giovedì 15 novembre 2007

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In Crack Whore Confessions, il regista-attore intervista le ragazze che accettano di farsi riprendere; carrellata di casi umani, donne senza denti, alcune ancora invischiate nella tossicodipendenza, altre appena riemerse e desiderose di guadagnare dei soldi che possano tenerle lontane dalla tentazione di rubare per fumare cristalli di crack, le loro idiozie, le loro scuse, i loro ragionamenti sono devastanti ricordi del tempo trascorso nelle case del crack, nei ghetti, a vendersi per pochissimi spiccioli, a massacrare poveri cuccioli di cane con serrati colpi di bastone solo perché quell’abbaiare infastidisce le orecchie rese iper-ricettive dall’abuso di droga.
Nessuno acquista questi video per il quoziente sessuale e dire che queste puttane possano succhiare il cazzo meglio delle starlette siliconate sarebbe un mero esercizio di stile, un qualcosa di assolutamente privo di senso o valore; i corpi rovinati, le dentature saltate vanno bene per i primi minuti, ma il vero punto di forza sta nelle chiacchiere, nel loro accettare di essere riprese e nel mettere a nudo, letteralmente, il loro dolore esistenziale, le loro patetiche esistenze nutrite di un continuo fallimento.
Ideale compendio di queste scene può essere il libro Crack Pipe As Pimp (Lexington Books), curato da Mitchell Ratner, una investigazione socio-antropologica condotta tra i casi più disperati delle crack-houses; come tanti novelli Krafft-Ebing, gli autori dei saggi che compongono questo libro si limitano a raccogliere il flusso di coscienza schizoide di vari personaggi, tutti rigorosamente reali, dai nomi pittoreschi come Negro, Kingrats, Skeezer. Un mondo oscuro di scopate in cambio di una dose, risse animalesche, stupri di gruppo, fogne abitative diventate inferni architettonici; la storia migliore è certamente quella di Rose e Ronney, due teneri piccioncini infetti dall’AIDS e resi violenti, irascibili e paranoici dal consumo smodato di cristalli, li seguiamo nel loro mesto vagabondare tra i bassifondi di una qualunque metropoli americana, e quando non sono impegnati a fottere o a rubare per pagarsi i loro vizi li vediamo torturare cucciolotti di cane, generalmente attraverso estrazioni forzate dei denti o bastonature feroci. Il tono generale del testo è malevolo e crudo, lontano da ipotesi di saccenza accademica, il gergo è scurrile e deriva direttamente dalle bocche dei protagonisti, Ratner si guarda bene dal censurare, rimuovere, obliare, preferendo invece concentrarsi in un accorpamento di casi, umanamente e psicologicamente simili; così vediamo persone in vari stadi di tossicodipendenza e di umiliazione sociale, vari comportamenti ricondotti non tanto a spiegazioni sociologiche quanto a manie esistenziali.
Non è tanto diverso in Ciudad de Deus, film brasiliano che getta uno sguardo disincantato sulla vita nelle favelas; le dinamiche di potere, l’abbrutimento e la gerarchia tra droghe, i conflitti a fuoco, la prostituzione come unica soluzione per poter continuare ad avere un ruolo, un significato, l’essere protettori indulgendo in stereotipi di bolso machismo. La mia scena preferita del film è quella in cui la banda di narcotrafficanti, ideali protagonisti le cui vicende seguiamo per l’evolversi dei minuti, decide di regolare i conti con i ninos de rua, ragazzini e bambini fumati di colla, aggressivi, violenti, menefreghisti proprio perché resi impermeabili alle emozioni e al ragionamento da una rigida dieta di colla inalata; i trafficanti capiscono che i bambini non rispettano la loro autorità, infastidiscono i turisti e richiamano continuamente l’attenzione della polizia, e per questo, in una scena da western crepuscolare, danno loro una serrata caccia, ne catturano uno e per dare una lezione generale lo torturano e poi lo giustiziano sparandogli in testa e facendo in modo che un amico del giustiziato vada a riferire a tutti gli altri ninos quale è il trattamento riservato loro se continueranno a rompere i coglioni.
La scena dell’omicidio è diretta. Non ci sono metafore né preamboli; sai perfettamente sin da quando gli mettono le mani addosso che lo trucideranno. E’ qualcosa che in Brasile accade molto spesso, e in modi persino più violenti di questa finzione artistica. Un documentario con immagini di repertorio da un ideale Real Tv di Brasilia o Rio o Fortaleza ci mostrerebbe atrocità inaudite e più dure di quelle che il film osa mostrarci. Ma la grandezza di Ciudad de Deus sta nella costante disperazione, nel suo tessuto narrativo, che ci fornisce delle vie guidate di comprensione e rende i personaggi persone quasi autentiche, con delle emozioni, dei sogni, delle caratteristiche riconoscibili, tridimensionali e non ritagliati nel cartone. Al contrario dei vari cadaveri crivellati di proiettili ripescati dal mare o dai fiumi, che rappresentano solo dei pezzi di carne bella frollata privi di qualunque identità.
A propositò di identità, il fotografo svedese Kent Klich ha realizzato due libri significativi in cui si esplora la relazione che intercorre tra droga e desolazione umana; uno, The Book of Beth (Aperture), raccoglie la vita di una tossicomane svedese di nome Beth, vari scatti in bianco/nero che documentano l’inferno esistenziale della ragazza, i rari momenti di emersione dal dolore quotidiano, la cristallizzazione del ricordo, della prostituzione, le lacrime, la lagnante automutilazione, squallidi interni di altrettanto squallide case popolari, alveari di devastazione e miseria morale. Una sorta di Christiane F scandinava, meno compiaciuta, meno underground, ma certamente più toccante.
L’altro libro di Klich degno di attenzione è il drammatico Children of Ceausescu ; negli ultimi anni la Romania è divenuta terra promessa di pedofili e fotografi umanitari, decisi i primi a ficcare il cazzo in qualunque buco a disposizione i secondi invece a riscattare l’abisso di depravazione attraverso fotografie e testi e fondi ricavati devoluti ad associazioni che lottano contro malattie infettive, denutrizione, povertà, ed è piuttosto divertente immaginare queste orde di depravati e di artisti, gli uni inconsapevoli degli altri, scivolarsi addosso tra i bar e le strade del centro cittadino di Bucarest, i volti zingari, i sorrisi di fame, i capelli rasati a zero, le puttane e le richieste di sesso, gli scatti fotografici che tanto gli artisti quanto i pedofili, ciascuno con la sua peculiare motivazione, porteranno con loro una volta che l’aereo Tarom si sia lasciato alle spalle la planimetria cittadina rigidamente socialista.
In Children of Ceausescu, il tema centrale sono i miserandi orfanatrofi di Stato, luoghi bui e sordidi, veri lager dentro cui i bambini di strada, molto spesso affetti da AIDS o da ritardo mentale, vengono stipati, incatenati, rinchiusi e celati allo sguardo dei capitalisti e dei turisti occidentali, una lunga fila di bambini incancreniti, fisicamente e psicologicamente annientati da una non-vita di mercificazione, incontro prematuro con droghe sintetiche, abusi, stupri, sesso con pedofili di varie parti del mondo, e li vedi questi bambini, li vedi i loro occhi spenti, iniettati di sangue, non sorridono, e se qualche operatore sanitario cerca di farli ridere a beneficio della fotocamera sai che quel sorriso è solo una nuova ferita inferta in uno strazio già abbondante.
Non ci sono regali, coccole, amore che possano riesumare un barlume di umanità e di speranza. Questi ragazzini, anche se si muovono, anche se rincorrono un pallone nel cortile cinto da una palizzata da gulag, anche se di tanto in tanto guardano in alto verso il cielo spento coperto da una rada foschia, sono morti. Morti in attesa di capire cosa significhi la morte.
Negli scatti di Klich vedi ogni singola ferita, ogni solco nella pelle e nella carne, le pustole, il pus, la calvizie imposta dall’AIDS, le contorsioni dolorose, le feci, le poche lacrime che sono rimaste in quegli occhi secchi.





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