venerdì 8 gennaio 2010

Il giorno in cui hanno venduto la loro anima



Le onde del mare si infrangono ripetutamente contro la barriera di scogli, mentre sto adagiato in macchina, annoiato, perplesso, a guardare le poche nuvole basse lungo il profilo dell'orizzonte - dall'altro lato della muraglia nera, il Tevere, limaccioso, di una consistenza viscosa ed oleosa, decisamente putrido, e senza dubbio maleodorante minaccia in ogni istante di venirci a fare visita direttamente dentro l'abitacolo.
Ogni volta che decido di abbassare il finestrino, ecco che un misto di brezza salmastra e puzzo di merda mi aggredisce le narici; attorno alla macchina ragazzini nudi in una scena ripescata da Ciudad De Deus, fangosi, malnutriti, post-pasoliniani fino agli estremi esiti di una vita lumpenproletariat, corrono dietro ad un pallone di pezza, si sputano contro, bestemmiano, giocano con cani selvatici, branchi preoccupanti che latrano, guaiscono e ululano in aneliti bestiali di ritrovata primivita ferinità.
Miasmi brodosi di zuppe fetide, casupole disadattate popolate da italiani e da extracomunitari, legno fradicio, assi marcite e giardinetti posticci incorniciano bmw e parabole satellitari, col mare increspato a minacciare la fine totale di questo quadro turneriano di desolazione morale, materiale e psichica.
Madri che vendono le loro carni per trenta euro - fanno finta di essere rispettabili quando chiedi loro se serve niente, e mentre lo chiedi modulando una voce forzatamente neutra, per non tradire il disprezzo e lo schifo di vedere i loro mocciosi a piedi nudi col petto coperto di fango e le mutande sporche di merda incrostata, pensi al ventre dei campi nomadi e alle direttrici del piacere, alla Tiburtina, alla Salaria, alla Togliatti, alla Prenestina, alle puttane minorenni dipinte di rossetto e di fard, interno di campi nomadi, i rumori allucinanti e i fuochi ed il fumo nero puzzolente dei pneumatici bruciati che si alza in volute concentriche verso un cielo altrettanto nero, giusto screziato dagli ultimi raggi rossi del sole.
Un sole morente.
Come questa popolazione.
Favelas romane. Dimenticate da ogni amministrazione; a me di questa gente non importa un cazzo, sono carne ammassata in catapecchie che spero saranno ingoiate dalla piena, dall'esondazione, dalla distruzione totale e naturalistica, un cataclisma di acque tracimate, di sabbie mobili e fango duro come cemento, un'onda marrone che possa inghiottire ogni tetto, ogni corpo, ogni cane. E le macchine, scatole di latta parcheggiate alla rinfusa lungo strade di merda - il nulla topografico, una planimetria che farebbe vomitare persino le shanty towns sudafricane.
Da qualche parte, oltre i piccoli tetti, oltre il porto e le navi lussuose, oltre l'albergo a quattro stelle illuminato da una colossale insegna neon blu, si stende la Torre di San Michele, approdo michelangiolesco per avvistamenti medievali di navi pirata e il monumento a Pasolini; il locus del martirio pasoliniano, quella terra di nessuno battuta dal vento, a due passi dalla foce del Tevere, con canne palustri, un odore persistente di erba bagnata (e tagliata) e un silenzio siderale per meditazioni misantropiche.
Per qualche tempo, paradosso ironico e crudele, a vegliare su quel monumento è stato chiamato Pino Pelosi, durante uno dei poco durevoli percorsi di risocializzazione post-carceraria; forse Pasolini ne sarebbe persino fiero di quel contrappasso.
Non so se abbia coscienza, da qualche metafisico anfratto di pompini infernali e cadute astrali, di ciò che è adesso quel posto; la memoria scaduta dell'ultima cena al Biondo Tevere, a guardare e mangiarsi con gli occhi Pino, vederlo trangugiare spaghetti con le vongole, in attesa di scendere sul Litorale, contento per quel pasto lui , felice, rassicurato dalle parole gentili del poeta.
Un suicidio, la bella morte proletaria, tra marane e ragazzini coi volti fangosi, ieri come oggi nulla proprio è cambiato se non forse le carte di identità dei marmocchi.
Uno spazio aldilà del tempo, cristallizzazione latente delle pulsioni, non più Pasolini o Penna o Bellezza ma pedofili della Roma bene che sciamano per comprare le carni malridotte dei ragazzini, mentre i genitori storcono il naso e arricciano la bocca solo se la paga è inferiore a quella pattuita; a volte uno pensa alla Tailandia e al Brasile, senza capire che i viaggi del desiderio proibito puoi farteli pure con la tessera metrebus.
Pasolini e Pelosi; la fine con le mutande calate, il sangue fuso alla fanghiglia e allo sperma, eros e thanatos certo ma tanta merda in questo lurido autunno. Una serata fredda, pallidamente rischiarata da falce di luna e da un tappeto di stelle.
In questo luogo nessuno esiste davvero, nessuno pensa alle conseguenze, nessuno risponde delle sue azioni, conduce avanti una fisiologica non-vita, con pochi rimorsi e zero traccia di coscienza, tagliati fuori dalla storia, incarnati in un mito pedissequo di spazzatura e topi di fogna e mute di cani selvatici. La biancheria impilata, stesa frettolosamente tra tetto e tetto, come una intricata ragnatela di mutande e canottiere.
Penso, mentre il fumo della sigaretta accesa dall'altra persona si spande nell'abitacolo, a come vorrei assistere al giorno in cui tutte le loro certezze svaniranno portate via dalla piena del Tevere, vederli annaspare, annegare, stare a pelo d'acqua disperatamente, ideale metafora della loro esistenza spesa interamente a barcamenarsi tra le asperità sociali del nulla.
Un nulla che amano, venerano e che pregano silenziosamente, assiepati lungo la rete di recinzione che li separa, fisicamente e moralmente, dalla tomba epigrafica di Pasolini.
Quale è il significato del loro perdurare in questo mondo? Non lo so, sinceramente. Sono corpi merdosi, malati, bianchicci, privi di senso specifico. Possono morire, schiattare, soffrire, semplicemente scomparire, eclissarsi come la schiuma del detersivo nel cuore del mare.
Cimitero di pedalò, ristorante per temerari, qualche bielorusso pota una inutile siepe, mentre un ragazzino cerca di far ripartire il motorino, la cui provenienza, ne sono sicuro, è furtiva, qui ciascuno ha una sua missione e questa missione è negare dio. Altro che risacca svizzera, Nietzsche si sarebbe dovuto fare un giretto da queste parti per sincerarsi di come l'eterno ritorno dell'uguale abbia la consistenza dell'odio sublimato e il volto di un moccioso con la scabbia.
Tanta tristezza.
Troppa.
Il giorno in cui verranno spazzati via non sarò pervaso da sentimenti di malinconia, ma solo da un giusto e caldo senso di conforto. Una liberazione finale.

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