Non sono gli spiriti nobili a creare il capolavoro, a cesellare il Genio, a marmorizzare per la nietzschana gioia dell’eternità i frammenti dell’arte; al contrario, grettezza, ristrettezza ossessiva delle possibilità e delle prospettive, tedio, noia, incrostazione delle poche certezze morali, paradigmi rovesciati, ed appunto fragilità spesso tradotta in comportamenti patologici costituiscono il fondamento primo e forse unico della vera arte.
In Cronaca della Fine (Marsilio, 2003), lo scrittore e funzionario Mondadori Antonio Franchini, autore tra l’altro di pregevoli testi come Camerati e Quando vi ucciderete Maestro?, traccia un vivido, dettagliato ritratto “esistenziale” e letterario di Dante Virgili, controverso autore di La Distruzione; non ho usato il virgolettato a caso, sia detto subito. Quelle virgolette servono a comprimere e contestualizzare il senso profondo della vita di Virgili, un autore-uomo che non è mai esistito al di fuori dell’orizzonte (appunto, ristretto) dei corridoi mondadoriani, quasi come un ologramma baudrillardiano avvinto dalla unica preoccupazione di vedere il suo libro pubblicato.
Ed esattamente come nell’ologramma è possibile entrare in sogno per alterarne i profili e la fisionomia, così nella vicenda-Virgili è solo la ricostruzione bibliografica, filologica ed onirico-creativa che finisce per darci la cifra del Virgili stesso.
Virgili, il Virgili biografico, impiegato a Forlì presso la Fondazione Garzanti, il Virgili giornalista presso il “Roma”, il Virgili frustrato ed impenitente sadomasochista, quindi il Virgili-persona, semplicemente non esiste se non in combinato disposto con l’elaborazione della vicenda editoriale e con il frutto stesso di questa vicenda; la sua vita è una scarna notazione sul risvolto di copertina, niente foto, nessuna immagine, solo data e luogo di nascita, la precisazione di una sua precedente attività autoriale sotto pseudonimo.
Lo stesso Franchini, che rifiutò materialmente a Virgili la pubblicazione di Metodo della Sopravvivenza, rammenta il rapporto morboso e semi-ossessivo instaurato tra l’autore e lui, ricorda le telefonate prolungate, gli squilli che echeggiavano tra i piani e tra i corridoi degli uffici senza che avesse il coraggio di rispondere, le corrispondenze intercorse, le frustrazioni espresse dall’autore, gli slanci emotivi, le rincorse disperate, i fallimenti (prolungati) ed i trionfi (effimeri).
Il mondo di Virgili, ci dice Franchini, è un mondo alla rovescia, in cui la possibilità del bene è solo una crepa nell’universalità del male; e proprio in questa sublimazione dello schifo, in questa suppurazione dei sentimenti, risiede il tratto distintivo e paradigmatico di tutti i grandi distruttori. Chi vede aldilà della tenebra immota, fantasticando fanaticamente di lucori rosso-carnicini, di quadri di insondabile oscenità, chi si deterge nella acque paludose della infamia, finisce con l’essere scaricato nella fogna della storia (come l’Eliogabalo artaudiano), nonostante probabilmente abbia dato il contributo più lucido ed analitico alla fenomenologia della (vera) natura umana.
La spersonalizzazione autoriale, lo sdilinquimento del dato umano e personale, la mimesi totalizzante tra vita ed opera è una caratteristica saliente dello scrittore che distrugge; non vi sarebbe necessità alcuna di scegliere il male, preferibile forse, in una prospettiva umanistica, sarebbe porsi aldilà di queste categorie morali, vivere e creare secondo paradigmi propri, ed invece il distruttore sceglie consapevolmente di rovesciare i pilastri su cui è edificata la società civile, non vuole sciogliere il pactum societatis, ma solo insozzarlo e infangarlo per mostrare ai dormienti la bellezza della trasgressione. Ed ogni trasgressione, concetto controverso e contraddittorio per eccellenza, implica la esistenza e l’accettazione di una norma da pervertire.
Tra le pagine composte dai distruttori, non vi sono chiaroscuri; in realtà, a ben guardare, non vi è nemmeno creazione letteraria stilisticamente apprezzabile. Unica cosa che è dato trovare, un borborigma caotico, sordo e ringhiante, colto nel momento in cui schiude le fauci grondanti di bava. Il mondo di cui parla Virgili è un mondo devastato, allucinato, psicotico, in cui il sesso si accompagna inscindibilmente alla violenza, in cui le emozioni servono solo per dare maggiore godimento ai carnefici, in cui la politica diventa estetica ed in cui ogni relazione è destinata ad essere tradita.
Come Sade, che certamente non era avvinto dalla preoccupazione del nitore formale e narrativo, Virgili non si interessa delle “belle lettere”; la costruzione ideologica di un percorso post-celiniano è frutto del dibattito altrui, delle conversazioni intercorse tra critici letterari e funzionari mondadori, ma come rileva lo stesso Franchini, Celine era uno scrittore, coi suoi codici, i suoi parametri, le sue urgenze, Virgili invece era preda del suo istinto. Un flusso senza fine, un oceano nero di odio e frustrazione che alterna stili diversi, linguaggi ora sperimentali ora classici, un dialogo interiore spezzettato dalla malattia e dalla incorenza dell’uomo che si cela dietro quelle righe; dire quanto di Virgili-persona vi sia tra quelle pagine è quasi impossibile, e di certo non più utile del tentare di capire se davvero Sade abbia messo in atto alcuni dei suoi propositi sadici.
Detto in poche parole; Virgili non vive tra i suoi libri, Virgili è i suoi libri.
Una identificazione totalizzante, che non ammette compromesso, tanto che le prime pagine di Cronaca della Fine sono dedicate al tentativo di far riemergere un dato biografico oggettivo di Virgili; e lo stesso Franchini non arriva ad alcuna conclusione, perché ammette che l’opera virgiliana finisce per incarnare una sua propria esistenza, alternativa o meno poco importa.
Non ha senso chiedersi se Virgili sia stato davvero un volontario delle SS, non più di quanto potrebbe averne lo stabilire quanto profonde fossero le ferite inferte alla servetta Rose Keller da Sade.
Virgili, come Sade, disprezza se stesso, ed è ossessionato non dal sesso ma dalla possibilità di enucleare in modo convincente modalità di distruzione del genere umano; Virgili agogna una nuova guerra, tanto che uno dei suoi scritti si chiama La Terza Guerra Mondiale, passa in rassegna conflitti, atrocità, bombardamenti, violenza sadica, spera nel conflitto nucleare. Sade invece, ossessivo ed ossessionato, descrive minuziosamente torture, dolori, sofferenze, giochi di rara crudeltà.
La struttura di La Distruzione è un crescendo che lascia poco alla sensibilità del lettore; si è preda e vittime di questo io narrante che finirà per identificarsi con Adolf Hitler, un Hitler sconfitto e morente che pure vaticina sul futuro e “vede” i conflitti prossimi venturi dal profondo abissale della sua tomba-bunker. Allo stesso modo, Sade, per usare le parole di Maurice Blanchot, aveva saputo fare della sua prigione l’immagine della solitudine dell’universo; la sua narrazione è cruda, stilisticamente ripetiva, quasi mantrica, implica una anaffettività completa, e per quanto i personaggi siano descritti e si muovano in terza persona, si vede l’ombra cupa di Sade intenta a muoversi con pesantezza demiurgica tra le vicende di sangue.
Sia Sade che Virgili (come Hitler, d’altronde) sono degli sconfitti; Sade trascorre gran parte della sua esistenza in carcere, recluso ed istituzionalizzato, sconta una frustrazione crescente, la limitazione coattiva degli spazi e degli orizzonti lo portano a sperimentare forme di esaltato e caotico misticismo (quasi uno stato di trance) di cui le pagine de Le 120 Giornate di Sodoma sono ideale manifestazione.
Quando Klossowski, in Sade Prossimo Mio, paragona la voce sadiana a quella del santo anacoreta Benoit Labre, divenuto famoso perché si cibava dei suoi stessi pidocchi, è assolutamente nel giusto; entrambi sono accecati dall’oggetto del desiderio, da un orizzonte immoto ed immenso che si perde oltre l’immaginazione stessa, esattamente come gli Stiliti o come San Francesco o come San Giacomo. Ripercorrere le vite dei Santi può davvero metterci in guardia su come alcuni meccanismi mentali operino.
Sade e Virgili sono stati degli sconfitti, e dei fanatici, esattamente come i Santi cristiani, impossibilitati a raggiungere la congiunzione col principio di divinità e quindi tentati/coadiuvati dal demonio, lunghe estenuanti tentazioni raccontate in tutti i minimi dettagli quasi con tendenza pornografica.
Come sottolinea Bataille, forse l’unica opera sadiana con intento smaccatamente “letterario” è Eugenie de Franval, per il resto si assiste ad una urlata e disordinata commistione di filosofia, ripetizione semi-rituale e delirio. Sade non narra, non scrive, ma ulula, guaisce come un cane battuto, la sua furia si completa nell’insensata conclusione de Le 120 Giornate, un testo che ha un suo incipit logico, delle iniziali descrizioni letterarie, un abbozzo di trama e che poi invece decade e scade nella brutalità accelerata, una velocità assurda ed immane che trascende ogni possibilità di comprensione.
Dicevo; non importa sapere se davvero Virgili sia stato nelle SS.
Virgili, aldilà di tutto, ha somatizzato quell’episodio storico e bellico, ha introiettato il peso della sconfitta e di un mondo perduto e non può quindi, fantasma alienato disperso in terra nemica, gioire per cose che reputa appartenenti alla sfera umana; vuole situarsi oltre, vuole distruggere per ritrovare la sua libertà e ricongiungersi all’agognato mondo nazionalsocialista, vero o ipotetico che questo poi sia stato..
I suoi Himmler, i suoi Goebbels, sono come i libertini di Sade; una proiezione destoricizzata, avulsa dal reale contesto e delineata lungo linee e paralleli del tutto soggettivi. Poco importa di quelli che verranno dopo, scrivono i coniugi Goebbels e certamente lo stesso Hitler condivide, perché i migliori saranno caduti; ma Virgili viene dopo e deve scontare quella maledizione, e quel bunker di roccia e cemento inghiottito dal vortice di fuoco, dai missili sovietici e dal rimbombare cupo dei panzerfaust, diventa quasi una cella egizia dentro cui cova la più temibile delle maledizioni. Virgili è colpevole di essere venuto dopo, la colpa di vivere, lui lo sa e lo dice chiaramente, tanto che non vorrebbe certo salvarsi quando immagina ecatombi varie.
Di più; non vuole nemmeno che di lui, della sua memoria, della sua figura resti traccia. L’ultima riga de La Distruzione recita; “la mia stessa morte Mut zum Abgrund come non fossi mai nato”.
Lo stesso Sade, nelle sue disposizioni testamentarie raccolte e tramandateci da Apollinaire, si perita affinchè della sua esistenza non rimanga traccia alcuna, fornisce precise disposizioni affinchè la sua tomba venga coperta da querce e da altri alberi, volendo eliminare per sempre la vista di quella tomba e per tramite della tomba, della sua memoria. “Come io mi lusingo che la mia memoria scompaia dalla memoria degli uomini”, dice.
Entrambi confinati nella loro condizione di prigionieri, sia Sade che Virgili non possono fare altro che sperimentare la sublimazione frenetica dell’odio; solo odiare li rende vivi, quel pulsare cattivo e che imperla di sudore la fronte, quelle visioni abbacinanti d’inferno da descrivere didascalicamente, quasi a voler erigere un sistema filosofico piuttosto che un capolavoro letterario. Tanto che Klossowski tenterà di delineare delle similitudini tra la filosofia hegeliana e lo spirito sadiano, pur nella diversità assoluta di coerenza logica.
Come scrive Franchini a proposito di Virgili, “leggendo si capiva subito che l’autore non era né uno di quei versatili professionisti né uno di quei pacifici depravati che attingendo ad una loro propria interna segreta controllata attrazione per l’orrore, sono capaci a seconda del caso e delle circostanze, di ricostruire dal di dentro la psicologia di un nazista, di un terrorista, di un serial killer…leggendo chiunque poteva capire che quello scrittore quell’uomo doveva essere lui stesso il mostro”. E nonostante nelle pagine successive emerga un ritratto umano di Virgili decisamente meno crudo e sadico di quanto si potrebbe pensare (soprattutto nel capitolo conclusivo, in cui si trovano dei lati della personalità dello scrittore bolognese decisamente sorprendenti), questa notazione di Franchini è lucida ed esatta; perché come ho detto più sopra, non si può prescindere nel parlare del Virgili-uomo dall’analizzare la furia della sua opera.
D’altronde la vita di Sade non fu particolarmente scellerata, non certamente più perversa di quella del nobile medio del suo tempo; anzi, in una certa misura, il Divin Marchese si rivelò una persona di buon cuore, attento alle esigenze altrui, prodigo di consigli e di attenzioni. Addirittura non si vendicò della suocera, che pure gli aveva recato indicibili tormenti e sciagure, quando ne ebbe occasione. Ciò nonostante, Sade è un mostro. E’ lui stesso a voler tramandare la vulgata della sua mostruosità morale; non esistono quadri, dipinti, affreschi che lo raffigurino, ma solo alcune miniature una delle quali fu rubata (curiosa coincidenza) da un milite delle Waffen SS durante l’ultimo conflitto mondiale.
Farsi passare come mostri, paradigmi di un male assoluto, è stato sia per Sade che per Virgili un utilissimo escamotage per raggiungere una liberazione, quasi quella mohksa promessa ai suoi fedeli dalla religione hindu; costruendo faticosamente, e nel sangue, un sistema di lerciume, di sofferenza, di martirologio profano ed affogando poi se stessi in quella palude riuscirono a sperimentare magari solo parzialmente una autoaffermazione. Più facile sarebbe stato seguire un sentiero nietzschano di indifferenza per i valori dogmatici, per il bene e per il male; ma in quel caso, non avrebbero avuto riconosciuti i loro sforzi e non sarebbero stati compresi. Ed in una qual misura accettati. In fondo, ogni carnefice ama la sua vittima e quando la uccide, uccide una parte di se stesso.
Non mancano, come acutamente rileva Franchini, “casi analoghi di teorici della ferocia e della oltranza ideologica, caratterizzati spesso, sul piano fisico e personale, da manifestazioni anche accentuate di fiacchezza e mestizia”; non è una mera questione di palliativi e catarsi, di frustrazione sperimentata e vomitata con esito liberatorio attraverso moduli narrativi. Non mi riferisco a quella liberazione, che non potrebbe prescindere dalla realtà effettiva.
La liberazione è quella dalla condizione di prigionieri. Una sindrome di Stoccolma esistenziale che fa combaciare la ristrettezza delle prospettive e degli orizzonti con una piena focalizzazione del proprio Io; tanto che un altro grande Distruttore, Albert Caraco, nel suo Post-Mortem, arriva a scrivere “il mio giudizio volge all’apoteosi e io mi lascio catturare dalle visioni che suscito, sono prigioniero e me ne felicito come non mai”.
Per esserne consapevole, consapevole di quella felicità, ha comunque dovuto scriverlo, cristallizzare quelle impressioni e quelle emozioni a mezzo di scrittura su carta, altrimenti si sarebbe limitato a percepire dentro di sé il ringhio sordo di un’anima morta.
Virgili e Sade hanno la stessa urgenza, cercano la medesima “felicità”; il primo è ossessionato dalla pubblicazione, vuole vedere stampato il suo libro, tanto che arriverà poi nel caso di Metodo della Sopravvivenza a farsene rilegare e stampare alcune copie in proprio. Non è la solita ansia da esordiente, e lo si capisce soprattutto nella parte conclusiva quando Franchini parla della sua conoscenza diretta con lo scrittore bolognese.
Il secondo invece “piange lacrime di sangue” quando il manoscritto de Le 120 Giornate va perso a seguito dei tumulti della Bastiglia; sarebbe certo esperienza emotivamente devastante per qualunque letterato, non ne dubito, ma per fare un esempio basterà qui ricordare la vicenda del manoscritto del poema “Il più lungo giorno” (considerato il nucleo fondante dei Canti Orfici) di Dino Campana, manoscritto consegnato a Soffici e Papini e che questi persero. Campana soffrì moltissimo di quella perdita, fino ad esserne esasperato ed esacerbato,. ma ciò nonostante riscrisse il tutto (e curiosamente oggi si considera la riscrittura come decisamente superiore all’originale, che fu ritrovato negli anni settanta). Proprio perché era un letterato e conosceva la disciplina del sistema.
Al contrario Sade, che non è un letterato o che almeno tale non vuole essere, si sente perso, solo e nudo davanti al dio rovesciato che egli stesso ha partorito, riscrivere tutto non gli passa nemmeno per il cervello, non ne ha voglia né possibilità.
Il motivo è semplice; la creazione letteraria in Sade e in Virgili va di pari passo con le loro esistenze, è un processo lineare, per quanto moralmente contorto, e la mancanza del prodotto creato è una sorta di profonda ferita. Un vulnus spirituale pesantissimo.
Non c’è una logica precisa in questo, mi sembra evidente; è il caos a vigere nel modo più puro ed assoluto. Per dirla con il Caraco di Breviario del Caos, “nel caos in cui sprofondiamo vi è più logica che nell’ordine, l’ordine di morte in cui ci siamo mantenuti per tanti secoli e che si disgrega sotto i nostri passi automatici”.
E questo ci porta a parlare della sovrastruttura ideologica legata ai due autori; perché in effetti non è mai mancato un dibattito squisitamente politico su entrambi. In fondo Sade visse i fermenti della Rivoluzione Francese, Virgili invece è considerato autore dell’unico romanzo apertamente nazionalsocialista del panorama letterario italiano, e quindi di materiale infiammabile se ne trova a bizzeffe. Tuttavia sarebbe risibile limitare il campo di azione ad una qualche ideologia realizzata e/o “reale”, perché come si è detto ci troviamo al cospetto di due nichilisti individualisti che la loro politica se la costruiscono e se la giocano nel corso del processo creativo.
Non è quindi una questione politologica, ideologica in senso stretto, di adesioni o di convinzioni espresse o non manifestate. Importa poco sapere cosa Sade pensasse di Robespierre o per quale partito il vero Virgili simpatizzasse.
Tanto gli uni quanto gli altri partono da un piano logico-argomentativo del tutto inaccettabile; non hanno capito, o forse non si sono sforzati di capire, che il male accettato ed elevato a supremo signore da parte di Sade e Virgili è frutto del senso immane della sconfitta e della mancanza di libertà. Non una conseguenza della loro ideologia, ma discendente direttamente dalla rovinosa caduta di quella ideologia.
In questo aveva perfettamente ragione Gianfranco de Turris che in un coraggioso, ed isolato, articolo apparso su L’Italiano manifestò apprezzamento, e genuina comprensione, per le motivazioni sottese a La Distruzione.
Perché il libro di Virgili non manifesta un nazionalsocialismo storicizzato, contestualizzato, rigoroso e accademico, manifesta invece un nazionalsocialismo interiore, personale e soggettivo, interrelato ontologicamente alla sua esistenza. E da ciò emerge il senso del disgusto, che Franchini riprendendo le parole di Parazzoli cita più volte, il senso assoluto di una vertigine di isolamento, anomia e morte.
Circondanto da un mondo che non riconosce come suo, Virgili va alla deriva. Esattamente come il Caraco di Post-Mortem, quando in conclusione di libro arriva tragicamente a domandarsi “Ho vissuto, io? Non lo so proprio, la mia vita non è stata altro che una pagina non ancora scritta e, vicino alla cinquantina, tutto quel che me ne resta sono solo dei fogli imbrattati di inchiostro”. E Virgili non invoca forse un curioso “tornare al 1945”, messo nero su bianco a pagina 204 de La Distruzione ?
Ideologicamente nessun uomo sano di mente e coerente, legato al nazionalsocialismo, agognerebbe di tornare all’anno della sconfitta totale, mi sembra ovvio e palese; spererebbe di poter tornare al 1933 o ancora prima, per vivere l’intera epopea hitleriana. Non certo nell’anno in cui la Germania e l’Europa, per dirla con Drieu La Rochelle, se ne va spazzata via ai quattro venti…
Ma è questo il punto; Virgili si percepisce come non.-esistente perché chiamato a scontare il peso allucinante della sconfitta. Preferisce farsi tumulare sotto i bombardamenti alleati su Dresda o nella disperata difesa di Berlino, vorrebbe consumarsi la carne e lo spirito tra le volute di fumo e fuoco che sovrastano i profili austeri del Reich agonizzante, sconfiggendo così la maledizione che grava sulle sue spalle.
Virgili, il Distruttore, è figlio di una Distruzione.
Forse una delle più catastrofiche che il genere umano ricordi. E a ciò assomma la damnatio memoriae di cui si è fatto oggetto il regime hitleriano, non solo sconfitto militarmente, ma processato a Norimberga e certificato nei libri di storia come simbolo universale di infamia.
Il Mostro è vittima di quel clima. Diventa Mostro perché altri ce lo hanno fatto diventare. E adesso lui si comporta di conseguenze, se ne bea, ne gode.
E tutta la sua vita, la sua non-esistenza, diventa una lussuriosa, pesantissima cronaca della fine.