Passeggiando sulla spiaggia di Cannes, ben 58 anni fa, Andrè Breton e Luis Bunuel si trovarono a parlare del loro comune passato artistico, e con un certo afflato di malinconia certo mescolato alla brezza salmastra presero a riflettere sul significato della provocazione. La scena sarebbe stata degna di uno dei migliori film dello stesso Bunuel, o di una opera di Max Ersnt o di Otto Dix, tra chiaroscuri ambrati, profumo di mare, e le chiacchiere vuote dei vari senescenti che incuranti della grandezza di quella coppia se ne andavano a spasso là attorno; la grandezza del complesso stava in quei due volti ormai maturi, ormai passati attraverso i fuochi delle guerre (civile spagnola e mondiale), eppure ancora terribilmente agguerriti ed in lotta con la società tutta, ma senza la pretenziosità che anima l’intellettuale marxista.
Breton, tradendo la sua umana frustrazione, prese sottobraccio Bunuel e gli confidò, immagino a bassa voce per evitare di dare spettacolo e di essere udito dalle coppiette cinguettanti d’amore, che la provocazione ormai era morta. Mio caro Bunuel, disse sconsolato come l’ultimo superstite di una guerra mai iniziata, vero è che non esiste più nulla che sia provocatorio.
58 anni fa. Nei ritmi iper-accelerati dell’oggi, equivalgono ad almeno 3 o 4 secoli; e già quei due pionieri avevano gettato la pietra tombale della normalizzazione su tutta una dimensione artistica ed espressiva che invece, tra transavanguardie e giochetti risibili, avrebbe voluto seminare il panico nel consesso dei bravi borghesi.
Borghesi; Breton aveva capito che essere risucchiati nella normativa e codificata normalità della vita non avrebbe significato altro che necrosi del genio e dell’estro, e allora esorcizzava quello spettro parlandone e mettendo in faccia al suo ex sodale ormai ritiratosi nel buen retiro creativo messicano una prospettiva assai poco piacevole.
La normalizzazione uccide. Si pensa generalmente che l’impulso ribellistico sia una fisiologica fase di passaggio dell’età giovanile, ed allora si è pronti a tollerare comportamenti poco rispettosi o eterodossi ben certi che una volta cresciuti anche i più accesi rivoluzionari riconosceranno l’autorità del Sistema e ad essa si piegheranno. Questo è ciò che si pensa adesso. Eppure a scorrere la filmografia di Bunuel si vede chiaramente che i film più intensi, interessanti e provocatori li realizzò nel corso della sua senescenza, film che avevano perso ogni morfologia dell’accettabilità fino a sublimarsi nel tentativo di raggiungere lo stato della perfezione. Gran parte dei veri rivoluzionari, dei veri provocatori, non perdono mai le loro caratteristiche, al massimo le affinano e le maturano, si mettono in discussione attraverso un lungo percorso di crescita e di confronto ma non rinnegano né chinano la testa al cospetto del mondo dell’arte solo perché le loro carte di identità segnano il crescere degli anni.Eppure il trionfo della grettezza borghese, del grigiore che livella e annienta le differenze, ci fa credere che l’arte sia un lavoro come un altro, che un qualunque drammaturgo o scrittore o pittore o scultore dovrebbe essere retribuito con un salario, compiaciuto nei vernissage ed esibito come fosse un indiano nel circo Barnum. Prospettiva sconfortante ma largamente diffusa. Tanto che Breton si era visto passare davanti il fior fiore degli ex surrealisti ormai riciclatisi nel ruolo delle macchina inutili, ornamenti graziosi nel firmamento espressivo tollerato, azzimato e coccolato dalla società. Li aveva visti trascolorare come rugiada nel sole del mattino, ed ora, l’ora di quella calda mattina di 58 anni fa, se ne dispiaceva.
La provocazione effettivamente è morta. Ed è morta assieme all’intelligenza. Se Ernst Junger diceva che è meglio il delinquente del borghese, e se Breton aggiungeva da altra prospettiva che l’atto surreale per eccellenza sarebbe stato l’uscire per via armati di pistola ed ammazzare il primo che passava, si capisce intuitivamente che per rendere quelle proposizioni cardine di una visione del mondo, per dirla nel senso alla Dilthey, ci voleva tutta l’intelligenza di quei due personaggi .
Per elevare dichiarazioni simili oltre il livello della mera boutade, per far divenire arte Benjamin Peret che insulta un prete o Breton che interroga i suoi colleghi surrealisti sui loro piaceri sessuali o Bataille che metaforicamente disseziona la foto della tortura dei mille tagli o Marinetti che si crogiola nello stupro messianico di Mafarka o Junger che si pone oltre le scogliere di marmo o per riesumare Maldoror e le ossa dimenticate di Sade, ci voleva una intelligenza brillante, acuta, e oltre-umana.Oggi la provocazione ha il sapore triste di una candid camera. Oggi che l’asservimento della espressione artistica è totale e compiuto, manca persino la tentazione di provocare.
Intendiamoci, la provocazione fine a se stessa è patetica tanto quanto l’artista al guinzaglio che crede di essere libero e che invece è solo scimmietta addomesticata. I migliori provocatori sono stati quegli artisti che non avevano né intenzione né coscienza di provocare, ma che finivano per farlo e per dare scandalo semplicemente attraverso la loro esistenza e la loro piena libera espressione.
Quando Genet si bea dei bravi borghesi finiti a far tappezzeria a Dachau, non vuole provocare. Lo pensa davvero, davvero maledice la carne di quei timorati e probi cittadini che nella sua gioventù applaudivano i poliziotti intenti a spaccargli la schiena, e poi divenuti internati e cenere da camino nei campi di morte, riveriti, ricordati e amati su lapidi di marmo.
E Sade, Sade non perde tempo a sconvolgere i suoi contemporanei, i suoi denigratori; Sade scrive per vivere, per acquisire una libertà che gli è stata negata, e soprattutto per situarsi fuori dal genere umano come il migliore dei penitenti.
Oggi io non riesco davvero ad immaginare un artista che sia così onesto e genuino da scandalizzare soltanto attraverso la sua opera; abbiamo un carnevale di buffoni che tentano di provocare, e lo fanno in maniera plastica e risibile, come quei bambocci che richiamano l’attenzione sporcandosi la faccia di cioccolata. Idoli anonimi, avrebbe detto Caraco, porte attraverso cui il caos si inserisce e penetra nella nostra società devastandola e distruggendola, ma non di una distruzione sensata, rigeneratrice, ma sporca e gretta. Come la sistematica reiterazione del Milite Ignoto, questi idoli artistici senza talento né genio provocano per ricevere in cambio un salario; pagati per produrre, come qualunque meccanismo della catena di mercificazione del senso estetico. Anche l’artista è diventato un lavoratore, un proletario le cui catene sono ben salde e legate come un cordone ombelicale al grembo oscuro della normalità.
Il Milite Ignoto della società dello spettacolo si trasla dal tubo catodico alle palestre di ardimento sociali, in cui giovani sbandati divengono il paradigma di una perdizione assoluta. La società deve essere annientata, ma non dai suoi stessi meccanismi; perché se accettiamo che questi disvalori penetrino nel profondo, ad una distruzione seguirà fisiologicamente una rigenerazione in peggio, che determinerà l’emersione di una società ancora più corrotta ed inutile. E via così in una ciclicità dell’orrore.
Perché il Milite Ignoto era, quando fu pensato e realizzato nel suo senso bellicistico, un tentativo di eternare lo spirito della guerra anche nei lunghi periodi di inutile pace; e la pace nientre altro è se non ignavia, corruzione, sdilinquimento, essa porta gli individui a crogiolarsi, a non fare nulla, a subire tutte le peggiori influenze. Millenni di atroci conflitti hanno nutrito lo spirito dell’arte, hanno selezionato, non in termini genetici e morfologici ma attitudinali, i migliori e li hanno estratti dall’anonimato della massa, facendo di loro autentici Eroi. Mentre nel Milite Ignoto noi non vediamo volto, ma solo una tomba che potrebbe anche celare le spoglie di un disertore caduto per fuoco amico.
La tensione permanente determinata dal conflitto diviene una sfumatura della mania platonica, di quella sete per l’Assoluto che una volta portava i giovani a sentirsi vecchi compiuti i 25 anni; il colpo di pistola che ha posto fine alla esistenza di Weininger o di Michelstaedter, e che oggi si vive quasi come una provocazione, non fu un semplice atto di mera nullificazione, di escapismo travestito da anelito di morte, ma una dichiarazione di intenti. Per fuggire i nietzschani, mediocri ultimi uomini che promettono la felicità plastica ed irreale a Zarathustra mentre egli discende nel suo meriggio.
Gli Idoli Anonimi oggi vomitati dalla televisione sono persone espresse dalla pace, ontologicamente inconsistenti, ombre in vita che vagano per le pianure digitali del web e dei palinsesti, trascinando dietro un notevole fardello di miseria. Ci sarà d’altronde un motivo per cui negli ultimi 60 anni non sono più nati Geni, ma solo tragici ultimi uomini…un motivo per cui parliamo di Jarry, Artaud, Campana, Marinetti, Breton come di vestigia appartenenti a metastoriche civiltà, disperse tra le ombre del Mito. Noi non abbiamo più consapevolezza di quanto sana e rigeneratrice fosse quella violenza che Platone decanta nel Fedro, quello scatenamento folle ed apparentemente insensato e che pure nutriva nel profondo dell’anima gli Individui degni di tale nome.
Adesso che sentiamo ripeterci perennemente, in un mantra di autoconsapevolezza politicamente corretta, che tutti siamo uguali e che tutti abbiamo le stesse chance, che dobbiamo rispettare il nostro prossimo perché tanto 15 o 5 minuti di celebrità arrideranno a tutti, ecco comparire il volto decomposto del livellamento democratico.
Un nichilismo d’ombra e notte dovrebbe spazzare via tutto. E spazzare via tutto non per rigenerare, ma per annientare fin nel profondo la corruzione che vediamo ogni giorno farsi sempre più grande ed avvilente. Non più provocazione, ma constatazione cioraniana del fascino irresistibile del Male, e sì solo attraverso la pratica costante, amorevole e fanatica del Male potremo liberarci dalle catene e diventare, una volta per tutte, Uomini liberi.
Breton, tradendo la sua umana frustrazione, prese sottobraccio Bunuel e gli confidò, immagino a bassa voce per evitare di dare spettacolo e di essere udito dalle coppiette cinguettanti d’amore, che la provocazione ormai era morta. Mio caro Bunuel, disse sconsolato come l’ultimo superstite di una guerra mai iniziata, vero è che non esiste più nulla che sia provocatorio.
58 anni fa. Nei ritmi iper-accelerati dell’oggi, equivalgono ad almeno 3 o 4 secoli; e già quei due pionieri avevano gettato la pietra tombale della normalizzazione su tutta una dimensione artistica ed espressiva che invece, tra transavanguardie e giochetti risibili, avrebbe voluto seminare il panico nel consesso dei bravi borghesi.
Borghesi; Breton aveva capito che essere risucchiati nella normativa e codificata normalità della vita non avrebbe significato altro che necrosi del genio e dell’estro, e allora esorcizzava quello spettro parlandone e mettendo in faccia al suo ex sodale ormai ritiratosi nel buen retiro creativo messicano una prospettiva assai poco piacevole.
La normalizzazione uccide. Si pensa generalmente che l’impulso ribellistico sia una fisiologica fase di passaggio dell’età giovanile, ed allora si è pronti a tollerare comportamenti poco rispettosi o eterodossi ben certi che una volta cresciuti anche i più accesi rivoluzionari riconosceranno l’autorità del Sistema e ad essa si piegheranno. Questo è ciò che si pensa adesso. Eppure a scorrere la filmografia di Bunuel si vede chiaramente che i film più intensi, interessanti e provocatori li realizzò nel corso della sua senescenza, film che avevano perso ogni morfologia dell’accettabilità fino a sublimarsi nel tentativo di raggiungere lo stato della perfezione. Gran parte dei veri rivoluzionari, dei veri provocatori, non perdono mai le loro caratteristiche, al massimo le affinano e le maturano, si mettono in discussione attraverso un lungo percorso di crescita e di confronto ma non rinnegano né chinano la testa al cospetto del mondo dell’arte solo perché le loro carte di identità segnano il crescere degli anni.Eppure il trionfo della grettezza borghese, del grigiore che livella e annienta le differenze, ci fa credere che l’arte sia un lavoro come un altro, che un qualunque drammaturgo o scrittore o pittore o scultore dovrebbe essere retribuito con un salario, compiaciuto nei vernissage ed esibito come fosse un indiano nel circo Barnum. Prospettiva sconfortante ma largamente diffusa. Tanto che Breton si era visto passare davanti il fior fiore degli ex surrealisti ormai riciclatisi nel ruolo delle macchina inutili, ornamenti graziosi nel firmamento espressivo tollerato, azzimato e coccolato dalla società. Li aveva visti trascolorare come rugiada nel sole del mattino, ed ora, l’ora di quella calda mattina di 58 anni fa, se ne dispiaceva.
La provocazione effettivamente è morta. Ed è morta assieme all’intelligenza. Se Ernst Junger diceva che è meglio il delinquente del borghese, e se Breton aggiungeva da altra prospettiva che l’atto surreale per eccellenza sarebbe stato l’uscire per via armati di pistola ed ammazzare il primo che passava, si capisce intuitivamente che per rendere quelle proposizioni cardine di una visione del mondo, per dirla nel senso alla Dilthey, ci voleva tutta l’intelligenza di quei due personaggi .
Per elevare dichiarazioni simili oltre il livello della mera boutade, per far divenire arte Benjamin Peret che insulta un prete o Breton che interroga i suoi colleghi surrealisti sui loro piaceri sessuali o Bataille che metaforicamente disseziona la foto della tortura dei mille tagli o Marinetti che si crogiola nello stupro messianico di Mafarka o Junger che si pone oltre le scogliere di marmo o per riesumare Maldoror e le ossa dimenticate di Sade, ci voleva una intelligenza brillante, acuta, e oltre-umana.Oggi la provocazione ha il sapore triste di una candid camera. Oggi che l’asservimento della espressione artistica è totale e compiuto, manca persino la tentazione di provocare.
Intendiamoci, la provocazione fine a se stessa è patetica tanto quanto l’artista al guinzaglio che crede di essere libero e che invece è solo scimmietta addomesticata. I migliori provocatori sono stati quegli artisti che non avevano né intenzione né coscienza di provocare, ma che finivano per farlo e per dare scandalo semplicemente attraverso la loro esistenza e la loro piena libera espressione.
Quando Genet si bea dei bravi borghesi finiti a far tappezzeria a Dachau, non vuole provocare. Lo pensa davvero, davvero maledice la carne di quei timorati e probi cittadini che nella sua gioventù applaudivano i poliziotti intenti a spaccargli la schiena, e poi divenuti internati e cenere da camino nei campi di morte, riveriti, ricordati e amati su lapidi di marmo.
E Sade, Sade non perde tempo a sconvolgere i suoi contemporanei, i suoi denigratori; Sade scrive per vivere, per acquisire una libertà che gli è stata negata, e soprattutto per situarsi fuori dal genere umano come il migliore dei penitenti.
Oggi io non riesco davvero ad immaginare un artista che sia così onesto e genuino da scandalizzare soltanto attraverso la sua opera; abbiamo un carnevale di buffoni che tentano di provocare, e lo fanno in maniera plastica e risibile, come quei bambocci che richiamano l’attenzione sporcandosi la faccia di cioccolata. Idoli anonimi, avrebbe detto Caraco, porte attraverso cui il caos si inserisce e penetra nella nostra società devastandola e distruggendola, ma non di una distruzione sensata, rigeneratrice, ma sporca e gretta. Come la sistematica reiterazione del Milite Ignoto, questi idoli artistici senza talento né genio provocano per ricevere in cambio un salario; pagati per produrre, come qualunque meccanismo della catena di mercificazione del senso estetico. Anche l’artista è diventato un lavoratore, un proletario le cui catene sono ben salde e legate come un cordone ombelicale al grembo oscuro della normalità.
Il Milite Ignoto della società dello spettacolo si trasla dal tubo catodico alle palestre di ardimento sociali, in cui giovani sbandati divengono il paradigma di una perdizione assoluta. La società deve essere annientata, ma non dai suoi stessi meccanismi; perché se accettiamo che questi disvalori penetrino nel profondo, ad una distruzione seguirà fisiologicamente una rigenerazione in peggio, che determinerà l’emersione di una società ancora più corrotta ed inutile. E via così in una ciclicità dell’orrore.
Perché il Milite Ignoto era, quando fu pensato e realizzato nel suo senso bellicistico, un tentativo di eternare lo spirito della guerra anche nei lunghi periodi di inutile pace; e la pace nientre altro è se non ignavia, corruzione, sdilinquimento, essa porta gli individui a crogiolarsi, a non fare nulla, a subire tutte le peggiori influenze. Millenni di atroci conflitti hanno nutrito lo spirito dell’arte, hanno selezionato, non in termini genetici e morfologici ma attitudinali, i migliori e li hanno estratti dall’anonimato della massa, facendo di loro autentici Eroi. Mentre nel Milite Ignoto noi non vediamo volto, ma solo una tomba che potrebbe anche celare le spoglie di un disertore caduto per fuoco amico.
La tensione permanente determinata dal conflitto diviene una sfumatura della mania platonica, di quella sete per l’Assoluto che una volta portava i giovani a sentirsi vecchi compiuti i 25 anni; il colpo di pistola che ha posto fine alla esistenza di Weininger o di Michelstaedter, e che oggi si vive quasi come una provocazione, non fu un semplice atto di mera nullificazione, di escapismo travestito da anelito di morte, ma una dichiarazione di intenti. Per fuggire i nietzschani, mediocri ultimi uomini che promettono la felicità plastica ed irreale a Zarathustra mentre egli discende nel suo meriggio.
Gli Idoli Anonimi oggi vomitati dalla televisione sono persone espresse dalla pace, ontologicamente inconsistenti, ombre in vita che vagano per le pianure digitali del web e dei palinsesti, trascinando dietro un notevole fardello di miseria. Ci sarà d’altronde un motivo per cui negli ultimi 60 anni non sono più nati Geni, ma solo tragici ultimi uomini…un motivo per cui parliamo di Jarry, Artaud, Campana, Marinetti, Breton come di vestigia appartenenti a metastoriche civiltà, disperse tra le ombre del Mito. Noi non abbiamo più consapevolezza di quanto sana e rigeneratrice fosse quella violenza che Platone decanta nel Fedro, quello scatenamento folle ed apparentemente insensato e che pure nutriva nel profondo dell’anima gli Individui degni di tale nome.
Adesso che sentiamo ripeterci perennemente, in un mantra di autoconsapevolezza politicamente corretta, che tutti siamo uguali e che tutti abbiamo le stesse chance, che dobbiamo rispettare il nostro prossimo perché tanto 15 o 5 minuti di celebrità arrideranno a tutti, ecco comparire il volto decomposto del livellamento democratico.
Un nichilismo d’ombra e notte dovrebbe spazzare via tutto. E spazzare via tutto non per rigenerare, ma per annientare fin nel profondo la corruzione che vediamo ogni giorno farsi sempre più grande ed avvilente. Non più provocazione, ma constatazione cioraniana del fascino irresistibile del Male, e sì solo attraverso la pratica costante, amorevole e fanatica del Male potremo liberarci dalle catene e diventare, una volta per tutte, Uomini liberi.
2 commenti:
Dopo cinque minuti dal post precedente mi ritrovo con quest'altro articolo proprio sulla provocazione... Assolutamente d'accordo su tutto il tuo discorso, anche se dubito che il colpo di pistola che pose fine alle vite di Weininger e Michelstaedter sia stato una “dichiarazione d'intenti”: rimanga l'insondabilità del suicidio. Alla fin fine temo che il “nichilismo d'ombra e notte” (espressione quasi manganelliana) di cui parli sia proprio questo in cui ci ritroviamo ad annaspare e provo amarezza nel constatare che la grande vampa annientatrice che tu tanto aneli sia in effetti l'ultima speranza sperabile. Per tutti... roulerons unis dans le tènébres...
Guarda, su Weininger e Michelstaedter e sugli impulsi che li portarono a farla finita (come pure aveva fatto Lautremont), e in quel crogiolo di idealismo assoluto tinto di individualismo che affascinò Evola (che pure fu vicino al suicidio nel suo periodo a cavallo tra Futurismo e Dada), credo siano da meditare le pagine che Drieu dedica in Fuoco Fatuo alla volontà di farla finita come dimostrazione dell'essere padroni della propria pelle e di dimostrarlo attraverso la propria distruzione. In linea di massima non è più nemmeno una liberazione ma un chiudere le porte in faccia al mondo intero; come disse una volta Carmelo Bene durante un suo spettacolo, rivolto ad uno spettatore che lo invitava ad uscire sul palco, "non sono io a dover uscire, ma voi a dover entrare".
Sul nichilismo il discorso è complesso; ne invoco uno di proporzioni caotiche e colossali che possa spazzare via lo spettacolo ridicolo ed offensivo della quotidianità. Uso quelle espressioni oscure più che per mera coloritura romantica, giocata tra Holderlin e Novalis, come constatazione del dibattito sul Nichilismo e la mente mi va al carteggio tra Junger e Heidegger contewnuto in Oltre la Linea; il nichilismo vive ordinato e asetticamente determinato, come forma del nulla, e io credo sia venuto il tempo di un nichilismo caotico che si faccia non più negazione ma panacea, come voleva lo stesso Junger.
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