Mi guarda reclinando leggermente la testa, come una lucertola intenta a prendere il sole - ma qui di sole non c'è traccia, solo carta da parati sporca e di pessimo gusto, penombra solustro di vedo/nonvedo, divanetti da privè dimenticato da dio, qualunque dio, e poi gemiti muggiti e lamenti di un giovedi prossimo al tracollo emotivo, so che qualunque empatia è resa distante irreale ghiacciata dico le dico dovrei specificare che ha una madre morta e la piange, la piange copiosamente mentre lascio il mio documento di identità nelle mani di un pingue portiere d'albergo.
Vorrei si estinguesse come una presenza, una presenza con cui fare i conti, una presenza che diventa assenza, e poi più nulla. Forse, nebbia. Poco prima di un assolato mattino.
Non ho interesse alcuno nella sua umanità, vera o presunta, nelle sue chiacchiere preconfeziomate e necessariamente abbellite; avverte la tensione, che non è carica erotica ma una lucidità esasperata tipica di chi sta per gettarsi nel vuoto, dal balcone, sulla strada mentre attorno le puttane i tram le pattuglie della polizia i negri gli immigrati pardon i migranti del cazzo i drogati le carambole del buco i turisti i duri i finti duri i deboli ed i finti deboli, i mercanti i lestofanti ladri e caracollanti sagome che sanno di piscio e grigio, cingono la sagoma annerita di questa pensione, ostello, hotel o quel che cazzo è.
Davvero.
Siamo irreali.
Sul serio. Come una rima stonata, riverbero di un'aria lirica.
La madre di Denise Pipitone, come un dungeon sadomaso e tante ma sempre troppo poche epifanie di latex e dolore esibito in televisione, ho conosciuto parenti di vittime, straziati i parenti, ma straziate pure le vittime, sorelle impazzite di delitti circensi fottute in gola da marocchini arrivisti aprono frutterie di comodo per poi trasvolare sulle carte del divorzio estinzione del debito d'amore, il migrante è furbo.
Lei ha perduto ogni residua chance.
Come la madre di Denise, che ancora si illude.
Che spera, prega e con voce tremolante, come una fioca candela di liturgia gotica, comunica dolore sofferenza patetiche infrazioni al codice della dignità - non ha più importanza il finale della storia, perchè ciò che importa è la storia in sè.
Sfumature, screziate purpuree venate di nero menano vanto di essere spogliarelliste artiste esotiche ma succhiano cazzo maghrebino nel calduccio insettivoro di pensioni da dieci euro l'ora, scorribande di blatte processioni di acari idiozia carnografica, non saranno i loro tatuaggi e i nomi falsi a salvarle.
Shampiste dalla e dell'esistenza peregrina, pellegrine di una cattedrale romanica incistata nel lato nord della Stazione Termini, ho solo un rimpianto ed è quello di non avere abbastanza da vivere per potermele succhiare tutte, tette di plastica in rigorosa esibizione, lampeggianti bluastri, una televisione sintonizzata su un canale morto, scia e rumore di aereo chissà dove si sta dirigendo, chissà se arriverà mai. Non ho una umanità da sbandierare, sesso promiscuo sempre e comunque, una relazione come sinonimo di una qualche complicità estatica ma dolorosa; l'empatia è un cazzo negro nel culo.
Si fa di cocaina, una striscia, un'altra, aspira, inala, si pulisce le narici come una consumata attrice.
Sorride.
Penso ci sia poco da ridere - non compiaccio le donne con cui mi accompagno, sono un egoista, lo sono sempre stato, e la solitudine ti permette di poter fare commenti osceni su una ragazzina venuta a Roma per vedere il Colosseo, mentre attraversa la strada mano nella mano con la madre, sovvengono alla mente ricordi di pedofili e mestieranti della carne, drogati sballati persi, corse nella notte sul raccordo senza traccia alcuna di una meta.
Egoista - mi spompina.
Egoista - sono immobile, la vedo succhiare, gemere, i capelli biondi le ornano la faccia sudata.
Egoista - non la tocco, le strizzo solo, di tanto in tanto, le tette.
Chance - che ha, fortunatamente, perso.
Chance - che un cavaliere azzurro la salvasse da una vita di disperato grigiore.
Chance - che si incazzi venendo a sapere che le sto sborrando in gola pensando ad una madre piangente.
Volti cianotici. Chiazze di vomito, e pus. Il cesso di un locale pubblico, a dieci metri da una scaletta che conduce alla Metro A, tra rapper guatemaltechi, controllori ATAC e taxi.
Perde quello che non ha. Che, forse, non ha mai avuto.
Non mi interessa.
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