"Non vorrei essere Dahmer neanche per un giorno"
Gerald Boyle, avvocato della difesa, Arringa Finale nel processo contro Jeffrey Dahmer
Un istituto processuale dell'assai ingarbugliata legislazione del Wisconsin prevede che in casi di omicidio, nel momento intercorrente tra verdetto della giuria e ratifica formale da parte del giudice, i parenti delle vittime possano rivolgersi direttamente al giudice e parlargli della vita dei loro cari defunti per mano dell' omicida. Il senso di questa disposizione, che a noi Europei pare una inammissibile interferenza tra piano emotivo e piano giudiziario, e' tipicamente americano, consistendo in una sfida morale ed un richiamo all'eventuale perdono.
Il confronto tra parente della vittima massacrata ed il Predatore che l'ha strappata all'affetto e' un momento da sempre eccitante della cronaca nera, puoi apprezzare il grave contegno della donna o uomo che vestito a festa, in un silenzio grave e carico di indignazione ( per il Mostro ) e di rispetto ( per il testimone ), entra in aula, si siede sul banco dei testi, pronuncia giuramento e si accinge a rispondere, tra un pianto e uno sguardo dritto negli occhi dell'Assassino, alle domande di accusa e difesa.
Puoi chiederti che cosa stia provando, quale razza di caos inarticolato, quale fuoco gli stia bruciando dentro, vedendosi a neanche tre metri davanti la persona che ha rapito, torturato, fottuto e massacrato la sua tenera ciccina o il suo tenero ciccino.
Puo' davvero considerarlo un essere umano? Oppure solo un abietto Demone sbucato per errore dall'inferno?
Il formalismo rituale del processo e' un continuo pungolo a che non perda di vista il fine ultimo di quelle schermaglie oratorie, quel fuoco di fila di domande, interrogatori e contro-interrogatori, a volte punteggiati di curiosita' morbose, cattive, laide, che dovrebbero servire a mettere in crisi il genitore stesso e a dimostrare che in fondo la vittima si e' guadagnata quel trattamento.
E per quanto il testimone, straziato nel profondo dell'anima, cerchi di fare astrazione del Predatore, per non doversi arrendere all'evidenza che l'essere che gli ha strappato il suo caro e' in fondo proprio un essere umano come lui, ci sono gli avvocati, i procuratori distrettuali, il giudice stesso a porre domande severe, insensibili, perche' l'accertamento della Giustizia e' qualcosa che deve trascendere la compassione.
Ma se in Italia e in altri Stati il confronto avviene tra il parente e un omicida che e' ancora SOLO presunto tale, generalmente nella fase testimoniale, qui nel Winsconsin la perorazione avviene quando un enorme grado di responsabilita' e ' stato accertato e il parente ha la certezza, almeno al 99%, che l'imputato contro cui si rivolge sia veramente chi gli ha fottuto per sempre la figlia o il fratello.
C'e' anche da chiedersi che cosa possa provare il Predatore in quegli istanti. Se fino ad allora lo strazio dei genitori aveva potuto solo immaginarlo, facendosene colorita proiezione mentale, adesso invece ne osserva i frutti piu' fecondi; vede gli occhi arrossati, le scene da tragedia greca con un Fato ineluttabile a minacciare pioggia di lacrime, le urla, le imprecazioni, i colpi di scena con foto esibite e recriminazioni cosmiche, avverte finalmente che qualcosa si e' spezzato per sempre in quelle persone che gli sfilano davanti per comunicargli il loro disprezzo.
Verrebbe da invidiare questi Uomini, a cui e' data la chance di godere ulteriormente; come lunghe file di deportati destinati a liquefarsi in un forno crematorio, dopo essersi fatti una visitina in una camera a gas, i parenti gli camminano uno dopo l'altro davanti, guardandolo negli occhi per scorgervi un briciolo di umanita', di pentimento o di rimorso, perche' sanno benissimo che non potranno convivere con l'idea che l'uomo che ha massacrato loro figlia abbia veramente goduto di cio'.
E che ora se ne stia immobile, quasi annoiato o peggio divertito, dietro il banco degli imputati, accanto al suo collegio di difesa, e'semplicemente intollerabile.
Jeffrey Dahmer ha veramente perso una grande, grandissima occasione.
Se uno puo' apprezzare cio' che ha fatto, risulta invece impossibile apprezzare chi e' stato.
Una insicura e patetica nullita', in grado, nonostante crimini di una invidiabile ferocia, di risultare persino piu' patetico delle sue vittime, una accozzaglia di gay negri e ispanici che nella generale convinzione americana sono posti appena un gradino sopra la merda di cane.
Le sue fobie, la sua solitudine, il suo sguardo vacuo e assente, il suo tentativo di farsi una ragione nonostante la totale necrosi interiore, la sua vita altamente disastrata, la depressione e la condizione mai risolta di omosessualita', le storie di windigo, altari, totem e zombies, la casa ordinata ma puzzolente, le camminate sotto la neve con le mani in tasca, le serate in bar gay per cercarsi una veloce e fugace compagnia.
Persino li' in aula , Dahmer ha continuato ad essere un insignificante e patetico insetto.
Tutti i periti, di accusa e difesa, l'avvocato di parte, il procuratore, persino due giurati, si erano convinti che Dahmer fosse un pezzente emozionalmente instabile, un poveraccio i cui crimini risultavano orrendi ed inspiegabili per il quoziente di lobotomie casalinghe, necrofilia, smembramenti e cannibalismo, ma che se non avessero contenuto particolari cosi' agghiaccianti in fondo sarebbero stati spiegabili e lui, in tutta probabilita', si sarebbe preso l'infermita' mentale.
Nel tortuoso tentativo di assimilare le emozioni di Dahmer, i giurati sfiorarono, per un istante solo, quel gelo e capirono che anche lo spietato Mostro cannibale era una vittima; lo scintillio gelido della morte che il Cannibale si portava dentro andava aldila' di ogni possibile ipotesi di comprensione, eppure doveva essere cosi' palese, cosi' marchianamente evidente. Quel gelo doveva aver creato stalattiti di orrore in tutta l'aula. E non si nutriva piu' raccapriccio per le uccisioni, bensi' per il vuoto che stava dentro il povero Jeffrey.
Nel momento dell'arringa finale, l'avvocato che difendeva Dahmer, elencando i fallimenti e gli insuccessi del suo assistito, disse che l'assassino la vera pena se la portava dentro sin da quando era nato. "Vi piacerebbe" chiese con tono retorico e melodrammatico "avere sin dall'eta' di 15 anni fantasticazioni sessuali riguardanti cadaveri?", e poi via con altre sequenze di deviazioni, parafilie, lasciando intendere che carcere ed ospedale psichiatrico non sarebbero stati nulla al confronto di cio' che Jeffrey provava dentro.
Chiacchiere d'avvocato, si potrebbe obiettare.
In realta', persino gli psichiatri dell'accusa erano arrivati a rivolgersi a Dahmer nei loro colloqui con il nomignolo di Jeff. Avevano capito che quell'uomo non stava recitando il ruolo del povero lunatico, non dissimulava, ma che invece l'inferno se lo portava dentro ogni giorno, ogni ora della sua vita. Infatti, inizialmente convinti della sua coscienza delittuosa e della sua capacita' di intendere e di volere, finirono poi per mutare radicalmente opinione e per sostenere, in aula, che Dahmer soffriva di gravi malattie mentali di natura psicotico-necrofila. Il Giudice arrivo' persino a rampognarli quando seppe che lo chiamavano con il vezzeggiativo Jeff.
E' un peccato che Dahmer non abbia avuto coscienza. Che non si sia reso conto della tragica processione di parenti annientati.
Stava sofftrendo molto piu' lui di tutti quei poveri bastardi messi assieme. Persino il verdetto finale deve essergli sembrato una mera conferma, una ripetizione inutile e crudele del significato della sua non-esistenza; lui era gia' stato condannato all'ergastolo, quando era nato trentuno anni prima.
Non stupisce che a differenza di tanti altri omicidi sessuali, proprio Dahmer sia assurto all'Olimpo della celebrita' assoluta; fumetti, libri, film, reportage, talk show di approfondimento, magliette, canzoni, fanzine e tutta una scena di insignificanti carogne pronte a riempirsi la bocca del suo nome, tanto per giocare ai trasgressivi. Compagni di scuola, dentisti, amici o ex fidanzate, vere o presunte, commilitoni, tutti impegnati a darsi una abbronzatura di mondanita' televisiva, in un avvilente sarabanda di "io lo conoscevo bene" oppure di titoli incredibili "sopravvissuto al Mostro". Ma l'interesse non e' per Dahmer. E' per tutto il contorno.
Per le azioni, decontestualizzate e considerate in assoluto, la cornice gotico-orrorifica di splatter cannibalico, le dissezioni, le trapanazioni, la latente, irrisolta, sotterranea omosessualita', i cadaveri maciullati, fotografati, resi feticcio sessuale e quell'altare, cosi' esoterico, cosi' New Age. Decine di abbonati a Fangoria o Film Threat, fan di Cannibal Corpse o dei Christian Death devono aver trovato in Dahmer il senso perduto della loro esistenza, la quadratura del cerchio, una autocommiserazione vestita di sangue e frattaglie. Quando la Rivincita dei Nerd incontra Gli Schizzacervelli.
Leggi un libro su Dahmer ed il primo sentimento che ti viene da provare e' una infinita pena per l'assassino. Piu' simile ad un Giulio Collalto che non ad un Peter Kurten.
Se si tolgono tutta l'impalcatura horror ed i vividi dettagli carnografici, la vicenda di Dahmer suona come un trito romanzo esistenziale di fallimenti senza possibilita' di riscatto. Persino gli omicidi si sublimano in una sconfitta piu' profonda, proprio non ce la fai a considerarli una ricerca del piacere o in subordine una vendetta.
Solo l'idiozia della Scienza Comportamentale di Quantico, la volutta' di criminologi, sedicenti esperti true crime e fan variamente assortiti pu' osare mettere nella stessa categoria, nello stesso libro, nella stessa scheda un Dahmer e, diciamo, uno Ian Brady o un Ted Bundy.
Ho sempre ritenuto veramente offensiva tutta l'idolatria per il Mostro di Milwaukee nutrita da legioni di brufolosi teenager, che lo hanno eletto ad icona della loro generazione. Il Genio non abitava in quel poveraccio insignificante, che, purtroppo per lui, non aveva scelta ne' consapevolezza di quel che faceva, e che poteva sembrare interessante per chi ancora si ostina a credere a fandonie come "il lato oscuro del lato umano".
Dahmer e' un caso da Manuale, il sogno fatto carne e sangue di ogni profiler deterministicamente convinto che dato A l'individuo commetta B.
Rientra in tutti i profili piu' classici, non si fa mancare le caratteristiche fruttate milioni di dollari in royalties a Ressler, Vorpagel e Douglas, e' materiale d'oro per gente come Brian Masters o per registi di bocca buona momentaneamente a corto di idee. Persino Ammaniti ci ha scritto un racconto sopra, e voglio dire riuscite ad immaginare qualcosa di piu' risibile ?
Nonostante il raccapriccio delle situazioni e la vivida scabrosita' dei fatti, si tende a considerare non poi cosi' morboso il voler disquisire dettagliatamente del modo in cui "Jeff" amava iniettare acido nel cranio trapanato delle vittime. Bisogna capire perche' uno arriva a fare cose cosi' aberranti, no?
Ma questo entusiasmo gnoseologico non sempre risulta evidente.
Lo stesso Masters ci avverte che interessarsi in modo troppo morboso dei serial killer puo' tradire una indole cattiva, in certo senso affine a quella degli idolatrati assassini e cosi' il biografo inglese non si fa scrupoli a definire implicitamente malati tutti gli interessati al delitto seriale, ad esclusione, credo, di lui e degli acquirenti dei suoi libri.
Massimo Picozzi rassicura una timorata casalinga che fino a quando continuera' a comprare la sua collana Mondadori da edicola sui killer seriali "solo per spirito di conoscenza" non ci saranno problemi e che il suo interesse non potra' essere definito malsano.
" Divoro tutto ciò che in tv e sui giornali ha a che fare con delitti e assassini. Qualcuno mi ha fatto notare che forse la mia è una malattia, un'ossessione. A me pare una semplice passione, ma confesso che le osservazioni mi hanno un po' disturbato " ( Lettera Privata in True Crime numero 11, Marzo 2006 ) al che il Chiarissimo Professor Picozzi non potrà che rispondere nel modo seguente :
" certamente quello che distingue una passione da un'ossessione riguarda tanto la qualità quanto la quantità dei nostri interessi. Dedicarsi alla lettura di gialli, noir e thriller, amare le serie televisive e i film che hanno per tema centrale il crimine e l'investigazione non mi pare proprio una malattia. E se lo è si tratta evidentemente di una forma contagiosa, una vera e propria epidemia visti i milioni di soggetti colpiti in Italia. Il fatto è che talvolta ciò che attrae è solo il particolare morboso, l'aspetto efferato. Allora c'è un problema. Quando diventa più importante conoscere il numero di colpi inferti, il tipo di lesioni, le caratteristiche dei tagli, piuttosto che tentare di comprendere i perché, il movente, il modus operandi, i tentativi di depistare, le tecniche di investigazione. Una cosa invece vorrei sottolineare, e vorrei farlo con forza. La storia dei delitti è la storia degli assassini, mentre le vittime finiscono presto per essere dimenticate. Ricordare che dietro i casi di cronaca, gli omicidi più spaventosi c'è sempre il dramma di una vittima e il dolore dei suoi familiari, impedisce che il killer da carnefice si trasformi in mito, in un esempio forte con il quale identificarsi. Stiamo parlando di individui che salvo rare eccezioni hanno scelto deliberatamente la strada del crimine. I traumi, le violenze che possono aver subito, e che li hanno segnati ci aiutano a comprenderli, non a giustificarli. Altrimenti la malattia è dietro l'angolo; quella malattia che porta qualcuno a scrivere ai killer in carcere nella speranza di un incontro, o addirittura ad avanzare una proposta di matrimonio "( True Crime numero 11, Marzo 2006 )
Bruno Vespa narra dettagliatamente di cadaveri maciullati per il generale interesse ad una corretta informazione.
Enrico Mentana ficca le mani nel brodo rosso sangue di Via Poma per puro diritto di cronaca.
CSI, RIS, le fiction su Dahmer o Henry Lee Lucas sono santificate dall'aura del "crimine che non paga", dall'inevitabile trionfo dei buoni, pur non avendo lesinato in morti e sofferenza.
Ma c'e' serial killer e serial killer, e ci sono delitti e delitti. Alcuni sono talmente grossolani, splatter, da risultare pane per i mass media che li tratteranno e li trasformeranno in casi del giorno, mentre altri, percorsi da filoni tematici piu' complessi e problematici, saranno messi in disparte perche' non si vuol fare sentire il pubblico troppo stupido.
Dahmer puo' diventare una icona giovanile e la lettura preferita delle massaie che poi ne spettegoleranno dal barbiere o mentre fanno la spesa perche' Dahmer e' umanamente un personaggio fumettistico, cosi' plastificato e mass-mediaticamente appetibile da essere divenuto il paradigma del serial killer, mentre Ian Brady non sara' mai ne' l'una cosa ne' l'altra. Troppo complesso, troppo brillante, troppe sfumature perche' un qualche ciccione di provincia possa comprenderlo o uno scrittore come Ammaniti finisca per scriverci un miserando raccontino sopra. Nessun ideologo delle culture giovanili, nessun guru dei trend underground , nessun Lapo Elkann della trasgressione potrebbe tollerare che un assassino di bambini, fanatico apologeta di Sade e del Terzo Reich, possa assurgere a modello di riferimento. Dahmer invece e' perfettamente ok.
In questa prospettiva la violenza diventa uno spettacolino risibile, una metafora consapevole.
Accettabile fino a quando si mantiene dentro certi limiti, ossequiando determinate precise funzioni.
In fondo come diceva Celine, le masse si continuano a governare con il pane e gli spettacoli crudeli del Colosseo.
E in questi ultimi duemila anni non e' cambiato proprio nulla, se non che i Romani almeno erano molto meno ipocriti.