lunedì 20 aprile 2009

NECRO



Le ho tolto il reggiseno e le mutandine e ho fatto sesso con lei. E’ una di quelle cose che immagino debbano far parte della mia vita; avere rapporti sessuali con i morti
Henry Lee Lucas (citato in H. Schechter, “Serial Killer”)

Dimenticate il lirico disfacimento delle ossa cantato da Trakl, con quell’afflato carico di debauche tipicamente mittle-europea ed un compiacimento estetizzante che sarebbe inutilizzabile per i palati più “esigenti”, la decadenza dei tessuti e la mummificazione in padiglioni funerari ornati da stele votive, angeli di pietra, elaborate iscrizioni, promesse di un amore che va oltre la morte, discese nell’Ade di una certa mitologia classica e fumetti gotici letti nello sfavillante lucore arancio-purpureo di mille candele.
Lasciate da parte le sterili, puerili razionalizzazioni psicotiche di una Karen Greenlee o gli orpelli necro-new age di una Leilah Wendell, il peso di una tradizione di Palo Mayombe, Voodoo, rituali sudisti declinati in salsa africana, whisky e sangue di pollo e vampiri e romanzi di Ann Rice e metafore delicate per nascondere, sotto l’immaginario tappeto della rispettabilità sociale, il semplice e lampante dato di fatto che la morte difficilmente può essere piacevole; per quanto, dobbiamo ammetterlo, la stessa Greenlee, in un impeto di onestà intellettuale, arriva a darci un quadretto vivido della faccenda “quando sei sopra un cadavere, mentre stai appassionatamente facendo l’amore con lui, questo tende a rigurgitare sangue dalla bocca” (Culture dell’Apocalisse).
Tutto, sempre, torna alla carne; a quella dimensione di brutale realtà in cui è la fisiologia a ricordarci che prima del marmo, degli angeli di Staglieno, delle copertine dei Joy Division, delle mascherate gotiche e dei romanzi vampirici, ci sono sofferenza, lacerazioni, suppurazione, sangue ed un travaglio intenso, estatico, senza speranza di guarigione. C’è lo sguardo che si ottenebra, i sensi che non rispondono più ai nostri neuroni e alle sinapsi, le feci nelle mutande, fiotti copiosi di bile, mummificarsi ancora in vita in qualche asettico letto d’ospedale, dentro cui si è solo una casellina statistica per medici annoiati.
E ci sono poi morti ancora peggiori, l’essere strappati al caldo abbraccio dei propri cari quando si è nel pieno della gioventù, per il sadico diletto di qualche predatore sessuale; le fredde notti del Wisconsin e le necroscorribande di Ed Gein, il delirio di Verzeni, le autostoppiste californiane massacrate da Edmund Emil Kemper, la furia montante e nomade di Lucas & Toole. Una pietrificata distesa di sadismo omicida e di necrofilia allo stadio terminale.
Non a caso, nella sua lunga dissertazione sulle parafilie, vera summa dell’aberrazione sessuale, il professor Kraft-Ebing arrivò a definire la necrofilia come la peggiore tra le perversioni; “amore per i morti”, ma amore in senso voluttuoso, morboso, carnale, termine privo di qualunque afflato emotivo e sentimentale.
Interrogato dalla polizia subito dopo il suo arresto, alla precisa domanda “cosa pensi quando vedi una bella ragazza per strada ?”, Ed Kemper risponde serafico “Una parte di me dice – mi piacerebbe parlarle, uscire con lei- ma un’altra parte dice –chissà come starebbe bene la sua testa su di un palo”; attratto dall’idea di diventare un dispensatore della morte, anzi Morte egli stesso, padrone del destino di queste college-girls che chiedono un passaggio lungo le strade americane nella migliore iconografia beat, Kemper rappresenta il paradigma lucido e disincantato della necrofilia omicida. Di come essa non abbia nessuna sovrastruttura languida e gotica.
Siamo stati abituati, da un fiume in piena di romanzi, giochi di ruolo e film, a concepire la morte come una variante di Halloween; serate a tema con la giusta colonna sonora, maschere e idiozie semi-sadomaso, tutto per esorcizzare la paura di poter finire tra le mani di uno come Kemper.
Immaginate il fiato che si condensa in nuvole di vapore, la paura somatizzata ed il respiro mozzato, siete legati, incatenati in questa putrida cantina, in compagnia di teschi umani e brandelli di pelle ed animali impagliati, la puzza è terribile, vi colpisce su per il naso dritto al cervello – ecco che un flebile bagliore annuncia che la botola si è aperta, vedete scendere le scalette di legno è una sagoma imponente anzi no decisamente gigantesca, tonfi echeggiano nella quiete mortuaria della cantina, il vostro cuore accelera le pulsazioni pompando sangue nelle vene. Fiutate la vostra stessa paura – non riuscite a vedere il volto del gigante, è immerso in una coltre di tenebra, ma sapete che non è vostro amico, sapete che deve aver fatto delle cose orribili.
Provate a rivorgergli la parola, frasi smozzicate dal panico ed inani banalità in sequenza, richieste quasi mute di misericordia, ma lui resta sordo, insensibile, solo qualche gutturale gorgoglio – che rende ancora più spaventoso questo quadro di desolazione suburbana. E’ in momenti come questi che si pensa a Non Aprite quella porta, alle serate Ritual e Decadence, alle proprie letture, e si arriva alla drammatica conclusione che della morte, nella sua lercia consistenza di frattaglie sangue e dolore, non sappiamo nulla fin quando non cominciamo a camminare nel tunnel.
Quando il gigante vi sovrasta, lo scintillio cupo dell’acciaio nelle sue mani, quando vi strappa il reggiseno brandendo un coltello, nessuna emozione nelle sue pupille, fredde ciniche distanti e nere come quelle di uno squalo, nessuna speranza di empatica compassione, ed allora vi bagnate tra le gambe ma non per gioia ed eccitazione ma solo per paura, un rivolo giallognolo di piscio che scorre lungo le gambe e cade sul pavimento, in quel preciso istante una porzione considerevole di verità vi viene svelata.
Non esiste una normalità della morte – è Lucas ad ammettere in modo disarmante “non è una cosa normale andare in giro ad ammazzare ragazze solo per scoparle” (in Mike Cox, “Henry Lee Lucas”).
Siamo soliti porre una considerevole distanza tra noi e la morte, anche quando parliamo proprio di morte; ne diamo una visione distorta, romanzesca, favolistica, spesso nascosta convenientemente sotto spessi strati di metafora, la fine di quello o il principio di questo, come ne Il Corvo – la rinascita, epifania crepuscolare per celare le vere fobie. Troppe budella o troppo poche budella o budella finte – Nekromantik di Buttgereit; leggendo il libro Sex Murder Art, di David Kerekes (il tizio di Headpress), emerge un ritratto sconfortante di un Buttgereit matto burlone vetero-hippie che se la prende con uno dei suoi migliori collaboratori, reo a suo dire di avere una visione troppo morbosa della morte e di voler imprimire questa malevola visione al film stesso. Stiamo parlando di una pellicola rigorosamente low-budget in cui una ragazza ed un ragazzo vanno a raccogliere pezzi di carne umana in strada, dopo incidenti stradali, per il loro diletto sessuale, e consumano una storia di necroamore in una squallida stanza addobbata con un piccolo ritratto di Charles Manson (e perché poi proprio con tanti necrokiller, proprio il povero Charlie?), per poi finire in una orgia di omicidi e delirante suicidio finale – la genesi in studi criminologici universitari sui serial killer, nella voglia punk di stupire e nella passione per il gore.
E’ quantomeno curioso che qualcuno possa essere accusato di morbosità mentre si gira un film su assassini necrofili che sono soliti mettere preservativi agli ammuffiti cazzetti dei morti o che schiacciano gatti contro il muro o scuoiano (scena mandata pure in reverse, in un gesto di compiaciuto nichilismo estetico) conigli, e si intenda che le sevizie sugli animali sono rigorosamente vere. Eppure è successo, si può essere eccessivi persino nella riproduzione filmica della (falsa) necrofilia – ed essere accusati di ciò non dai testimoni di Geova o da Tipper Gore, ma dal regista della stessa pellicola.
Nacho Cerda ha un minimo quoziente di coerenza a differenza di Buttgereit; pur finta, l’autopsia mostrata in Aftermath non ha motivo che prescinda dalla concupiscente brama sessuale dell’anatomopatologo, nessuna sovrastruttura giustificatoria che ne sdilinquisca la potenza. Asettiche sale autoptiche e lucori neon, strumentazione affilata, il volto mascherato del medico, le sue voglie sessuali, il cadavere straziato e sbudellato in uno scoppio di necrofilia pornografica.
Il carsico cinema underground si è dedicato a riproporre il tema, replicandolo mille volte ma dovendo sempre combattere con quello Psycho che ormai definisce il target di riferimento del genere; è per questo che sembra decisamente miglior soluzione rivolgersi alla verità. Alla cruda verità mostrata in video.
Prescindendo dai mondo movies, c’è la serie giapponese Death Woman; autopsie e riprese di cadaveri smollati tra le frasche, con la polizia ancora attorno a far rilevamenti, sonatine di pianoforte elettronico, aggiustamenti formali per erotizzare queste morti (prevalentemente vietnamite e tailandesi…where life is cheap), e non a caso la Tsunami ha trasformato quelle desolate lande di (ex) turismo sessuale in una sorta di necroHollywood. Polaroid di cadaveri a pelo d’acqua mostrati nello stadio putrido della decomposizione, portati via dalla corrente in un locus di negazione della dignità e della sepoltura, nuovi sport per gli aficionados del sesso estremo.
Materiale iconografico per i libri del “settore”.
Death Scenes (Feral House) - curato da Katherine Dunn; sconvolgente viaggio tra le foto di autentiche scene del crimine raccolte nell’album personale dell’ispettore Jack Huddleston che fu in servizio presso il LAPD negli anni 40 e 50. Un sinistro carnevale di cadaveri martoriati e straziati, corpi impiccati, scotennati, arsi vivi, tutti asetticamente ripresi dall’obiettivo di un fotografo della polizia. Fotografie rigorosamente in bianco/nero, prive di una partecipazione emotiva dell’occhio che osserva.
Murder in Rotterdam (Uitgeverij Duo)- l’evidente artisticità mostrate in queste pagine si cura tanto dell’ambiente in cui i cadaveri sono immersi quanto della precisa definizione della vittima come persona.
In un punto ancora più estremo rispetto a questi libri si situa l’opera del fotografo giapponese Tsurisaki Kiyotaka, il quale si è specializzato nel riprendere corpi umani morti. Trapassati non serenamente, va detto. Corpi schiacciati da macchine in curiosi incidenti stradali, resti sparpagliati sul selciato di kamikaze islamici, corpi avvelenati, suicidati, gonfi per la disidratazione. Generalmente, trasfigurati in camere mortuarie sporche e tipicamente da terzo mondo, luci verdognole che conferiscono un innegabile senso di squallore. Provare pena per i cadaveri immortalati da Tsurisaki nei suoi libri Hardcore de la Danse Macabre (NG), Revelations e Requiem de la Rue Morgue (entrambi per la francese IMHO) o finiti ad adornare le pagine dei purtroppo defunti magazine giapponesi “Too Negative” e “Ultra-Negative” è impossibile; sfigurati, ammassati senza compassione su un tavolo autoptico o lasciati marcire tra le dune sabbiose o in strada, incupiti dall’illuminazione virata, non sono che corpi. Privi di personalità e di spunti che ci possano portare ad una sia pur minima immedesimazione. Non sappiamo nulla di loro.
Una macelleria in continua purulenta ebollizione, una mostra di lancinanti atrocità che ha il suo culmine nel film diretto da Tsurisaki: Orozco . Documentario su un becchino-imbalsamatore colombiano, Orozco appunto, che Tsurisaki segue passo passo nella sua quotidianità di rinvenimento cadaveri, eviscerazione, asportazione di organi e imbalsamazione. Il tono affabile di Orozco, il suo sorridente fatalismo, le sue tecniche meticolose ma crudeli non tengono minimamente in conto il dolore o lo strazio dei parenti, né, ci mancherebbe, il valore delle persone che passano sotto le sue sapienti mani.
Le introduzioni dei libri di Tsurisaki potrebbero essere scritte da Jeffrey Dahmer, “spesso aveva un’erezione e se c’era spazio, si appoggiava il cadavere aperto per avere un rapporto sessuale con le viscere, mettendo il pene letteralmente dentro il corpo ed eiaculando tra gli organi” (B. Masters, “Jeffrey Dahmer”); confuse storie di equivoci sessuali, oceanici abissi necrogore di una stordente realtà, le foto di Tsurisaki e la storia di Dahmer sembrano danzare il walzer assieme. Viene da chiederci come sarebbe stata la vita di Jeffrey se avesse avuto accesso a questi materiali; avrebbe placato la sua indole di impenitente necrofilo o al contrario avrebbe accresciuto la sua brama di morte e sangue ? Ma me ne rendo conto, queste sono discussioni da Porta a Porta; sociodeterminismo d’accatto, da purificare con una indignata lettera spedita in fretta e furia a Picozzi o a Crepet.

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