Un corpo.
Un insieme di aspirazioni, carne, sogni, nervi, sudore. Qualcosa di inanimato e che ora giace nel rigor mortis, tra pareti scrostate ed un lucore neon pronto a ricordarci quanto insensate siano tutte le sovrastrutture morali, etiche, sentimentali.
La fotografia del giapponese Tsurisaki Kiyotaka ci ricorda, nel modo più diretto e brutale possibile, la verità della morte. Senza criteri artistici, senza quel nitore formale che alimenta la fama di Andres Serrano, senza essere coadiuvata da semiotica ed esperimenti concettuali alla Witkin, la fotografia di Tsurisaki si fonde con il peso insostenibile della consunzione. Cadaveri abbandonati e sfigurati, desolazione delle ambientazioni, un tocco realista dell'obiettivo, illuminazioni rigorosamente naturali. Nessuna concessione al corpo come persona. Le regole che governano queste foto sono biologia e decadenza dei tessuti.
L'abbellimento della morte che la cultura occidentale propone in forme industriali, la cura del corpo morto a beneficio dei sentimenti dei parenti, il rituale funerario come parata estetica, vengono decostruiti, alterati e annientati da ogni singolo scatto. Due libri fondamentali.
Necropornografia allo stato puro, senza alcuna dose di sensazionalismo.
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