Se uccidessero tuo padre, tua sorella, la tua fidanzata scommetto cambieresti immediatamente opinione.
Questa, in genere, è la prima obiezione che viene mossa a chi non condivide il coro della pace universale ogni volta che qualche massacratore liceale lascia dietro di sé una discretamente interessante scia di sangue e morte; obiezione tipicamente da decerebrati, mi si permetta di dirlo.
Perché il punto non è il valore della vita in sé. Dei rapporti filiali, amicali, parentali. Il punto, l’unico che davvero possa contare è la sopravvivenza; pensate, se ne siete in grado, se non vi ripugna il pensiero, se non siete così sensibili e timorosi, alla possibilità che dobbiate scegliere tra la vostra sopravvivenza e quella della persona che in apparenza vi è più cara. Vedrete che davanti allo spettro della estinzione non nutrirete esitazione alcuna.
Esiste anche la possibilità che vi sacrifichiate, per lasciare che l’altro viva al posto vostro. Questo è ciò che fanno i cristiani e gli imbecilli.
Altra obiezione, ancora più capziosa, è quella che assai spesso viene rivolta ai filosofi social-darwinisti ed elitari in generale; se aborrite così tanto il genere umano per quale motivo non vi suicidate ?
L’idiozia di questa impostazione è presto disvelata; i darwinisti sociali non odiano l’Uomo in sé, detestano e combattono l’uomo-massa divenuto cardine del degrado attuale. Non si aborre il genere umano, ma questo specifico genere umano che si trascina esausto, stanco e ingrigito come le vacche nelle paludi pontine. Ha detto una volta Pentii Linkola, replicando ad una simile obiezione mossa da uno scandalizzato lettore del New Yorker, che lui non avrebbe esitazione alcuna a suicidarsi se potesse portarsi dietro un 4 o 5 milioni di umanoidi. D’altronde sono proprio i non-suicidi a rendere la vita insopportabile, ci insegna il buon Jim Goad; se fossimo certi che ogni nostra morte potesse significare una ottimale decurtazione della piaga demografica allora sono certo che non ci sarebbero problemi nell’attuare la via della liberazione finale.
Si dice comunemente che i giovani assassini nero-vestiti sono alienati mentali, afflitti da anaffettività, carenze esistenziali di varia gradazione, problemi mentali o emotivi, temperamenti disforici, manie depressive od ossessivo-compulsive, e proprio per questo conducono vite monacali di puro isolamento; piuttosto grottesco che la beata solitudo conventuale venga svilita solo quando porta al massacro su scala industriale e non quando invece viene praticata come via ascetica di redenzione da monaci, chierici, mistici. Eppure l’isolamento è sempre e comunque una dura prova, una caratterizzazione positiva che finisce per connetterci alla nostra pura essenza interiore disvelandoci la rivelazione della nostra missione.
Ci si allontana dal genere umano per evitare la contaminazione, ma non ci si allontana dalla vita. Perché questi ragazzi che aprono il fuoco nelle scuole non odiano la vita. Anzi.
Sono il massimo esempio dell’amore per la vita. Per una vita differente rispetto a quella che vediamo condurre al giorno d’oggi da legioni di insulsi travet.
Coltivando la massima dell’ “essere esempio” tracciano una invisibile e subliminale ragnatela di messaggi e spunti che possano essere raccolti dai loro simili. E replicati all’infinito, in una deriva esponenziale di social-darwinismo che si auspica sia crescente e qualitativamente migliorato; d’altronde i primi tentativi sono esperimenti quasi sempre rozzi e poco efficaci ma che tuttavia hanno il pregio di aprire strade nuove, in modo pionieristico e da fungere, appunto, da esempio.
Isolazionismo non è un borborigma destituito di fondamento concreto, non è un giochetto da sperimentare quando si è annoiati dai propri melensi hobbies. Questo lo dico perché si sono registrati vari tentativi di vestire l’isolazionismo con il vestito di arlecchino dell’umanismo borghese; penso al libro di Labranca, agli esperimenti mondano-decerebrati per declinare l’isolazionismo nel senso di “parties del silenzio”, una vasta fenomenologia di aspirazioni infrante e sogni distrutti ed esotiche tentazioni intellettuali.
Oggi che poesia e letteratura decadono ad oggetto di programma ministeriale.
Oggi che l’arte diventa una categoria merceologica per attempate prostitute stanche dei club privè.
Oggi che la filosofia produce teorie imbecilli.
Oggi, più che ieri e meno di domani, sorge il bisogno di isolarsi, di non contaminarsi, di divenire a tutti gli effetti post-umani, nel senso di rompere i legacci che ci tengono avvinti al gregge.
C’è un conflitto in atto, invisibile, strisciante, difficile da percepire, quello che volete, ma pur sempre un conflitto.
E nei conflitti, o si vince o si perde.
Questa, in genere, è la prima obiezione che viene mossa a chi non condivide il coro della pace universale ogni volta che qualche massacratore liceale lascia dietro di sé una discretamente interessante scia di sangue e morte; obiezione tipicamente da decerebrati, mi si permetta di dirlo.
Perché il punto non è il valore della vita in sé. Dei rapporti filiali, amicali, parentali. Il punto, l’unico che davvero possa contare è la sopravvivenza; pensate, se ne siete in grado, se non vi ripugna il pensiero, se non siete così sensibili e timorosi, alla possibilità che dobbiate scegliere tra la vostra sopravvivenza e quella della persona che in apparenza vi è più cara. Vedrete che davanti allo spettro della estinzione non nutrirete esitazione alcuna.
Esiste anche la possibilità che vi sacrifichiate, per lasciare che l’altro viva al posto vostro. Questo è ciò che fanno i cristiani e gli imbecilli.
Altra obiezione, ancora più capziosa, è quella che assai spesso viene rivolta ai filosofi social-darwinisti ed elitari in generale; se aborrite così tanto il genere umano per quale motivo non vi suicidate ?
L’idiozia di questa impostazione è presto disvelata; i darwinisti sociali non odiano l’Uomo in sé, detestano e combattono l’uomo-massa divenuto cardine del degrado attuale. Non si aborre il genere umano, ma questo specifico genere umano che si trascina esausto, stanco e ingrigito come le vacche nelle paludi pontine. Ha detto una volta Pentii Linkola, replicando ad una simile obiezione mossa da uno scandalizzato lettore del New Yorker, che lui non avrebbe esitazione alcuna a suicidarsi se potesse portarsi dietro un 4 o 5 milioni di umanoidi. D’altronde sono proprio i non-suicidi a rendere la vita insopportabile, ci insegna il buon Jim Goad; se fossimo certi che ogni nostra morte potesse significare una ottimale decurtazione della piaga demografica allora sono certo che non ci sarebbero problemi nell’attuare la via della liberazione finale.
Si dice comunemente che i giovani assassini nero-vestiti sono alienati mentali, afflitti da anaffettività, carenze esistenziali di varia gradazione, problemi mentali o emotivi, temperamenti disforici, manie depressive od ossessivo-compulsive, e proprio per questo conducono vite monacali di puro isolamento; piuttosto grottesco che la beata solitudo conventuale venga svilita solo quando porta al massacro su scala industriale e non quando invece viene praticata come via ascetica di redenzione da monaci, chierici, mistici. Eppure l’isolamento è sempre e comunque una dura prova, una caratterizzazione positiva che finisce per connetterci alla nostra pura essenza interiore disvelandoci la rivelazione della nostra missione.
Ci si allontana dal genere umano per evitare la contaminazione, ma non ci si allontana dalla vita. Perché questi ragazzi che aprono il fuoco nelle scuole non odiano la vita. Anzi.
Sono il massimo esempio dell’amore per la vita. Per una vita differente rispetto a quella che vediamo condurre al giorno d’oggi da legioni di insulsi travet.
Coltivando la massima dell’ “essere esempio” tracciano una invisibile e subliminale ragnatela di messaggi e spunti che possano essere raccolti dai loro simili. E replicati all’infinito, in una deriva esponenziale di social-darwinismo che si auspica sia crescente e qualitativamente migliorato; d’altronde i primi tentativi sono esperimenti quasi sempre rozzi e poco efficaci ma che tuttavia hanno il pregio di aprire strade nuove, in modo pionieristico e da fungere, appunto, da esempio.
Isolazionismo non è un borborigma destituito di fondamento concreto, non è un giochetto da sperimentare quando si è annoiati dai propri melensi hobbies. Questo lo dico perché si sono registrati vari tentativi di vestire l’isolazionismo con il vestito di arlecchino dell’umanismo borghese; penso al libro di Labranca, agli esperimenti mondano-decerebrati per declinare l’isolazionismo nel senso di “parties del silenzio”, una vasta fenomenologia di aspirazioni infrante e sogni distrutti ed esotiche tentazioni intellettuali.
Oggi che poesia e letteratura decadono ad oggetto di programma ministeriale.
Oggi che l’arte diventa una categoria merceologica per attempate prostitute stanche dei club privè.
Oggi che la filosofia produce teorie imbecilli.
Oggi, più che ieri e meno di domani, sorge il bisogno di isolarsi, di non contaminarsi, di divenire a tutti gli effetti post-umani, nel senso di rompere i legacci che ci tengono avvinti al gregge.
C’è un conflitto in atto, invisibile, strisciante, difficile da percepire, quello che volete, ma pur sempre un conflitto.
E nei conflitti, o si vince o si perde.
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