"Trasgredire i tabù, così comanda il progresso economico” scrive Vaneigem nel suo Libro dei Piaceri, e gettando rivelatorie occhiate nel ventre luminescente ed ambrato di molte gallerie d’arte vedremo che ha perfettamente ragione, ragione da vendere, e vendere proprio la ragione con tanto di prezzario e catalogo e bestialità assortite elevate al gotha e al golgotha della passione artistica, come un fiume disperso a mezzanotte tra un inverno di Stalingrado e beata contemplazione fotografica estroflessa laddove l’hic et nunc diventa meno formale e più sostanziale, il tabù mercificato hegelianamente alienato nella rivoluzione industriale dell’arte si sublima sempre in un post che ingoia fagocita e metabolizza la semiotica e l’anelito (prometeico) devoluto alla interpretazione, assegnare significati al vuoto e al deserto che avanza è il nuovo lavoro dei critici, mandanti ideologici della nullificazione artistica presente, lucroso business di giocolieri sempre in piedi che palleggiano la responsabilità di aver reso grigia vana ed inutile l’arte, c’era una inondazione di corvi neri nella drammatica consistenza dell’orecchio mutilato di Van Gogh e ce lo ha comunicato Artaud eppure tra viaggi ascesi mantra ed esorcismi criptici nessuno avrebbe pensato di dover trasgredire ma solo di vivere perché il porsi volutamente in antitesi pone le premesse di un formale riconoscimento che nessuno vuole accettare.
L’underground mangia merda e se la fa piacere, suggerisce Hakim Bey, ha ragione pure lui e poco importa che alla fin fine lo stesso Bey prenda copiosamente parte al banchetto scatologico; l’underground è diventato sinonimo di pressappocchismo, di faciloneria, di trasgressione plastificata ed oleografica, nella stessa misura in cui l’arte, underground o mainstream che sia, (de)cade a scendiletto del borghese annoiato, della trovata flamboyant da vernissage tunisino con la torcia accesa sull’infinito del deserto e le dune di sabbia mobili agitate dal vento, ma puntando lo sguardo verso la tremolante linea d’orizzonte non vedrete più quel gelo orrendo ed orrido, abissale, immane, imperioso e totalizzante che era del cuore di tenebra, non più quella grandezza icastica e maledetta che dipingeva il nero di Goya o le visioni universali arancio-cupo di Blake o la carne fusa nei colori dannati di un Bacon o i chiaroscuri pompeiani di un Caravaggio pittura in punta di spada tra sangue e dannazione, oggi l’arte è un club privè per azzimati moloch caldei.
La cosa peggiore che un artista possa fare, ci dice Peter Sotos, è creare appositamente volendo generare una reazione, uno shock, mezzucci devianti lontani dalla razionalizzazione dei propri gusti e dalla volontà (di potenza) artistica, si compilano carovane passatiste piene di palude dell’anima, si impilano torte di merda e le si spaccia per deliziose sacher, complici in tutto questo interpreti e pseudo-critici che devono avere il naso molto raffreddato se non avvertono il lezzo pungente della decomposizione.
DUMDUMZOOM non è arte oppure è arte che sa di non essere arte, è una consapevolezza non trasgressiva e per questo proprio fuori dal canone della rispettabilità prezzata che contraddistingue la società artistica contemporanea, dichiara guerra alla stupidità, alla saccenza, alla vaniloquenza, alla idiozia ontologica priva e deprivata di senso estetico. Gusto e non-gusto, elevazione sulla torre d’avorio, entrando dalla finestra e rubando le posate d’argento come nel sogno paranoico-critico di Dalì in cui desiderio e oggetto del desiderio si contendono un posto al sole; l’artista moderno , se avesse le palle, seguirebbe il suggerimento di Luis Bunuel e andrebbe a far saltare in aria quella immonda sciocchezza che è Guernica, vera truffa dell’arte, Picasso mercificatore senza l’ironia di un Duchamp, ecco cosa è DUMDUMZOOM il coraggio metaforico di lanciare una palla infuocata di cocente irrisione nell’arengo delle cattive idee, cattivi maestri della creazione, serial killer dell’etica applicata all’arte, perché davvero morte all’utilitarismo e al Bentham diventato pittore, DUMDUMZOOM è molto più di una rivista, di una collezione di collage, delirii, assalti verbali, fotografia non-paludata, scrittura automatica a flusso di coscienza che si nutre della suggestione fatta propria da Charlie Manson quando puntando un dito accusatore contro i suoi carnefici diceva “siete voi ad aver fatto tutto questo, non io”, impulso tellurico, scismatico, sismico, estroflesso, emerge dai cunicoli come presenza fantasmatica grigia ma striata di bellissimi colori, come una folle gioia che accende e riscalda i cuori, perché si non è solo una rivista ma un mezzo d’assalto un modo di fare filosofia col Panzerfaust di gettare un po’ di fango di ritorno e di rendere la concreta pariglia ai soloni dell’arte e della espressione letteraria contemporanea, senza tregua e senza siesta un carnevale messicano di morte la foto di un Santerineross adombrata e macchiata dalle ombre dei pueblos argillosi e le maschere e la consistenza dimenticata di un sotto-mondo.
DUMDUMZOOM è la pratica estensione psicogeografica di un locus un tempo abbandonato e che oggi si ripopola nella festa perenne del motto dannunziano, un locus che esiste, concreto, di acciaio vetro e cemento circondato dal folto del bosco e sulle pendici scoscese della dimensione meta-urbana, arroccato come una postazione nemica nel ventre sapido ed insipido della trasgressione ad ogni costo, Rave sintomatico e decostruito, Situazione perché il Situazionismo da quello viene, dalla comprensione del momento, dallo scambio simbolico baudrillardiano avvenuto su autostrade di comunicazione meno che cyberpunk ma più neon e più asettiche di una formaldeide ospedaliera, cristo di acciaio e Shelob biomeccanoide come un Giger sepolto e Lazzaro emerso e potente e taciturno col sigaro in bocca ed una bottiglia di whisky a tracolla, la traversata del deserto a dorso di Harley Davidson.
DUMDUMZOOM si incarna nella lotta ma come ogni mito che si rispetti svanisce alla mezzanotte, mentre l’oceano di fuoco schiude i suoi petali, svanisce e poi rinasce nutrendosi del fuoco perché l’Araba Fenice non esige altro che intelligenza emotiva emozionale creativa.
L’intelligenza non ha prezzo.
La stupidità invece dovrebbe essere dolorosa.
L’underground mangia merda e se la fa piacere, suggerisce Hakim Bey, ha ragione pure lui e poco importa che alla fin fine lo stesso Bey prenda copiosamente parte al banchetto scatologico; l’underground è diventato sinonimo di pressappocchismo, di faciloneria, di trasgressione plastificata ed oleografica, nella stessa misura in cui l’arte, underground o mainstream che sia, (de)cade a scendiletto del borghese annoiato, della trovata flamboyant da vernissage tunisino con la torcia accesa sull’infinito del deserto e le dune di sabbia mobili agitate dal vento, ma puntando lo sguardo verso la tremolante linea d’orizzonte non vedrete più quel gelo orrendo ed orrido, abissale, immane, imperioso e totalizzante che era del cuore di tenebra, non più quella grandezza icastica e maledetta che dipingeva il nero di Goya o le visioni universali arancio-cupo di Blake o la carne fusa nei colori dannati di un Bacon o i chiaroscuri pompeiani di un Caravaggio pittura in punta di spada tra sangue e dannazione, oggi l’arte è un club privè per azzimati moloch caldei.
La cosa peggiore che un artista possa fare, ci dice Peter Sotos, è creare appositamente volendo generare una reazione, uno shock, mezzucci devianti lontani dalla razionalizzazione dei propri gusti e dalla volontà (di potenza) artistica, si compilano carovane passatiste piene di palude dell’anima, si impilano torte di merda e le si spaccia per deliziose sacher, complici in tutto questo interpreti e pseudo-critici che devono avere il naso molto raffreddato se non avvertono il lezzo pungente della decomposizione.
DUMDUMZOOM non è arte oppure è arte che sa di non essere arte, è una consapevolezza non trasgressiva e per questo proprio fuori dal canone della rispettabilità prezzata che contraddistingue la società artistica contemporanea, dichiara guerra alla stupidità, alla saccenza, alla vaniloquenza, alla idiozia ontologica priva e deprivata di senso estetico. Gusto e non-gusto, elevazione sulla torre d’avorio, entrando dalla finestra e rubando le posate d’argento come nel sogno paranoico-critico di Dalì in cui desiderio e oggetto del desiderio si contendono un posto al sole; l’artista moderno , se avesse le palle, seguirebbe il suggerimento di Luis Bunuel e andrebbe a far saltare in aria quella immonda sciocchezza che è Guernica, vera truffa dell’arte, Picasso mercificatore senza l’ironia di un Duchamp, ecco cosa è DUMDUMZOOM il coraggio metaforico di lanciare una palla infuocata di cocente irrisione nell’arengo delle cattive idee, cattivi maestri della creazione, serial killer dell’etica applicata all’arte, perché davvero morte all’utilitarismo e al Bentham diventato pittore, DUMDUMZOOM è molto più di una rivista, di una collezione di collage, delirii, assalti verbali, fotografia non-paludata, scrittura automatica a flusso di coscienza che si nutre della suggestione fatta propria da Charlie Manson quando puntando un dito accusatore contro i suoi carnefici diceva “siete voi ad aver fatto tutto questo, non io”, impulso tellurico, scismatico, sismico, estroflesso, emerge dai cunicoli come presenza fantasmatica grigia ma striata di bellissimi colori, come una folle gioia che accende e riscalda i cuori, perché si non è solo una rivista ma un mezzo d’assalto un modo di fare filosofia col Panzerfaust di gettare un po’ di fango di ritorno e di rendere la concreta pariglia ai soloni dell’arte e della espressione letteraria contemporanea, senza tregua e senza siesta un carnevale messicano di morte la foto di un Santerineross adombrata e macchiata dalle ombre dei pueblos argillosi e le maschere e la consistenza dimenticata di un sotto-mondo.
DUMDUMZOOM è la pratica estensione psicogeografica di un locus un tempo abbandonato e che oggi si ripopola nella festa perenne del motto dannunziano, un locus che esiste, concreto, di acciaio vetro e cemento circondato dal folto del bosco e sulle pendici scoscese della dimensione meta-urbana, arroccato come una postazione nemica nel ventre sapido ed insipido della trasgressione ad ogni costo, Rave sintomatico e decostruito, Situazione perché il Situazionismo da quello viene, dalla comprensione del momento, dallo scambio simbolico baudrillardiano avvenuto su autostrade di comunicazione meno che cyberpunk ma più neon e più asettiche di una formaldeide ospedaliera, cristo di acciaio e Shelob biomeccanoide come un Giger sepolto e Lazzaro emerso e potente e taciturno col sigaro in bocca ed una bottiglia di whisky a tracolla, la traversata del deserto a dorso di Harley Davidson.
DUMDUMZOOM si incarna nella lotta ma come ogni mito che si rispetti svanisce alla mezzanotte, mentre l’oceano di fuoco schiude i suoi petali, svanisce e poi rinasce nutrendosi del fuoco perché l’Araba Fenice non esige altro che intelligenza emotiva emozionale creativa.
L’intelligenza non ha prezzo.
La stupidità invece dovrebbe essere dolorosa.
DumDumZoom è distribuito da Mondo Bizzarro
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