mercoledì 29 aprile 2009

La Repubblica della Sofferenza


Drew Gilpin Faust è un'acclamata storica nord-americana, rettore della prestigiosa Università di Harvard, nonchè abile analista della cultura popolare americana; se il nostro Di Nola con il suo eccellente La Nera Signora ha tentato di gettare le basi per un serio studio sull'antropologia della morte nelle sue varie sfumature e nel corso dei secoli, Gilpin Faust restringe sensibilmente il campo ad una prospettiva geografica e storica inquadrata con gli Stati Uniti del 1860.
Questa scelta rappresenta la ratio stessa della sua tesi; secondo la storica difatti, la sanguinosa guerra civile che sconvolse gli USA segnò il rito di passaggio da una visione censoria, bigotta, calvinista della morte (nascosta e taciuta) ad una furente esibizione della stessa, caratteristica questa che troviamo spesso nella cultura di massa americana del 1900 e dei giorni nostri.
La descrizione del campo di battaglia di Gettysburg, su cui rimangono a frollare e marcire tonnellate di carne umana e animale, pantani di sangue, fango, acqua piovana stagnante e maleodorante, le urla strazianti dei feriti, dei moribondi, le figure lacere ed allucinate che nella nebbia del mattino si aggirano tra i cadaveri alla ricerca di un volto amico o familiare, è vivida, precisa, meticolosa - e tanto più è dettagliata la descrizione, tanto maggiore è la (comprensibile) reticenza delle testimonianze dei sopravvissuti, i quali preferiscono portare con loro il fardello inenarrabile degli orrori a cui hanno partecipato e che hanno visto.
Atrocità e massacri vi furono anche all'epoca delle guerre di Indipendenza , ma l'autrice del testo tiene a precisare due dati su tutti; il totale dei morti della guerra civile praticamente supera, da solo, la somma dei caduti americani in tutte le guerre esterne ai confini. In secondo luogo, la diffusione dei giornali e della fotografia agevola l'ingresso della morte violenta nell'immaginario collettivo; dal bagno di sangue carnografico e sporco dei campi di battaglia del nord e del sud, ecco emergere la Repubblica americana.
L'autrice riporta incredibili stralci di lettere spedite ai parenti dei soldati morti in battaglia, spesso redatte da compagni d'arme, ufficiali o amici; il tono è sempre grandioso, celebrativo e pervaso da un larvato senso religioso, per cui non importa il dolore familiare per la perdita, ciò che davvero conta è il fatto che il soldato è morto emendato dei suoi peccati ed in pace con Dio - ma accanto a queste celebrazioni letterarie, si trova pure, quasi da ideale pendant, il dramma degli eserciti che prima dell'avvio delle ostilità, non avevano approntato un piano per sepolture, raccolta dei cadaveri e via dicendo.
Così i morti vengono stipati in maniera grossolana, spesso le bare sono metalliche ed anonime, interi capannoni ospitano i cadaveri in putrefazione. Si assiste lentamente ad una privatizzazione della morte violenta, e di ciò che ne consegue; becchini, impresari di pompe funebri, si accampano ai bordi delle caserme, dei campi di battaglia, attendono come avvoltoi silenziosi che il dramma si sia compiuto e poi si mettono all'opera. E venendo pagati dall'esercito o addirittura inviando le fatture ai familiari dei caduti.
L'autrice riporta anche il costume, abituale, di negare sepoltura ai nemici; la qual cosa determinò uno spettacolo da danza macabra medievale, per cui poteva capitare di passeggiare per un campo, anni dopo la conclusione delle ostilità, ed imbattersi in teschi umani o interi scheletri ancora vestiti di brandelli di uniformi.
Tutti questi elementi, tra loro uniti, hanno contribuito a riorientare radicalmente la percezione della morte nella coscienza collettiva statunitense - un libro davvero eccellente, e che presenta tesi assolutamente non scontate.

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