; leggere di se stessi, leggere se stessi, lasciar fluire i pensieri come un fiume di odio.
Comunicare. Ma comunicare cosa? A meno che non si stia leggendo una circolare amministrativa, fredda ed impersonale, una creazione implica una partecipazione emotiva di chi l’ha redatta.
Potrete capire che l’imbarazzo, la paura, la desolazione aumentino in modo esponenziale quando l’oggetto della scrittura riguarda uno schietto dato biografico ed esistenziale; se in ogni scritto esiste una innegabile componente umana e personale, nell’elemento biografico non c’è bisogno di metafora, di allegoria, tutto è palese e scoperto.E allora, quel bilancio si consuma come l’ultimo foglio arso dal fuoco, lo vedi stagliarsi azzurrino come un canale televisivo notturno, penombra di interno casa e solitudine tracimante mestizia, te ne vai in giro per le strade ingolfate dai neon e dai cassonetti pieni di spazzatura, macilente figure trassfigurate nei coni d’ombra, androni e puttane e sferraglianti mezzi pubblici, il cappuccio della felpa sulla testa le mani nelle tasche e tanta rabbia, cammini macinando i metri ed i chilometri ed una estensione psichicamente instabile dei torrioni franati della poesia di Trakl e poi ti fermi guardi il cielo massa nera cupa leggermente screziata di stelle un diamante diafano intermittente tra i tetti ritagliati e poi le insegne rosso cupo e blu ed il verde di una pompa di benzina, odori ed umori e strombazzamenti furtivi e un graffito e le tag, circondi il perimetro della metro dove rari tossici vanno a bucarsi e qualche fuoco di puttana si consuma come festeggiamento di Beltane posticipato, ti chiedi perché perché e lo ribadisci nel caso neuroni e sinapsi non avessero afferrato il senso di quel dramma peripatetico, inali l’odore dei cornetti del fiume sciabordante della merda della plastica le esalazioni dei gas di scarico, rivolgi uno sguardo di traverso alle figure della movida romana mentre fendi le loro tenui sintassi e i loro borborigmi maldororiani, e poi incupito ed intristito come una figura rovesciata nello specchio infranto continui a domandarti chi te lo faccia fare.
Non siamo noi a scegliere la vita che facciamo, ma le scelte che abbiamo fatto a scegliere per noi ad orientarci e a farci camminare, ha scritto una volta Sotos; ha in una certa misura ragione, tutti i materiali di cui ci si circonda, le persone, le frequentazioni, diventano un paradigma di minor accesso o maggior accesso, una riduzione o un aumento di emozioni. Coltivare la beata solitudine è molto più di un mero anelito nietzschano, Amor Fati, lascia che ti stia dentro come un bozzolo di non-rispettabilità sociale, lascia che il tempo ti scorra addosso , il destino lo hai coltivato nella pia illusione che tu potessi influenzarlo ed invece, d’un tratto, una mattina ti sei svegliato ed invece di trovare l’invasore ti sei scoperto con una parte di te che è mutata, mutata e cambiata prima impercettibilmente poi in maniera sempre più completa e radicale; è in quel momento che il consuntivo si fa pressante, eccolo esigere una lunga sfilata di dati, nomi, posti, incontri, frequentazioni, da mettere assieme come in un gioco enigmistico della disperazione.
Capita che tutto cambi di prospettiva quando una Persona entra nella tua vita, ti fermi a riprendere fiato, ti guardi circospetto alle spalle e ti dici che forse adesso un perché da sbattere in faccia a quella voce invisibile ce l’hai; di persone nella tua vita ce ne sono state tante, ma per un motivo o per l’altro le hai viste tutte trascolorare in attimi inutili, eternati nel silenzio della tristezza, divenuti rimpianti sfocati e desolati, esattamente come la vita che hai scelto di vivere. L’autocommiserazione è un esercizio facile facile, se non ci si è passati mai attraverso. Altrimenti, se uno ha un minimo di familiarità con le sue dinamiche, diventa una dolorosa via crucis.
La Persona non ti ha cambiato, ma ti ha focalizzato; se prima avanzavi nel caos notturno, adesso sai dove andare a parare. Non più meticolose esplorazioni come un geniere nella battaglia di Stalingrado, non più serpentesco strisciare in territorio nemico coi gomiti laceri per la frizione sulla neve, ma un marciare glorioso come nei fotogrammi de Il Trionfo della Volontà.
La Persona è brillante, intelligente, non chiede quello che non puoi dare, non pretende quello che non sai; la Persona si è dimostrata lungo lo scorrere del tempo persino migliore dell’idea già lusinghiera che ti eri fatto. Sai che non finge, che non gioca, che non si nasconde dietro ammassi fumosi di mode, lo sai perché le hai parlato e ti ci sei confrontato, sai chi è e lei sa chi tu sei.
Può essere una terrazza a picco sulla Maestà di Roma, dei suoi monumenti, della sua Storia, oppure l’interno di un albergo, una Mostra o una passeggiata tra fontane e gruppi di turisti giapponesi; può essere una chiacchierata liberatoria, un confronto, una sinergia potente e languida, un incontro, una scelta, una possibilità.
Può essere una idea empatica, una confessione, un lampo di genio, una costruzione metaforica. Può essere tutto, davvero.Il niente questa volta sta fuori dalla porta, mi contempla come una riga di espressione heideggeriana, Sein e Zeit attendono fiduciosi di potersi beare tra le foreste di una Wildnis rigogliosa, improntata a quella forza frenante che ora mi appartiene; si, forza frenante, beata solitudo, c’è ancora, ma la cella è aumentata di volumetria, e lo senti lo stormire del vento tra i rami, tra le frasche, tra le piante come il dolce morire pagano di daubleriana memoria. Non importa che tu possa solo sentirlo, che non ti sia dato assaporarlo quel vento che recita parole di libertà, se ne va all’orizzonte carico di presagi e la Terra caduta, infiammata, arsa ed erosa ti attende e ti si apre davanti come un oceano di fuoco e di devastazione; adesso che hai la Persona con te, ti torna alla mente la frase di Schmitt, quella frase drammatica e cupa, “chi è mio nemico? Chiunque possa mettermi in questione” e allora capisci che per anni e anni sei stato il peggior nemico di te stesso. In fondo non è una grande scoperta; Nietzsche lo sapeva, gli ultimi viscidi uomini che promettono fallace felicità alo Zarathustra che discende nel suo Meriggio, l’indurimento e l’accanimento dell’uomo guerriero su stesso in tempo di pace come prova simbolica di ardimento, la pace terribile, la pace palude, la pace inutile.
La Persona ti riconduce alla dimensione sub specie aeternitatis.
Rex in regno suo est imperator, diceva un giurista medievale; senza Dio, senza rimpianti, senza rimorsi, ecco il tuo regno finalmente manifestato, come una Gerulasemme interiore ma senza la croce dell’afflizione.
Tu e la Persona, adesso.

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