Di ritorno da una placida giornata in casa editrice, e dopo essermi fermato da Mondo Bizzarro a parlare e consigliare libri, proprio a pochi metri da lì in compagnia del Gabriels ecco la minuscola galleria Traghetto con in esposizione una collettiva sugli spazi desolati - e tra queste foto un magistrale scatto di Jamese Casebere, grandissimo fotografo statunitense (classe 1953) nato nel Michigan ed attualmente residente a New York dove vive con la moglie e con la figlia.
Il paradosso di quella epifania pre-estiva raggiunge vette inesplorate se si pensa che il Gabriels mi stava parlando del suo ultimo acquisto librario, Il Trattato di Ontologia di Constantin Noica (filosofo rumeno amico di Cioran e di Eliade, con un passato di simpatizzante per il Movimento Legionario di Codreanu, assassinato dalla polizia segreta rumena nel 1987) - l'essere alla prova di spazi desolati. Perchè nelle opere di Casebere di esseri non se ne trovano; ci sono soltanto ampie traslucide e a volte cupe distese di mattoni, ventri di chiese franate, loft abbandonati nel centro di qualche innominata ed anonima città.
L'utilizzo della luce che il fotografo americano fa è stupefacente; conferisce un maggiore tasso di solitudine e di autismo della immagine, una sorta di dedalo concentrico di solitudini attraverso cui l'occhio di chi osserva si perde.
Queste foto dovrebbero essere guardate al buio, nel riverbero tremolante di un neon, con in sottofondo i magmatici e abissali drone di un Lustmord, di un Raan, di un Raison d'Etre, rifrazioni rumorose e sinuose che danzano sui profili cristallini degli scatti. Nell'universo-mondo di Casebere, contestualizzato adeguatamente all'epoca industriale, si supera persino il pessimismo purpureo di Caspar Friedrich; puntini di carne dispersi nel maesltrom della Natura e del Cosmo, disperatamente attaccati alla realtà fattuale. Nelle foto di Casebere invece scompare qualuque pretesa di organico, e a dominare è la tirannia del sintetico, la solitudine dei sentimenti.
Un giardino di specchi e di vetri infranti.
Ma se un azzardato paragone vogliamo tracciare tra Noica e Casebere è la comune critica alla ontologia; a furia di parlare di essere, l'essere è scomparso. E se in Noica la ricerca diventa funzionalmente interrelata al basso, e dal basso deve procedere, in Casebere l'assenza diventa la testimonianza più cupa ed insondabile del grido disperato di chi ha visto evaporare l'uomo.