Via della Villa di Plinio scompare allo sguardo incuneandosi tra la tenuta presidenziale ed una pineta sempre più erosa dagli incendi estivi, un abborracciato e malmesso percorso di asfalto tutto curve posizionato tra lo slargo del Dazio, gli ultimi stabilimenti e la via Litoranea che da Ostia conduce a Torvajanica fendendo i chilometri di macchia mediterranea e di spiaggia libera.
Il cielo grigio d’inverno è muto spettatore della vita nelle baraccopoli di immigrati, frettolosamente erette nel ventre della pineta e silenziosamente tollerate dalla incuria delle istituzioni, condomini di latta e cartone, stufette a gas, volti neri di miseria che si aggirano spettrali e smunti tra i tronchi caduti dei pini, tra i cespugli, come cercatori dimenticati di una corsa all’oro fuori tempo massimo – sentieri sterrati e camminamenti concentrici che disegnano crop circles di isolazionismo monadico, il luogo ideale per raggiungere l’imperativo interiore dell’annichilimento. Nessun suono, se non quello del frinire dei grilli e qualche raro cinguettio di uccelli, il rumore dei propri passi che impattano sull’erba e sui sassi.
Capita a volte di incontrare qualche raro praticante di jogging, episodici e sfuggenti occhi che si fondono e si scrutano per poi dimenticarsi e scomparire dopo la prima curva; un tempo, le rovine della villa che fu di Plinio erano ritrovo di satanisti ed incauti esoteristi che scambiavano Pan e capri dei boschi per un surrogato recettizio del Principe dei Demoni, sentivi le litanie di notte, il rullare di certi tamburi, flauti, piccole luminescenze ambrate che solleticavano il nero della notte.
A ridosso della pineta, scorre una lingua d’acqua melmosa chiamata Canale dei Pescatori, principalmente perché è usato dai pescatori di Ostia per ormeggiare le loro barche; una notte, io ed altri tre amici che ci eravamo spinti al limitare della boscaglia, mentre gettavamo uno sguardo distratto alla consistenza insondabile dell’acqua vedemmo una processione di barchette in miniatura, su ognuna delle quali svettava una candela, erano decine, centinaia, una colata di fuoco che squarciava l’oscurità. Provenivano dal nulla, da un punto non identificabile, probabilmente erano state delicatamente posizionate sul pelo dell’acqua da una mano esperta, sufficientemente veloce e leggera.
Ormai anche i satanisti però si sono dovuti arrendere; un cappuccio nero e la benedizione di Satana non sono protezione sufficiente quando può capitare di imbattersi in un clandestino albanese o in un Rumeno latitante abbrutiti da anni di permanenza selvatica. Ogni tanto la polizia, quando si degna di intervenire per abbellire la campagna elettorale di qualche politico, rinviene persino cimiteri nascosti nel folto del verde, a due passi dagli agglomerati da favelas; inutile dire le malattie, scabbia, tubercolosi, infezioni di ogni genere, il freddo ed il caldo, l’umidità che imputridisce le pareti di cartone. Non-esistenza all’ennesima potenza.
Ma la Villa di Plinio è famosa soprattutto per le puttane; la sua estensione planimetrica, l’essere fuori mano e circondata dal nulla, l’ha resa per decenni una alcova post-pasoliniana di incontri furtivi tra i rami degli alberi. Non a caso praticanti di jogging e pensatori solitari a volte devono prodursi in uno slalom carnale tra preservativi, bottiglie di plastica e materassi gettati a terra, letteralmente decomposti ma utili per i clienti più avventurosi per consumare amplessi orizzontali.
Ogni tipologia di servizio sessuale con annesso genere ha la sua precisa dislocazione, una topografia del desiderio che nessuna istituzione riesce a combattere o a smantellare; i trans costeggiano con le loro macchine ed i camper l’imbocco della strada, proprio a cento metri scarsi da uno degli ingressi secondari della tenuta del Presidente della Repubblica, zona di erba incolta, alberi caduti e qualche famiglia camperista che si confonde equivocamente ai trans. Carrellata di carne ibrida, tette siliconate, ormoni e testosterone in libera uscita, confusione mentale (di trans e clienti) e cazzi macilenti – anche qui, malattie a profusione.
Di notte si segnalano con lucette tascabili, ed è tutto un vorticare di questi tubetti fluorescenti; non vedi nulla fino a quando non te li trovi davanti, statuari, mitologici quasi nel loro assemblaggio di tette e cazzi e volti semifemminili.
Prima, sulla litoranea o davanti gli stabilimenti, ci sono le slave e le nigeriane, qualche rara cinese, una condivisione territoriale equamente studiata dai racket etnici; macchine di clienti a velocità ridotta avanzano nella notte, tra lo sfarfallare arancio dei lampioni. Immagini la loro solitudine, il loro frettoloso e patetico liberarsi della famiglia e dalla famiglia con qualche scusa, escono di casa col cazzo pulsante dentro le mutande, tante idee necessariamente confuse nel cervello e il cuore in gola, il pensiero della caccia, della scelta, del passare in rassegna le fisionomie delle puttane valgono molto di più dello stereotipato rituale della contrattazione e della scopata in lattice. Uomini che abdicano all’umanitarismo spicciolo della Caritas e dei giornali progressisti, che voltano le spalle alle regole minime della socializzazione consapevole e che sembrano gettarsi nell’ammonimento cioraniano secondo cui "il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo" (Lacrime e Santi, p.66) – le loro solitudini tracimano, collimano, si sfiorano languidamente, avvinte dalla preoccupazione di tastare carne ancora pura, la pia illusione di cavare dal mazzo la carta vincente, la puttana ingenua e silenziosa appena giunta dal suo Paese, appena risvegliata dall’illusione di una vita migliore non da baci di favola ma da stupri e pestaggi variamente assortiti. Protettori spietati, laidi, cinici e sadici; usano la carne femminile come in una via di mezzo (e via crucis) tra bordello e macelleria.
Quarti di carne e buchi per rapidi scaricamenti di palle – alcuni però vogliono instaurare una conversazione, vogliono autoingannarsi, elidere il quoziente di mercificazione e fingere che quella scopata da sedile anteriore sia una estensione logica e necessitata della vita di ogni giorno, una forma avvilente di colloquio in cui due solitudini inespresse emergono e si incontrano per rendersi ancora più sole. Suppongo che molti di loro vorrebbero riscattare le puttane, nemmeno considerarle prostitute ma ragazze sfortunate, troppa televisione per famiglie nelle sinapsi e nei neuroni, troppe sfilate di c’è posta per te, tronisti e lacrime a buon fine – lontani dal "in ogni modo la mia vita da studente è trascorsa sotto il fascino della Puttana, all’ombra della sua degradazione protettrice e calorosa, persino materna" (Cioran, "esercizi di ammirazione", p. 183). Lontani da quel romanticismo weiningeriano della prostituzione, e del bordello.
Qui siamo in territori diversi, radicalmente diversi; ontologia del buco femminile per arrivare alla negazione di se stessi. Per negare i propri fallimenti, le proprie cadute, le discese verticali, togliere di colpo la sofferenza e il dolore che ci si porta dietro nel relazionarsi agli altri. Distruggere la coscienza, nella lordura della prostituzione, abbassare quanto di più sacro crediamo di avere, la calda confortante dignità della famiglia, allontanarsene con confusa convinzione – "la coscienza interviene nei nostri atti solo per turbarne l’esecuzione, la coscienza è una perpetua messa in discussione della vita, è forse la rovina della vita" (Cioran, "esercizi di ammirazione", p. 101).
Vogliono una malattia che sia testimonianza di questa lordura. Chiedono rapporti non protetti, forma evoluta di roulette russa venerea, per riportare a casa uno spicciolo simulacro di trasgressione serale. Idealizzare una donna, la propria madre, la propria fidanzata, la propria moglie, sposata al culmine di un rituale articolato ed emotivamente complesso, per poi insozzarla a posteriori, renderla umana. Troppo umana. Estirparla dalla cornice, sventrarne la tela.
" Quando perfino il vuoto ci appare troppo pesante o troppo impuro, ci precipitiamo verso una nudità di là da ogni forma concepibile di spazio, mentre l’ultimo istante del tempo raggiunge il primo e vi si dissolve" (Cioran, "il funesto demiurgo", p.103).
Uomini che vogliono la carne. La consistenza di mani umidicce di sperma e sudore. Odori e afrori baccanaleschi, la sofferenza di lacrime che devono ancora essere piante, profumi dozzinali, abiti scosciati. Si ingannano. Perdono tutto. Soli con l’universo, e la sua pastosa consistenza, vivendo sotto la beatitudine di un masso.
Un atto di voracità, di rapacità…la moglie che a casa si strugge nel dubbio, domande senza risposta, persino quando il marito torna a casa avendo su di sé l’odore chiaro e manifesto di un’altra donna, cercare di considerare quel tradimento un non-tradimento, una mera scappatella, un capriccio, un inconsistente incidente di percorso. Quando i loro umori si mescolano e si fondono nella malattia condivisa – sicuramente l’AIDS, l’herpes, la candida, siamo ridotti ad un virus, alla non-esistenza elevata a discorso di cazzo e fica.
Voglio più figli innocenti da piangere. Più miserabili prostitute illuse, ingannate e rinvenute nel greto di un torrente, acqua verdastra e fangosa del canale; genitori tardivamente estasiati, in aula di processo, chiamati a rievocare le mirabolanti bellezze delle loro figlie rinvenute cadavere, quando fino al giorno prima non sapevano nemmeno che fine avessero fatto. E probabilmente erano stati proprio loro a causarne il definitivo allontanamento da casa, tra abusi, violenze domestiche e alcolismo molesto.
Parlano di luce e blaterano di candidi sentimenti new age, vendibili facilmente a giornali scandalistici che indulgendo al più bieco sentimentalismo venderanno quelle lacrime, in un circuito di prostituzione totale e circolare.
"Non voglio più collaborare con la luce né adoperare il gergo della vita!" (Cioran, "Sommario di decomposizione", p. 122) – dovrebbero tenerlo a mente, quando seduti sullo scranno dei testimoni e sottoposti al fuoco di fila di domande di accusa, difesa e giudice si sciolgono in un pianto dirotto che non sai mai da cosa sia determinato. Da promesse non eque, dalla vergogna di una figlia puttana ed uccisa, sbandierata ai quattro venti come paradigma di una ricca vita, quindi compiangendo se stessi, oppure per un qualche esoterico retaggio di dolore parentale fuori tempo massimo.
Dovrebbero tenerlo a mente ogni volta che si autoingannano parlando di bontà e di ricordi fiabeschi, memorie totalmente false e consolatorie.
Dovrebbero, semplicemente, tenerlo a mente. Sempre.
1 commento:
M'è piaciuto.
-Mejnour-
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