Solo il sibilo del vento tra i rami degli alberi, nessun altro rumore per decine e decine di chilometri. Nemmeno il battito del suo cuore. Nulla.
Laghi ghiacciati riflettono sulla superficie di cristallo i bagliori rossi del sole morente, le prime timide ombre emergono dal ventre del cielo del nord come fossero relitti di navi da tanto tempo naufragate; il peso di una solitudine maestosa, pessimisticamente orientata alla accettazione del proprio destino, arriva il turbinio della neve della tempesta dei tuoni che squassano le nubi all’orizzonte le sagome urbane avvolte dai profili nebbiosi dell’orizzonte, è una solitudine d’acciaio, che non lascia scampo, proprio come una desolata ritirata tra le carni dell’inverno.
Un rumore secco rompe l’incantesimo del silenzio.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Sono spari. Di una pistola da guerra. L’immagine sgranata finita ad ornare youtube inghiotte la scena dall’alto verso il basso mostrando delle frasche ingombre di neve ed una figura possente, avvolta in un pastrano nero, che regge con sicurezza tra le mani la pistola con cui sta facendo fuoco.
Fuoco. Quanta ironia in questa espressione. Il fuoco primordiale, anelito prometeico e post-nietzschano, quel caos primordiale di energia creatrice e distruttrice che danza e balla e rotea su se stesso come un mistero eleusino consumatosi tra i tonfi del Runnebomme sciamanico, tra fredde steppe finlandesi e laghi sami.
Il Dio del Tuono se la ride beato dalla sua nuvola di amianto, tra i piccoli agglomerati pionieristici di pescatori e le strade di asfalto ed i moduli abitativi impazziti così tragicamente simili a metastasi, giù nel delirio cittadino, in quel fast-forward esistenziale di alcool, feste, vita universitaria, ritmi stereotipati ed imposti, cicli produttivi.
La pistola è una estensione della volontà di potenza. Un oggetto neutro, né buono né cattivo. Progettato e realizzato comunque per uccidere, pontificano i soloni della pace ad oltranza. Certo, e chi ne dubita? Ma la vera questione è; per uccidere chi?
Siamo così insensibili alla qualità della vita, così miseramente drogati dalla felicità artefatta generata dalle razioni di merda catodica che ci propinano tutti i giorni da non assegnare più il minimo valore alla qualità dell’esistenza; si pensa che la vita sia un valore assoluto, non importa quanto infelice, misera, riprovevole, degradata essa possa essere. Paradigma della nostra condotta quotidiana, dobbiamo reiterarne l’ossatura portante, sottomettendoci alla viltà della socializzazione coattiva, ai cartellini da timbrare, alle feste scolastiche a cui presenziare al fine di preservare un certo grado di rispettabilità sociale; una vita in balia del giudizio degli altri e del Sistema, il quale Sistema sembra ben lieto per reiterare il suo dominio di assegnare compiti insensati e prospettive future prive di significato.
Laghi ghiacciati riflettono sulla superficie di cristallo i bagliori rossi del sole morente, le prime timide ombre emergono dal ventre del cielo del nord come fossero relitti di navi da tanto tempo naufragate; il peso di una solitudine maestosa, pessimisticamente orientata alla accettazione del proprio destino, arriva il turbinio della neve della tempesta dei tuoni che squassano le nubi all’orizzonte le sagome urbane avvolte dai profili nebbiosi dell’orizzonte, è una solitudine d’acciaio, che non lascia scampo, proprio come una desolata ritirata tra le carni dell’inverno.
Un rumore secco rompe l’incantesimo del silenzio.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Sono spari. Di una pistola da guerra. L’immagine sgranata finita ad ornare youtube inghiotte la scena dall’alto verso il basso mostrando delle frasche ingombre di neve ed una figura possente, avvolta in un pastrano nero, che regge con sicurezza tra le mani la pistola con cui sta facendo fuoco.
Fuoco. Quanta ironia in questa espressione. Il fuoco primordiale, anelito prometeico e post-nietzschano, quel caos primordiale di energia creatrice e distruttrice che danza e balla e rotea su se stesso come un mistero eleusino consumatosi tra i tonfi del Runnebomme sciamanico, tra fredde steppe finlandesi e laghi sami.
Il Dio del Tuono se la ride beato dalla sua nuvola di amianto, tra i piccoli agglomerati pionieristici di pescatori e le strade di asfalto ed i moduli abitativi impazziti così tragicamente simili a metastasi, giù nel delirio cittadino, in quel fast-forward esistenziale di alcool, feste, vita universitaria, ritmi stereotipati ed imposti, cicli produttivi.
La pistola è una estensione della volontà di potenza. Un oggetto neutro, né buono né cattivo. Progettato e realizzato comunque per uccidere, pontificano i soloni della pace ad oltranza. Certo, e chi ne dubita? Ma la vera questione è; per uccidere chi?
Siamo così insensibili alla qualità della vita, così miseramente drogati dalla felicità artefatta generata dalle razioni di merda catodica che ci propinano tutti i giorni da non assegnare più il minimo valore alla qualità dell’esistenza; si pensa che la vita sia un valore assoluto, non importa quanto infelice, misera, riprovevole, degradata essa possa essere. Paradigma della nostra condotta quotidiana, dobbiamo reiterarne l’ossatura portante, sottomettendoci alla viltà della socializzazione coattiva, ai cartellini da timbrare, alle feste scolastiche a cui presenziare al fine di preservare un certo grado di rispettabilità sociale; una vita in balia del giudizio degli altri e del Sistema, il quale Sistema sembra ben lieto per reiterare il suo dominio di assegnare compiti insensati e prospettive future prive di significato.
Una esistenza legata artificialmente ad un respiratore viene considerata comunque degna di rispetto e di prosecuzione, non importa quanto accorata possa essere la richiesta del malato affinchè si stacchi la spina e gli si permetta di morire. Si vietano le cure e le ricerche sugli embrioni perché le si ritengono inaccettabili sintomi del Demone eugenetico; qualunque opzione per migliorare la qualità, in luogo dell’aumentare la quantità, del genere umano è aborrita e contrastata dai professionisti della compassione.
Un essere geneticamente malformato, una mente tarata dalla idiozia atavica, una non-persona disagiata, sola, destinata ad estinguersi nella dissoluzione psico-spirituale del suo destino vengono considerati regali preziosi, segni tangibili della ordalia cristologica nel suo dispiegarsi dialettico da eterno ritorno.
Flussi demografici impazziti vomitano umanoidi privi di speranza, intere nazioni sprofondano nella povertà assoluta, una povertà diventata paradigma totale del mondo moderno, cancro che divora dall’interno le viscere del genere umano; si rincorrono i miraggi del turbocapitalismo produttivo, nazioni-continente come India e Cina deforestano, distruggono, profanano la Natura, costruiscono alveari di cemento come tante città-fortezza di Kowloon tragicamente somiglianti alle visioni distopico-gotiche di Beksinski, innalzano le mura di dighe che prosciugano bacini d’acqua, stravolgono gli ecosistemi, immettono in circolo fumi tossici e scorie di ogni tipologia.
Legioni di zombies non-umani, nonostante l’ossessionante mantra di umanitarismo che ci gronda addosso, si apprestano ad invadere anche i territori in cui solitudine e silenzio continuano ad essere dei valori. Dove il verbo pietistico ed anti-naturale del Nazareno, e dei suoi servi, non ha ancora attecchito del tutto.
Le memorie del sottosuolo emergono alla luce, alla fredda glaciale luce che balugina nell’aurora boreale, un dipinto di Fredrich tra nebbie e pinnacoli di roccia e tombe coperte dal muschio, ed una pistola per iniziare l’opera di selezione.
Il prete vuole convincerci che la vita è sempre e comunque un valore da preservare, immaginate qualcosa di più immondo di questa predicazione? Come effetto più perverso, il verbo monoteista (dato che qui non si fanno sconti nemmeno a islam e giudaismo) ha privato l’Uomo di una integrazione coerente e sostenibile tra Tecnica e Natura; sono venute meno le basi logiche dell’adattabilità del genere umano al suo ambiente, seguendo le disposizioni strutturali della Tecnica.
Tecnica e Natura sono diventati due mondi separati, le cui orbite disegnano ellissi cosmiche che finiscono per non intrrecciarsi mai.
La sovrumana bellezza ascetica del Singolo, quel singolo braccato da un Sistema che esige un controllo capillare per dirla alla Junger , deve rivivere nel cuore del Bosco interiore, in quella bella e luminescente solitudine che già Nietzsche ci esortava a coltivare avendo attorno a noi solo uomini intrinsecamente buoni. Laddove ovviamente la bontà assume una connotazione diversa rispetto a quella che il cristianesimo le ha fatto assumere, e che ha deturpato facendone ideale conservativo per gli istinti più bassi e vili di una massa schiumosa di malriusciti.
Un essere geneticamente malformato, una mente tarata dalla idiozia atavica, una non-persona disagiata, sola, destinata ad estinguersi nella dissoluzione psico-spirituale del suo destino vengono considerati regali preziosi, segni tangibili della ordalia cristologica nel suo dispiegarsi dialettico da eterno ritorno.
Flussi demografici impazziti vomitano umanoidi privi di speranza, intere nazioni sprofondano nella povertà assoluta, una povertà diventata paradigma totale del mondo moderno, cancro che divora dall’interno le viscere del genere umano; si rincorrono i miraggi del turbocapitalismo produttivo, nazioni-continente come India e Cina deforestano, distruggono, profanano la Natura, costruiscono alveari di cemento come tante città-fortezza di Kowloon tragicamente somiglianti alle visioni distopico-gotiche di Beksinski, innalzano le mura di dighe che prosciugano bacini d’acqua, stravolgono gli ecosistemi, immettono in circolo fumi tossici e scorie di ogni tipologia.
Legioni di zombies non-umani, nonostante l’ossessionante mantra di umanitarismo che ci gronda addosso, si apprestano ad invadere anche i territori in cui solitudine e silenzio continuano ad essere dei valori. Dove il verbo pietistico ed anti-naturale del Nazareno, e dei suoi servi, non ha ancora attecchito del tutto.
Le memorie del sottosuolo emergono alla luce, alla fredda glaciale luce che balugina nell’aurora boreale, un dipinto di Fredrich tra nebbie e pinnacoli di roccia e tombe coperte dal muschio, ed una pistola per iniziare l’opera di selezione.
Il prete vuole convincerci che la vita è sempre e comunque un valore da preservare, immaginate qualcosa di più immondo di questa predicazione? Come effetto più perverso, il verbo monoteista (dato che qui non si fanno sconti nemmeno a islam e giudaismo) ha privato l’Uomo di una integrazione coerente e sostenibile tra Tecnica e Natura; sono venute meno le basi logiche dell’adattabilità del genere umano al suo ambiente, seguendo le disposizioni strutturali della Tecnica.
Tecnica e Natura sono diventati due mondi separati, le cui orbite disegnano ellissi cosmiche che finiscono per non intrrecciarsi mai.
La sovrumana bellezza ascetica del Singolo, quel singolo braccato da un Sistema che esige un controllo capillare per dirla alla Junger , deve rivivere nel cuore del Bosco interiore, in quella bella e luminescente solitudine che già Nietzsche ci esortava a coltivare avendo attorno a noi solo uomini intrinsecamente buoni. Laddove ovviamente la bontà assume una connotazione diversa rispetto a quella che il cristianesimo le ha fatto assumere, e che ha deturpato facendone ideale conservativo per gli istinti più bassi e vili di una massa schiumosa di malriusciti.
Bontà significa saper comprendere che solo la solitudine, l’isolamento, la fortificazione dell’animo possono salvarci e redimerci da millenni di logorrea cristiana.
Dice Pentii Linkola che la condizione del genere umano attuale non è poi molto dissimile da quella di una Zattera della Medusa, alla deriva nel blu cupo dell’Oceano; troppe persone a bordo, destinate nel loro insieme alla morte globale. Per rendere sostenibile la situazione, per dare una qualche speranza di sopravvivenza e di vita migliore diventa inevitabile sacrificare l’eccedente.
Durante i naufragi, quando la nave è in balia delle onde, del vento e della corrente, l’istinto di sopravvivenza dei passeggeri e dei marinai porta al superamento di ogni vincolo familiare, emotivo e di amicizia, capita spesso come raccontato da vari scrittori esperti in cose di mare di vedere madri passare sui propri figli per raggiungere il punto più alto dei pennoni, furiosi quadri carnografici e laocoontici di lotte all’ultimo sangue tra appartenenti allo stesso nucleo familiare.
Un mondo sovrappopolato, inquinato, devastato da logiche e filosofie turpi ed antinaturali non è diverso da una gigantesca Zattera della Medusa. E curiosamente come dicevano Darwin e Spencer, che di Darwin riprese le teorizzazioni applicandole alla sociologia, l’essere vivente tende ad adattarsi alle caratteristiche dell’ambiente in cui si trova; quindi ne consegue che degenerato il mondo, degenerato l’uomo. Sempre di più, sempre più proteso verso la dissoluzione totale e totalizzante.
Il social-darwinismo non significa sopravvivenza del più forte; l’espressione “survival of the fittest” può infatti essere tradotta come “sopravvivenza del maggiormente adattabile”, e questo lo si deve specificare significa che “migliore” è chi si svincola dalla sovrastruttura eticamente castrante del presente, chi vede il pericolo della sovrappopolazione totalitaria, il degrado della qualità dell’esistenza ed inizia ad agire di conseguenza. Chi non si adatta cioè al contesto etologico per divenirne una parte integrante e necessitata, ma chi invece adatta solo gli strumenti estrinseci della sua battaglia al contesto che lo circonda.
Innanzitutto, la riscoperta del valore individuale; un lungo, inesausto, duro percorso di purificazione ordalica dai dis-valori borghesi e socializzanti, da raggiungersi attraverso un intenso lavoro interiore e attraverso l’isolamento ascetico e spartano. Aprire gli occhi per vedere finalmente la carne putrefatta del genere umano, provare il disgusto ed il sapore parimenti disgustoso dell’esistenza moderna.
Questo percorso è una battaglia, una lotta contro quanto di informe e vile continua ad albergare nel nostro animo; esige la creazione di uno stato di tensione permanente, quel sacro furore scatenato e gelidamente lucido al tempo stesso che solo l’avvento della guerra può determinare. La guerra, come ogni ipotesi escatologica, porta con sé la conoscenza dei tempi ultimi, il superamento dei limiti, la determinazione poetica e creativa; non a caso i più grandi ed importanti fermenti artistici sono stati vissuti sotto il peso abbacinante di una guerra passata o imminente.
Una volta c’erano le Danze Macabre ad esorcizzare, e celebrare, la venuta della morte su scala globale, le pestilenze che già Boccaccio cantava languidamente; migliaia di cadaveri decomposti nel ventre di città che, paradossale quanto si vuole, tornavano ad avere uno spirito genuinamente vitalistico, umano e naturale, e proprio in quel clima di generalizzata tensione emotiva si prendeva a bramare la vita con una spinta carnale quasi mistico-sessuale.
Solo in questi attimi di crepitante Kaly-Yuga abbiamo la possibilità di veder disvelata la vera natura di ogni singolo essere Uomo, disarticolato dal grigiore della massa e tornato ad essere un Singolo che lotta e combatte per un fine superiore.
Propiziare una guerra interiore è l’atto propedeutico per determinare la nascita dell’Uomo Nuovo, l’Uomo liberato da morale e da altre strutture psichiche dis-umane.
Perdoneremo agli assassini di massa che vediamo gingillarsi con internet e pistole la loro vanità, determinata quasi certamente da residue scorie di compiacimento edonistico. Molti di loro reagiscono ad impulsi non perfettamente razionalizzati, compresi solo in minima parte; capita assai spesso che agiscano in preda ad una strana frenesia, a veri raptus, dettati da motivazioni contingenti e superficiali che sviliscono ciò che hanno fatto. I pomposi criminologi li definiscono “delitti senza movente”, ma non vedono o fa loro comodo non vedere (o non dire, che è diverso) che un movente c’è sempre, può trattarsi di risentimento giovanilistico, di esclusione sociale, di frustrazione, di ciò che la sociologia definisce anomia, ovvero sfumature alterate della devianza prodotta in quantità industriale dalla società borghese.
Ogni massacro in un liceo, americano o nord-europeo, è consumato tra i ritmi furenti dell’industrial-metal e tra sproloqui di revanche socio-esistenziale, vaga traccia super-omistica di un Nietzsche letto sul bignami. Manca sempre la spinta definitiva, l’agire disinteressato, la pianificazione scientifica, lucida e non motivata da considerazioni egotiche o gonfie di risentimento; si presta più attenzione al particolare coreografico, alla maglietta da indossare, alle frasi da lasciare come perenne memento davanti ad una telecamera di ultima generazione piuttosto che all’azione in sé.
Naturalmente, Columbine, Virginia-Tech o liceo della sconosciuta e fredda provincia finlandese, in qualunque massacro dettato da una visione (per quanto confusa) social-darwinista dovremmo forse condannare il fatto? Dovremmo star qui a strapparci i capelli e le vesti ed intonare con accorata voce rotta dal pianto il canto dell’esecrazione universale? Dovremmo dar fondo a tutti i residui di socio-psicologia d’accatto buoni per qualche talk show a corto di audience ?
Il più grottesco, apparentemente insensato di questi killer nero-vestiti è milioni di volte più umano e lucido di quanto non lo siano i probi cittadini che divorano le crude notizie sul giornale.
Ci si chiede di condannare una sparatoria liceale, quando poi il Sistema stesso produce e propizia l’estinzione del genere umano attraverso aumento incontrollato della demografia globale, inquinamento massivo, annientamento della natura, rifiuto della eugenetica. Situazione ironica, direi.
Chi ulula di compassione e carità e amore fraterno non può permettersi la minima predica morale, non dovrebbe nemmeno dar fiato alla voce; dovrebbe invece avere l’onestà intellettuale ed il buongusto di tacere, perché vede benissimo quanto disgustoso sia il mondo moderno, quanto vile, fumoso, degenerato, prossimo al collasso economico, sociale, politico.
Dice Pentii Linkola che la condizione del genere umano attuale non è poi molto dissimile da quella di una Zattera della Medusa, alla deriva nel blu cupo dell’Oceano; troppe persone a bordo, destinate nel loro insieme alla morte globale. Per rendere sostenibile la situazione, per dare una qualche speranza di sopravvivenza e di vita migliore diventa inevitabile sacrificare l’eccedente.
Durante i naufragi, quando la nave è in balia delle onde, del vento e della corrente, l’istinto di sopravvivenza dei passeggeri e dei marinai porta al superamento di ogni vincolo familiare, emotivo e di amicizia, capita spesso come raccontato da vari scrittori esperti in cose di mare di vedere madri passare sui propri figli per raggiungere il punto più alto dei pennoni, furiosi quadri carnografici e laocoontici di lotte all’ultimo sangue tra appartenenti allo stesso nucleo familiare.
Un mondo sovrappopolato, inquinato, devastato da logiche e filosofie turpi ed antinaturali non è diverso da una gigantesca Zattera della Medusa. E curiosamente come dicevano Darwin e Spencer, che di Darwin riprese le teorizzazioni applicandole alla sociologia, l’essere vivente tende ad adattarsi alle caratteristiche dell’ambiente in cui si trova; quindi ne consegue che degenerato il mondo, degenerato l’uomo. Sempre di più, sempre più proteso verso la dissoluzione totale e totalizzante.
Il social-darwinismo non significa sopravvivenza del più forte; l’espressione “survival of the fittest” può infatti essere tradotta come “sopravvivenza del maggiormente adattabile”, e questo lo si deve specificare significa che “migliore” è chi si svincola dalla sovrastruttura eticamente castrante del presente, chi vede il pericolo della sovrappopolazione totalitaria, il degrado della qualità dell’esistenza ed inizia ad agire di conseguenza. Chi non si adatta cioè al contesto etologico per divenirne una parte integrante e necessitata, ma chi invece adatta solo gli strumenti estrinseci della sua battaglia al contesto che lo circonda.
Innanzitutto, la riscoperta del valore individuale; un lungo, inesausto, duro percorso di purificazione ordalica dai dis-valori borghesi e socializzanti, da raggiungersi attraverso un intenso lavoro interiore e attraverso l’isolamento ascetico e spartano. Aprire gli occhi per vedere finalmente la carne putrefatta del genere umano, provare il disgusto ed il sapore parimenti disgustoso dell’esistenza moderna.
Questo percorso è una battaglia, una lotta contro quanto di informe e vile continua ad albergare nel nostro animo; esige la creazione di uno stato di tensione permanente, quel sacro furore scatenato e gelidamente lucido al tempo stesso che solo l’avvento della guerra può determinare. La guerra, come ogni ipotesi escatologica, porta con sé la conoscenza dei tempi ultimi, il superamento dei limiti, la determinazione poetica e creativa; non a caso i più grandi ed importanti fermenti artistici sono stati vissuti sotto il peso abbacinante di una guerra passata o imminente.
Una volta c’erano le Danze Macabre ad esorcizzare, e celebrare, la venuta della morte su scala globale, le pestilenze che già Boccaccio cantava languidamente; migliaia di cadaveri decomposti nel ventre di città che, paradossale quanto si vuole, tornavano ad avere uno spirito genuinamente vitalistico, umano e naturale, e proprio in quel clima di generalizzata tensione emotiva si prendeva a bramare la vita con una spinta carnale quasi mistico-sessuale.
Solo in questi attimi di crepitante Kaly-Yuga abbiamo la possibilità di veder disvelata la vera natura di ogni singolo essere Uomo, disarticolato dal grigiore della massa e tornato ad essere un Singolo che lotta e combatte per un fine superiore.
Propiziare una guerra interiore è l’atto propedeutico per determinare la nascita dell’Uomo Nuovo, l’Uomo liberato da morale e da altre strutture psichiche dis-umane.
Perdoneremo agli assassini di massa che vediamo gingillarsi con internet e pistole la loro vanità, determinata quasi certamente da residue scorie di compiacimento edonistico. Molti di loro reagiscono ad impulsi non perfettamente razionalizzati, compresi solo in minima parte; capita assai spesso che agiscano in preda ad una strana frenesia, a veri raptus, dettati da motivazioni contingenti e superficiali che sviliscono ciò che hanno fatto. I pomposi criminologi li definiscono “delitti senza movente”, ma non vedono o fa loro comodo non vedere (o non dire, che è diverso) che un movente c’è sempre, può trattarsi di risentimento giovanilistico, di esclusione sociale, di frustrazione, di ciò che la sociologia definisce anomia, ovvero sfumature alterate della devianza prodotta in quantità industriale dalla società borghese.
Ogni massacro in un liceo, americano o nord-europeo, è consumato tra i ritmi furenti dell’industrial-metal e tra sproloqui di revanche socio-esistenziale, vaga traccia super-omistica di un Nietzsche letto sul bignami. Manca sempre la spinta definitiva, l’agire disinteressato, la pianificazione scientifica, lucida e non motivata da considerazioni egotiche o gonfie di risentimento; si presta più attenzione al particolare coreografico, alla maglietta da indossare, alle frasi da lasciare come perenne memento davanti ad una telecamera di ultima generazione piuttosto che all’azione in sé.
Naturalmente, Columbine, Virginia-Tech o liceo della sconosciuta e fredda provincia finlandese, in qualunque massacro dettato da una visione (per quanto confusa) social-darwinista dovremmo forse condannare il fatto? Dovremmo star qui a strapparci i capelli e le vesti ed intonare con accorata voce rotta dal pianto il canto dell’esecrazione universale? Dovremmo dar fondo a tutti i residui di socio-psicologia d’accatto buoni per qualche talk show a corto di audience ?
Il più grottesco, apparentemente insensato di questi killer nero-vestiti è milioni di volte più umano e lucido di quanto non lo siano i probi cittadini che divorano le crude notizie sul giornale.
Ci si chiede di condannare una sparatoria liceale, quando poi il Sistema stesso produce e propizia l’estinzione del genere umano attraverso aumento incontrollato della demografia globale, inquinamento massivo, annientamento della natura, rifiuto della eugenetica. Situazione ironica, direi.
Chi ulula di compassione e carità e amore fraterno non può permettersi la minima predica morale, non dovrebbe nemmeno dar fiato alla voce; dovrebbe invece avere l’onestà intellettuale ed il buongusto di tacere, perché vede benissimo quanto disgustoso sia il mondo moderno, quanto vile, fumoso, degenerato, prossimo al collasso economico, sociale, politico.
Lo spirito barbaro costruttore lotta per emergere ma è ricacciato sotto terra dalla visione pietistica cristiana; la lotta tra queste due distinte polarità informa la vita quotidiana contemporanea, ed il nostro destino dipenderà da chi tra le due avrà la meglio.
Con la compassione non otteniamo che la corruzione interiore; l’empatia che ci porta a sublimare in noi stessi la miseria altrui non aiuta l’altro e al contempo ci costringe ad inginocchiarci e a renderci partecipi di quella stessa miseria. Non esiste redenzione che possa essere pacifica. Millenni di storia stanno lì a testimoniarlo, teschi, lingue crepitanti di fuoco, genocidi, devastazioni globali hanno determinato l’emersione del fiore delle civiltà classiche mentre oggi sono bastati 60 miseri anni di pace strisciante e torpore esistenziale ad annientare il senso stesso della vita.
Che cosa hanno prodotto questi anni di pace? Mostratemi una sola cosa positiva, ve ne prego.
Ricchezza economica condivisa ? Non ne vedo traccia.
Sviluppo tecnologico sostenibile ? Nemmeno.
Tensione creativa ed arte ? Al contrario, le arti di qualunque genere sono regredite fino alla asfissia.
Dimensione urbana vivibile ? Al confronto con le città contemporanee, le megalopoli delle visioni distopiche della fantascienza somigliano alla Contea degli Hobbit.
Una crescita del senso individuale dell’Uomo, un dispiegarsi di sani valori ? Nemmeno per sogno, l’uomo di oggi è livellato, massificato, ingrigito, è un uomo-massa.
60 anni di pace hanno creato solo la possibilità di sopravvivere ed esistere in luogo del VIVERE davvero.
Quando un qualche sociologo tuona contro le nefaste influenze che spingono un killer a far fuoco contro i compagni di scuola dovrebbe fermarsi un attimo e riflettere su quanto sta affermando; vedrebbe allora che l’unica vera nefasta influenza è la pace in sé, questa pace vigliacca, languida, lurida che per decenni ci ha fatto credere che la prigione esistenziale in cui siamo calati fosse la migliore delle soluzioni possibili, che ha nascosto sotto il metaforico tappeto tutti i veri valori e tutti i motivi per cui la vita sarebbe davvero degna di essere vissuta.
Statene pur certi, per tutti arriverà il giorno del Giudizio; quel giorno l’importante sarà da che parte della pistola fumante stare.
Con la compassione non otteniamo che la corruzione interiore; l’empatia che ci porta a sublimare in noi stessi la miseria altrui non aiuta l’altro e al contempo ci costringe ad inginocchiarci e a renderci partecipi di quella stessa miseria. Non esiste redenzione che possa essere pacifica. Millenni di storia stanno lì a testimoniarlo, teschi, lingue crepitanti di fuoco, genocidi, devastazioni globali hanno determinato l’emersione del fiore delle civiltà classiche mentre oggi sono bastati 60 miseri anni di pace strisciante e torpore esistenziale ad annientare il senso stesso della vita.
Che cosa hanno prodotto questi anni di pace? Mostratemi una sola cosa positiva, ve ne prego.
Ricchezza economica condivisa ? Non ne vedo traccia.
Sviluppo tecnologico sostenibile ? Nemmeno.
Tensione creativa ed arte ? Al contrario, le arti di qualunque genere sono regredite fino alla asfissia.
Dimensione urbana vivibile ? Al confronto con le città contemporanee, le megalopoli delle visioni distopiche della fantascienza somigliano alla Contea degli Hobbit.
Una crescita del senso individuale dell’Uomo, un dispiegarsi di sani valori ? Nemmeno per sogno, l’uomo di oggi è livellato, massificato, ingrigito, è un uomo-massa.
60 anni di pace hanno creato solo la possibilità di sopravvivere ed esistere in luogo del VIVERE davvero.
Quando un qualche sociologo tuona contro le nefaste influenze che spingono un killer a far fuoco contro i compagni di scuola dovrebbe fermarsi un attimo e riflettere su quanto sta affermando; vedrebbe allora che l’unica vera nefasta influenza è la pace in sé, questa pace vigliacca, languida, lurida che per decenni ci ha fatto credere che la prigione esistenziale in cui siamo calati fosse la migliore delle soluzioni possibili, che ha nascosto sotto il metaforico tappeto tutti i veri valori e tutti i motivi per cui la vita sarebbe davvero degna di essere vissuta.
Statene pur certi, per tutti arriverà il giorno del Giudizio; quel giorno l’importante sarà da che parte della pistola fumante stare.
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