(foto by A3bla)
Vedo una distesa di luci a coprire il profilo notturno della città come un serpente di lava risvegliato dopo un lungo letargo, strade immerse nella rifrazione neon e nei traffici di ogni notte che si rispetti e stelle diamantine ritagliate tra edifici di edilizia popolare, moduli abitativi grigi confusi istoriati di graffiti paleo-industriali, scene di desolazione urbana e prostitute e macchinette distributrici di caffè e bar tabacchi e fiorai e comitive di giovani fermi davanti muretti scassati e scritte e parchi coi giochi per bambini e l’erba incolta e le siringhe insanguinate, vedo intersezioni stradali prive di una logica intrinseca la tangenziale i bus e le rotaie della metro, vedo i lampi azzurrognoli delle macchine della polizia e la sagoma bianca dei taxi i fuochi delle puttane meno fortunate le fabbriche dismesse abbandonate dimenticate nel ventre povero e sordido di una Roma andata, non più Imperium immoto ed immortale ma secrezione oleosa degna di una entità post-cimiteriale in cui l’esistenza diventa lucida e stridente come un fantasma gotico messo davanti alla responsabilità di un bilancio, vedo le transazioni tossiche la polvere bianca la disoccupazione i rapper dell’incrocio le strade le autostrade il Raccordo i crocicchi i prati i campi le discoteche le cornetterie i centri sportivi le caserme i quartieri addormentati su se stessi e chiusi in un silenzio assordante la notte qui non finisce con l’alba ma continua e si ripete come un tragico disco in stand-by ed un vinile che salta sulle puntine e smozzica le parole e la melodia e il ritmo lasciandoti in bocca il gusto amaro della malinconia e poi ti dici quale sia il futuro che ti attende pensi a chi ce l’ha fatta a chi ha mollato gli ormeggi a chi invece è rimasto cristallizzato nel nulla eterno a chi marcisce nella contrita istituzionalizzazione che solo la pomposità criminologica può ascrivere al finalismo rieducativo, effervescenza sintomatica di un over-load sensoriale ed emotivo in cui tutti giocano ai felici ai duri ai potenti tra tatuaggi di comodo e modi da gangster nicaraguense ma senza i Contras e senza gli spari e solo con più frustrazione e solo più droga e senso dell’umorismo, vedo la droga cocaina crack speed erba acidi di varia natura e varia caratura ma senza la sovrastruttura ideologico-amorevole dell’esperimento percettivo perché tra queste immense periferie del cuore difficilmente troverai un Huxley o uno Junger ma nemmeno un Leary a guardare bene, troverai solo odio un odio pieno lancinante e caotico disarticolato come le zampe spezzate di un ragno, un odio che pulsa cresce vive e respira come un sinuoso cancro allo stadio terminale, tenuti al guinzaglio da uno Stato criminale che pontifica e strilla e strepita e pone ordini e comandamenti e chiede senza mai dare, senza mai dare una chance, senza mai porgere una guancia caritatevole o un orecchio quando invece si avrebbe voglia di parlare e di sfogarsi e allora quella entità astrusa e metafisica che è lo Stato diventa un ammasso fumante di merda, vedo la gloria delle bande di immigrati i traffici immondi la pornografia tubolari neon incistati su mura screpolate ed i colori sempre quelli marrone ocra grigio pallido bianco ambrato, i colori della depressione, di un carcere che esce dalla sua dimensione di contenzione e diventa istituzione totale carcere prestato all’architettura e alla edilizia abitativa, il peso della speculazione, nessun servizio se non giganteschi centri commerciali che di notte diventano una disneyland dello spaccio e della carne venduta e permutata, puttane moldave ucraine polacche rumene, minorenni e trans e tossici barcollanti tristemente vagolanti come zombies catodicamente corretti con le canottiere e l’oro brillante al collo ed i capelli ingelatinati nella parodia ontologica dell’amore al tempo di Maria de Filippi, cazzo di vita di merda che vedo, il peso insostenibile delle piazzole e delle pompe di benzina dietro cui hai lasciato tanti amici con la siringa conficcata nel braccio ed i giornalisti impietosi a fotografare e a pubblicare a beneficio della masturbazione dei viveur e dei voyeur borghesi rintanati nelle loro cazzo di case enormi scintillanti linde e pulite e polifunzionali, e preti preti che nell’omelia ricordano il significato dell’amore universale della compassione del senso del sacrificio, ma mentre quello scarafaggio cristologico si slancia nella logorrea di sifilide dello spirito penso alle altezze sopra il mare sopra tutto ciò che è umano e non è più alibi ma volontà di potenza ed odio piegato alla ragione, la ragione della distruzione totale, lo scontro cieco furioso con la bava alla bocca i roghi notturni e la pistola in mano, borgate, periferie, centro storico, segmenti d’asfalto, ferrovie, stazioni della metro, la battaglia è ovunque infuria devasta ed arde, un fuoco che non smette di bruciare e ce lo portiamo dentro, alla faccia di quelle povere teste di cazzo che si fan gargarismi con l’estremo e con le ansie e le depressioni da quattro soldi e che leggono due righe o una copertina spacciando la loro miseria morale umana ed esistenziale come arte della provocazione, oh grandiose teste di cazzo, intellettuali della provocazione, addobbati con quattro cialtronerie poco poco svasticate e altre cianfrusaglie della disperazione e ve ne andate in giro a millantare a giocare ma è tutto finto, sperma di plastica tra le gambe di un finto stupro, quello sarebbe estremo ogesuddio onnipotente, tra campi zingari e lo sciabordio sinistro del Tevere alla Magliana o nelle luci roboanti del Raccordo che piega a Nord e tra gli avallamenti industriali della Prenestina e della Casilina e nello scoppio sordo delle pistole che lasciano una scia di sangue sulla Tuscolana e all’Eur e all’Appio e ad Ostia con cadaveri crivellati e banditi di altre epoche falcidiati tra i gitanti che tornano a casa dopo una rispettabile assolata giornata di mare, la scintilla dell’insurrezione esistenziale che ci ha avvinto tutti ha lasciato dietro di sé una drammatica epopea di funerali morti compiaciuti e strumentalizzati e quel sangue quello strazio esige un suo prezzo intrinseco, vedo i murales il ricordo pesante e pensante come se dall’immaginario sottosuolo romano un ordine nuovo venga evocato per rendere onore, le scritte di vernice le mura dipinte i manifesti e le commemorazioni alcune sincere altre meno perché la plastica è ovunque non solo nelle farneticazioni di qualche estremista d’accatto, i demoni tecnologici corrono a vele spiegate silenziosamente protesi verso la ricerca del bello attraverso un demiurgico attraversamento del sordido e del patologico in questa palude, in questo deragliamento intessuto di note e accordi silenti, macinati dalla rumorosa cacofonia del dolore, questa città è diventata un porto franco per abissi nomadi e derive pagane, altari sacrileghi di sesso promiscuo tra saliscendi e in teatri porno abbandonati la ricerca dell’amore non sai se lo hai trovato e degnamente incarnato in questa lotta con le spalle al muro, vedo che va tutto bene, va tutto bene mi dicono e ci dicono che non c’è problema e tutto si sistemerà e nel mentre per non annoiarsi per confermarsi i boia che son sempre stati continuano a spararci addosso erigendo lo spesso muro dell’isolamento, le nottate trascorse a parlare a fischiettare un qualche motivo di tempi andati ballate di arditi rhodesiani e ultimi uomini bianchi in un mondo che ha eletto il minestrone dello spirito e della pigmentazione a suo canone fondativo, nottate di devasto psichico organizzazione e solitudine, birra, vino, pacche sulle spalle ed abbracci, lontananza dall’affetto, dall’amore, l’odio cieco sta dietro la porta come il migliore degli assassini, questa è ancora oggi la nostra battaglia che si dipana tra le acque immote del laghetto dell’ENI tra le frasche e gli alberi e il grigiore del cemento e tra lampioni intermittenti certo sfasciati che ragazzini zingari lerci marci putridi ma sorridenti aggrediscono a sassate, la battaglia corre a duecento chilometri orari sulla Tiburtina sulla Tuscolana sulla Via di Boccea al Trionfale e poi tra i Fori Imperiali e sulla Maestà augustea del centro e a sud all’Ostiense tra i magazzini generali e il Gazometro che come un Colosseo di planimetria contingentata emana un gas di vita nel cuore abbrutito di un campo di morte, la battaglia questa battaglia non è morta, la vernice bianca ci dice Piazza Anselmi ed io che non ho avuto passamontagna da inzuppare nel sangue ne vedo la forma precisa onorevole e rispettosa e rimango tutte le sere in beata contemplazione e vedo l’amore dietro quella mano o dietro quelle mani che hanno tracciato quei segni e quella croce circolare che svettano assieme nell’abbraccio della trincea, più che amicale, più che di comunione di intenti, quel gesto ispira gloria ed infonde calore, la loro battaglia è la nostra battaglia, gutta lapidem cavat e se al posto dell’acqua ci sarà dato il piombo vuol dire che la roccia cadrà prima frantumata sotto la speranza di un futuro che abbia consistenza e valore, amicizia, pace, consenso, una pistola, e una granata da giocarsi nell’afa di una sera d’estate o nel gelo quasi nordico di un inverno senza ritorno, forzato, costretto, vincolato ad un patto sovra-umano che per libera scelta ed ontologica predisposizione mi son detto di avere dentro di me, quella scritta è stata lavata via dalla mano normalizzatrice dell’amministrazione ma io ancora la vedo, e per quanto guardi questa città queste luci questa notte queste vite adagiate su ritmi di comoda rispettabilità borghese io non vedo altro che pozze di sangue ed i volti di Alibrandi Anselmi Di Scala Vale De Angelis, vedo loro ed i loro fantasmi e le galere e gli spari e le fughe e le necessarie vendette, vedo tutto questo perché quelle figure camminano sospese nel tempo e tra segmenti stradali e intersezioni morfologico-territoriali, camminano ed emergono e porgono il loro deferente saluto a chi è venuto prima di loro.
Non li ho dimenticati.
Non li ho dimenticati.
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