lunedì 26 luglio 2010

Invisible Lives / Brazilian Street Girls - Leticia Valverdes


Claudio Camarca e "I Santi Innocenti", Marie-Fance Botte e i suoi "bambini di vita", Kent Klich e i vari mocciosi malati di AIDS privi di ogni futuro e residua speranza, Stephen Shames e le ossessioni umanistiche di solidarietà ed amore per il prossimo (necessariamente vessato), Olivia Gay e il realismo esasperato degli scatti sessualizzati - nulla di meglio, quando finiamo a parlare di arte intrinsecamente pornografica, di umanisti allo stadio terminale.
Di quegli artisti, fotografi o giornalisti o scrittori, che vogliono convincerci di quanto male e di quanta sofferenza regnino sovrani nel mondo.
Epifanie tailandesi di blowjob dentro scassate capanne in riva al mare, orde di tedeschi obesi dediti a gare di sborrate in faccia a ragazzine tailandesi, sbronzi, verosimilmente strafatti, paonazzi in viso e sudati, consumano le loro scopate frugali tra kleenex lerci, zanzare, puzzo di sudore e piscio, macchie in espansione di sperma, dietro quattro assi di legno traballante e una tendina di pessimo gusto, ultima frontiera prima della totale distruzione della dignità - MarieFrance Botte ne soffre, eppure, sia pur piegata in due dai conati e dal disgusto e dalla empatica condivisione di sofferenza con le ragazzine vittime, mantiene quella lucidità necessaria per raccontarci in ogni minimo dettaglio le gang bang di questi laidi turisti sessuali.
(In)degna carrellata di atrocità parapornografiche; colloqui dolorosi con pedofili malati di AIDS, con genitori intenti a vendere i figlioletti, squarci di paesaggio d'inferno, le povere ragazze che nel rogo del bordello in cui erano segregate e costrette a prostituirsi rimasero incatenate al letto, e furono ritrovate dai pompieri in guisa di tizzoni ardenti; carne bruciata ed urlante, senza alcuna via di scampo.
Kent Klich, lo sapete, si sente ardere dal sacro fuoco dell'indignazione (no pun intended), è straziato da quei volti infantili devastati dal sarcoma di kaposi e dalle aride stanze degli orfanatrofi socialisti, eppure rimane fermo, immobile, col dito premuto sulla macchina fotografica per darci una testimonianza di amore e fratellanza con sopra stampato il codice ISBN e il relativo, non modesto, prezzo.
Leticia Valverdes aspira ad essere, al tempo stesso, emula di Stephen Shames e di Olivia Gay; di Shames, epigona concettuale, battagliera pasionaria pronta a mettere sul tavolo le nude carte della realtà brasiliana, la stessa carica di furiosa indignazione. Della Gay invece riprende certi stilemi tecnici, certe pose, certe riprese, certo iper-realismo virtuosisticamente colorato.
Invisible Lives/Brazilian Street Girls ha un tocco morbido e soffuso di disperazione obliqua; chi ha familiarità con l'opera di Salgado, non potrà non notare certi sguardi che tornano, certi corpi flessuosi e di scarna povertà, messi lì a tradire il simbolismo dello sfacelo, della miseria, interni di case abitati da famiglie estese.
Ma a differenza di Salgado, nell'opera della Valverdes di redenzione se ne intravede poca; in fondo, per convincerci del male, per farci stare davvero male, per renderci empaticamente complici di sfruttatori capitalisti e maiali sessuali l'unico modo è andare dritti per la strada della nefandezza compiuta. Ma scattando in maniera tecnicamente ineccepibile.
Così la fotografa brasiliana, convenientemente, bandisce ogni traccia di allegria, di umanità; d'altronde una vita per essere evocata dall'invisibilità deve essere dipinta in maniera accesa, vivida, in modo tale che colpisca la nostra immaginazione e soprattutto la nostra pancia. Fotografia di ventre, di istinti bassi. In linea perfetta con gli umanisti d'assalto, produttori di grandiosa pornografia per noi degenerati.
Ma la Valverdes ha un'idea geniale, seconda solo a quella di Camarca quando si finge pedofilo per portarsi in albergo una prostituta minorenne: vuole ridare la percezione della propria immagine a queste sfortunate figlie del Brasile. Costrette a vedersi deformare da specchi sporchi e dalle vetrine di negozi a cui non potranno mai avvicinarsi, le fornisce di trucco, make-up, vestiti dignitosi e facendo leva sui loro istinti infantili e civettuoli le rende modelle, più o meno, consapevoli di scatti in cui produrre il trionfo della...identità.
Da sempre a quanto pare una fissazione della fotografa, l'identità qui diventa un esercizio di stile e una crudele messa in scena del tono kitsch e grottesco (exploitation) con cui queste ragazze, ingenue, povere in canna, disposte praticamente a tutto, si genuflettono agli scatti socialmente consapevoli dell'autrice del photobook.
Praticamente, un supermarket di annientamento emotivo.

Hate Parade




Invoca la pace, ed avrai la guerra.
Guerra nel fango, sotto un cielo livido carico di nuvole, lungo una linea d'orizzonte tremolante e scossa dai bassi elettrici intenti a propagarsi sulla pelle raggrinzita di musicisti eternamente giovani- il motto di Von Salomon lontano dalle garitte e dalle trincee e scolpito a sangue sulle carni dei ragazzi festanti, un rito collettivo tramandato di generazione in generazione e riesumato di peso per logiche di mercato.
E per l'amore, certo.
Nel 1994 la violenza fu episodica, esteriore, una battaglia di fango e chiazze di sangue, qualche approccio sessuale rubricato come violenza e/o molestia, qualche incisivo saltato - in the name of Love.
Nel 1999 le cose si fecero più serie e il mosh diventò la sublimazione precisa di guerriglia urbana, tra alcolici, droghe, ormoni impazziti, nichilismo da stagediving ed estasi elettrizzata di una folla priva, decisamente, di alternative migliori. Americani a briglia sciolta, nel teatro di Rome ma senza Colosseo nè, celinianamente, pani e circo; nessun gladiatore, solo i pessimi Limp Bizkit, cazzomoscio nomen omen, a soffiare sul fuoco e ad incitare per il loro quarto d'ora di celebrità gli scavezzacollo del mosh pit a frantumarsi le ossa tra pogate e salti piroettanti, nessun derviscio solo baccanali di ginocchia frantumate e qualche tizio in coma. Portato via da barellieri stanchi morti, sotto l'afa irreale di un cielo di piombo. Per l'amore, anche qui.
Un milione di persone. Forse di più.
2010 - strade tedesche ordinate anche se la teknoparade avanza lenta, un serpente di carne sbronzo che barcolla e caracolla e tracima devastando il decoro urbano, non le droghe, non gli alcolici ma la massa nel suo complesso è il problema; una massa non ama, è muta, cieca, sorda, nera ed insensibile, si trascina avanti per abitudine, per mera fisiologia, come risposta al tanto amore invocato.
Amatevi tutti, schiacciati, frollati, gli uni sugli altri, muraglia di corpi sanguinanti, corpi maschili, femminili, pieni di droghe o sobri, disidratati, sudati, magri o grassi, belle ragazze insanguinate con le rotule fatte a pezzi dagli stivali borchiati di qualche fetish starlette, la parata avanza minacciosa, inarrestabile, un fiume nella stagione delle inondazioni, i pochi che comprendono cosa sta accadendo non possono fare nulla, devono continuare come zombie nella loro marcia, incastrati da corpi alla loro destra alla loro sinistra davanti dietro di loro, le autorità sono allibite e contemplano silenziosamente il massacro che battiti techno e glorificazione dell'amore materializzano davanti i loro occhi - sbarrati.
Le urla di sofferenza si perdono nel delirio musicale, le contorsioni di dolore si mescolano ai saltelli vitalistici e drogati di gioia - un paradiso artificiale di idiozia, di inconsistenza, di buone intenzioni molto opportunamente mandate al macero. Chi piange e chi strepita, chi sorride, chi amoreggia, chi invoca soccorsi che non potranno mai arrivare che non potranno mai fendere il muro di carne, chi evita la polizia, chi si arrampica sui carri, chi è costretto ad avanzare verso il tunnel sapendo che quella tenebra a breve inghiottirà la sua esistenza immagina il caldo le persone ammassate sfidando ogni legge fisica e logica, nessuna via di fuga, la doppia confluenza dei cortei rende impossibile la ritirata la fuga.
Bisogna andare avanti.
Camminare in linea.
Come sulla strada per un campo di sterminio, eretto frettolosamente per celebrare...l'amore.
Amatevi tutti mentre varcate la soglia di quel tunnel cittadino. Amatevi come solo un corpo fuso dentro un altro può fare. Mentre gli occhi iniziano a lacrimare, il respiro a farsi affannoso, mentre si prova dolore per il senso di oppressione di finitezza di claustrofobia per i corpi che si schiacciano e si comprimono come su una centrifuga impazzita. La pressione cresce, aumenta, diventa insopportabile, e il caldo non aiuta - chi cade, è finito.
Letteralmente.
Non esiste spazio fisico per tirarlo su, diventa, per la propria sopravvivenza, necessario passargli sopra; c'è chi tenta di evitare i caduti sul selciato, ma è impossibile. Ed allora il fiume umano li travolge, gli passa sopra, li maciulla rendendoli una poltiglia sanguinante di carne macinata.
L'amore non abita più qui.

domenica 25 luglio 2010

American Campgrounds, di Philip Best


Sulla strada, accadono cose bruttissime - dimenticate la beat generation, la celebrazione del viaggio e degli spazi sconfinati, le pompe di benzina e le foreste e le montagne e le città che hanno colonizzato deserti inospitali, dimenticate la speranza e la certezza di una qualche gioia, dimenticate l'azzurro del cielo l'ocra delle montagne rocciose il verde smeraldino del Vermont e del Colorado, le pubblicità sorridenti ed irridenti di vari fastfood, storie di camionisti e il peso invisibile della Frontiera.
Shasta Groene sa cosa significa viaggiare. Sua madre, il patrigno e un fratellino massacrati a bastonate da un predatore sessuale, Joseph Duncan, con alle spalle una lunghissima storia di precedenti specifici per molestie sessuali in danno di minori ed omicidi e stupri, lei e un altro fratello rapiti e portati dietro dal "mostro", come trofei per variazioni sul tema sessuale; una storia moderna di schiavitù, e di viaggio.
Non una esperienza di crescita e di liberazione ma al contrario di degrado, ossessione omicida, umiliazione ed espiazione, ogni chilometro percorso come metafora di un avvicinamento sensibile alle porte d'inferno.
Philip Best, ricorrendo all'arte del collage, giustappone immagini che richiamano alla mente la ferinità della natura umana, ritagli di giornale, scenari apparentemente di sogno, tempeste e spazi urbani, uno studio da bestiario medievale, corredato da uno scritto, Bodyguard, di Peter Sotos. Antica arte del collage, via magica per raggiungere la gratificazione istantanea - non tecnica, ma sostanza.
Dimenticate Jung, sincronie, Lacan, paranoia-critica, surrealismo e Dalì; si va dritti all'osso, alla gaudente e piangente celebrazione della bestia che vive nell'uomo, ogni volto è un cono d'ombra, argilla screziata da mestruazioni apocalittiche. Un commento per sadici allo stadio terminale, una tenera carezza al corpo putrefatto di una starlette porno - non c'è futuro per chi si incammina.
La lunga marcia del nostro scontento.

The Complete Peter Sotos










"Nulla di così spaventoso ed oscuro; mi sono divertito parecchio. Uccidere è un'esperienza divertente"

Albert De Salvo
"Più guardavo la gente, più ero spinto ad odiarla"

Charles Starkweather
"Non ho perso il sonno per quel che ho fatto"

Dennis Nilsen


Una sovrapposizione di frammenti - di esistenze e di dolore.
Un caleidoscopico arcobaleno di personalità infrante, emozioni, epifanie sofferenti, carni straziate e la baluginante immagine di una madre piangente, la madre universale che si trascina stanca ed affamata tra i palazzi di edilizia popolare trascinando un carrello di Walmarts, tra aliti di vento putrido e i neon dei locali porno, il RAM un tesoro della cultura gay pompini da un quarto di dollaro e libri di Samuel Delaney, pornografia straziante elevata a trionfo catodico Geraldo Rivera Oprah Maurizio Costanzo Barbara d'Urso Jerry Springer.
Che cosa provi ?
Chiesto ad una madre che piange la morte della figlioletta.
Che cosa provi?
Dimmelo mentre balli. Ma prima, per favore, aspetta che siano andati in onda i consigli per gli acquisti.
L'untuosa ingorda consistenza dell'ipocrisia televisiva, casalinghe smutandate annoiate dai club privè i conti di fine mese per ragionieri e direttori editoriali problemi di share e di battuage a Valle Giulia, non c'è più la redenzione di un Pasolini per i cazzi balcanici, scandali ecclesiastici pedofilia di provincia e genitori che vendono i figli per degradanti parties di nonni poco caritatevoli.
Ogni frammento incastonato delicatamente nel quadro generale, come petali di una rosa coperta di merda di cane; ogni residua speranza evaporata, ogni illusione defunta, frollata, deturpata. Madri che piangono, madri che impazziscono, madri che si illudono, madri che cercano conforto tra psicofarmaci e televisione, gossip e cronaca nera. Un ordine necessario per arrestare il declino, per tamponare la spugnosa consistenza dell'ossessione maniacale; Peter Sotos ha visto giusto, e ben prima delle tardive ed ipocrite flatulenze verbali di Andrew Vacchs o di Carlo Lucarelli.
Dimmi che cosa stai provando.
Ora.
In questo preciso momento.
Ora che il tuo pargoletto giace sotto tre metri di terra. Dove sono i libri di Moccia, le inchieste televisive, le Veline e la campagna acquisti della tua squadra del cuore, quel sistema organico di autoinganno, la via di fuga da una realtà priva di sostanza e di...realtà.
Peter Sotos scrive di realtà.
La realtà, poco piacevole, di un delitto eterno, assoluto, eretto a paradigma sadiano di una trasvalutazione dei Valori, la realtà che come un fiume di letame ci scorre sotto il naso per strada mentre noi, convenientemente, voltiamo lo sguardo dall'altra parte, cercando miseramente di confondere gli odori della morte con profumi dozzinali e lo spirito vaga nomade per una Disneyland dello spirito.
Va tutto bene, ci dicono.
Ma no - lo sappiamo, o meglio dovremmo sapere che non va tutto bene, che questo cazzo non è il migliore dei mondi possibili. Basta saper accettare la triste e tetra verità, per potersi gratificare; l'opera di Sotos è una glorificazione della personalità, un'enfasi addolorata per le emozioni estreme di parenti e vittime, la messa a punto sistematica della verità, il coltello che sventra la coltre di convenienti menzogne. La menzogna che ci rifriggiamo quando abbiamo paura di certi nostri impulsi.
La collezione in unica soluzione di tutte le opere di Sotos ha senso proprio per mettere in riga l'evoluzione, o l'involuzione, della sua visuale spietata sul mondo moderno; non una metafora ma uno schizzo di sperma sul faccino candido di un morto ammazzato, eternato sulla carta scolorita bianco/nera di un quotidiano popolare, tra titoli enfatici e un dolore azzimato buono per qualche carosello pubblicitario intrinsecamente metapornografico.
Dai roboanti esordi di Pure fino alle opere più recenti, come Lordotics, Show Adult e Kept, la totale chiusura verso l'esterno, l'ossessione che si fa assoluta, la masturbazione ossessiva, la creazione di un grado di pornografia purissima, un afflato circolare che spinge alla tentazione di dipartita dalla condizione umana; osservatore, partecipe, commentatore, masturbatore, sadico ormai socialmente consapevole, ironico, beffardo, cinico e crudele, Sotos è ciò che Dennis Cooper vorrebbe essere ma senza poesia, scrive ciò che oltraggia e soddisfa Vacchs, la conferma di carne e inchiostro delle fobie del mondo moderno, uno squarcio longitudinale nelle prigioni di asfalto e luci notturni tra pompini nei gloryholes e stralci di giornale, collezioni maniacali di storie sordide. Ritagli e foto di ragazzini massacrati, una fanzine idealmente elaborata come punto di congiunzione tra scrittura, processo creativo e orgasmo, progetti abbandonati e occultati nei cassetti metaforici e meno metaforici del piacere individuale, la pubblicazione come esperienza collaterale e incidentale.
Ogni parola è cesellata, pur senza organico editing; la reiterazione è costante, mantrica, eppure efficace. Comfort & Critique il miglior libro true crime senza enfasi sul crimine, voragine aperta interamente a mostrarci l'appropriazione la reificazione del quotidiano da parte di Sotos la giustapposizione di episodi di cronaca nera l'ipocrisia dei media l'allontanamento da Whitehouse idiosincrasie e ironia cupamente nera. Divertimento a spese dei creduloni.
In Kept, il libro moralmente più simile a Comfort, troviamo la stessa struttura di narrazione per immagini, un simbolismo sessuale chiaro solo all'autore mentre noi non possiamo che procedere a tentoni ed elaborare teorie ben chiare solo a Barbara d'Urso e alle sue interviste strazianti. Meccanismi di pornografia catodica e mediatica. Lacrime e schizzi di sperma, sangue e prostitute di strada.
Il declino è la costante della nostra civiltà. Sotos scrive di occasioni perse e orgasmi faticosamente raggiunti. Una umanità costantemente impegnata a perdere dignità, esibizione di emozioni intime a beneficio di segaioli rispettabili. Ogni casalinga è una pervertita, tanto amore richiesto e invocato per finire poi ad eccitarsi con le ricerche spasmodiche per l'ennesimo ragazzino scomparso. Una discesa in accelerazione, verso il magico punto di non ritorno in cui dignità è concetto privo di qualunque sostanza. Epifenomeno di una masturbazione collettiva, gang bang di morte e strazio.
Che cosa provi?
Adesso.
Dimmelo.
Ora che tua figlia è scomparsa.
Nutri l'irrazionale speranza di riabbracciarla, di rivederla viva. E preghi il signore affinchè non le sia capitato nulla di terribile, non puoi nemmeno razionalizzare l'ipotesi che sia finita nelle mani di qualche sadico bruto. Costruisci fantasie di inusitato candore, per evitare di dover impazzire. Spazi e interstizi bui, da cui la consistenza scintillante del dolore (e della consapevolezza che arreca dolore) sia bandita.
Peter Sotos getta luce. Su quegli interstizi. Spezza illusioni.
E facendolo, gode.

martedì 20 luglio 2010

Il Mostro di Firenze - TV


L'ineffabile duo Michele Giuttari/Carlo Lucarelli non aveva trovato di meglio, per nettarsi la coscienza sufficientemente lorda di denaro e polvere di stradine sterrate, che dedicare il saggio/romanzo di matrice true crime Compagni di Sangue alle giovani vite stroncate dal Mostro di Firenze.
Nella migliore tradizione dei case studies alla amatriciana, non poteva mancare un accenno di pietas e di moralismo veterolombrosiano; ed è così che ogni singola vittima diventa un angelico essere sceso dal cielo, un punto di contatto e collegamento tra le virtù teologali e una esistenza morigerata, consona all'elevazione alla santità. Si piange il sangue versato, e si ricordano le sensibili lacrime eruttate, in quel frangente storico di depravazione e giovani vite stroncate -i colpevoli, presunti o effettivi, in punta di sentenza o di sospetto, dipinti con le tinte fosche di un Bruegel toscano, tra aridi cespugli di rovi, paesi acciottolati lungo le vallate cariche di vigne, spari nella notte e voyeurismo spiccio. Una pornografia (stra)paesana punteggiata di scenari foschi e di individui riprovevoli, fisicamente, caratterialmente, moralmente.
Hanno facile gioco i due nel tratteggiare un contrasto, evidente e facile, tra i momenti di amore divertimento condivisione emotiva e sentimentale di giovani toscani (o turisti stranieri), alla ricerca di uno spazio di propria intimità, e la bestialità satanica e notturna di un voyeur che, nascosto tra gli alberi e le pieghe della tenebra, li spia li brama li concupisce e poi li uccide e scotenna seguendo le direttrici di un macabro rituale.
Adesso Canale5 ripropone lo sceneggiato televisivo già andato in onda su Fox Crime e diretto da Antonello Grimaldi, focalizzato sulla ricostruzione dei fatti e delle indagini; pur con alcune licenze (poetiche?), la sceneggiatura cerca di essere fedele il più possibile alle carte processuali e alle farraginose indagini che battendo alla cieca per anni videro le piste più improbabili chiamate in mezzo. Dalla criminalità sarda, notoriamente presente sul territorio toscano, a pecorecci e piccanti episodi di devianza esoterico-sessuale; un carnevale al limite del patetico di prostitute, impotenti, guardoni, esoteristi della domenica, artisti falliti, per cui si raccomanda a chiunque una lettura avida degli atti processuali.
Il dolore è un buon soggetto. Screziato di sangue, e polvere. Minimalismo esistenzialista dettato dall'agenda di un serial killer -una mano anonima, nascosta dal nero della notte; un'aura dannata e romantica che aleggia su coppiette amoreggianti, un incubo di piombo e lame affilate, di escissioni e sventramenti, feticci carnali, tette e il pube asportati con frettolosa ma meticolosa precisione. Gli autori del serial sapevano cosa raccontare, e come raccontarlo.
Pietà posticcia per determinare empatia; ma non un grado così elevato di empatia da poter far preoccupare le donne di casa. O forse sarò io ad essermi allontanato troppo dal sentiero della umanità. Non so dirlo.
So però che i trucchetti per incutere timore sono elementari. E contraddicono la realtà fattuale - essendosene accorta pure Wikipedia, rimando alla pagina ufficiale per un elenco sia pur sommario delle licenze poetiche e delle imprecisioni, che non a caso finiscono con l'essere funzionali ad una migliore riuscita dell'elemento suspence.
Pure la caratterizzazione dei personaggi principali è pensata e realizzata per ottenere un effetto emozionale diretto, senza tanti articolati arzigogoli. Basta pensare alla giovanissima procuratrice costretta, suo malgrado, ad indagare su vicende tanto atroci; sembra piangere in ogni ripresa, turbata, intimorita, piegata dal dolore e dalla morte assurda di tante giovani persone. Memorabili la scena del pacco contenente il seno di una delle ragazze ammazzate e quella del rinvenimento del corpo della prima vittima, nel folto dell'erba; Nicole Grimaudo sembra sempre sul perplesso e accigliato baratro della rottura psicologica, sull'orlo del pianto, e dello strazio. Mentre Vigna (un imperscrutabile ma decisamente fuori ruolo Bebo Storti) più che caldeggiarne l'operato o tentare, sia pure con giusta risolutezza, di motivarne le non facili scelte inquisitorie legate alle indagini, sembra una presenza fantasmatica, grottesca, un notaio dall'algido portamento totalmente privo di quella sanguigna verve che gli è stata comunemente riconosciuta da collaboratori e nemici.
In assoluto il personaggio più controverso è quello interpretato da Ennio Fantastichini; il padre di Pia Rontini, penultima vittima del Mostro, uccisa col suo ragazzo il 29 Luglio del 1984, nelle campagne circostanti Vicchio nel Mugello. Seguiamo la lenta, angosciosa, inconsapevole discesa nell'inferno privato di questa famiglia, lui lavoratore a Livorno, lei madre apprensiva di origini danesi, la figlia ancora ragazzina da poco impiegata come barista. La storia di Pia Rontini è senza dubbio una delle più toccanti e particolari tra le varie storie personali delle vittime del Mostro; perchè la ragazza, nonostante fosse stata colpita dai proiettili, venne trascinata fuori dall'auto e mutilata quando ancora era viva, in secondo luogo perchè il padre, lacerato letteralmente dal dolore, si impegnò fin dai primi giorni successivi alla morte della figlia in una instancabile opera di indagini private e di tentativo di onorare la memoria della figlia scomparsa. Fino all'oltraggio ricevuto nel 1994, quando le due croci bianche da lui piantate sul luogo del delitto vennero divelte da ignoti.
Che cosa rende grande un killer seriale?
Che cosa spinge a nutrire nei suoi confronti un senso profondo e morboso di fascinazione?
Molto semplice; l'ignoto.
Fino a quando il Mostro, qualunque Mostro, rimane nell'ombra, una presenza sinistra e sfuggente, priva di una effettiva connotazione umana, possiamo eleggerlo quale rappresentante (e rappresentazione) malevola della cattiva coscienza, delle passioni più incoffessabili. Adornarlo pure di un qualche senso di aristocratico e romantico compiacimento. ma quando la maschera cade, rivelando la vera consistenza umana dell'assassino, quando si celebra un processo, quando i retroscena più meschini bassi volgari patetici emergono, diventa difficile continuare a provare una qualche forma di rispetto per l'assassino.
E' il mistero ad aver reso grande Jack lo Squartatore; non è stato nè il primo serial killer della storia, nè il più efferato nè il più prolifico. Ma semplicemente non è mai stato preso nè davvero identificato; la gente ha potuto continuare a fantastica, ad immedesimarsi, a tentare una spiegazione, figurandoselo come un decadente demonio in tuba e marsina nera.
Ma se al contrario Jack si fosse rivelato un Pacciani qualunque, avrebbe perso almeno l'ottanta per cento del suo fascino.
Ed è questo il problema col Mostro di Firenze, e con le rappresentazioni (televisive o narrative) del Mostro. Fino a quando rimane nell'ombra, suscita ed incute timore; successivamente, diventa solo una miseranda sfilata di miserie umane.

domenica 18 luglio 2010

Blu come il sangue




Era inevitabile.
Esultate casalinghe, perchè la vittoria è vostra - a furia di scrivere compiaciute e timorose lettere alla posta di True Crime, a forza di inanellare share tripudianti di veline e teste maciullate, nell'ombroso punto di incontro tra criminologia accademica, file dentro le aule di tribunale e masturbazione davanti alla casetta di Olindo Romano e Rosa Bazzi, avete raggiunto ciò che da tempo vi eravate prefissate; l'organica commistione tra gossip e cronaca nera, quell'afflato giulivo, profumato di spezie esotiche, da tramonto romano al Circolo Canottieri, discorrendo amabilmente di ville in Toscana e stupri di gruppo.
La gang bang del crimine, una buona società fatta di centrini in pizzo e piccozze insanguinate ordinate per posta a Silling postal market del comportamento deviante, Durkheim a lezione da Marta Flavi - Lombroso non vi ha insegnato nulla, e nonostante questo siete voi ad uscire trionfatrici dalla battaglia per la conquista della egemonia culturale.
Gramsci non aveva capito nulla; la risposta è, ed è sempre stata, nelle tette di una starlette morta piangente e suicida nella sua stanza di albergo, lontana dagli affetti familiari, dal calore umano di un sorriso, di una pacca sulle spalle, di un bacio tenero e prolungato.
Drive-in e Waco, i proiettili, Charles Manson, gli stupri di Polanski, bambini abbandonati denutriti malati di AIDS, un vestitino rosa per occasioni di festa; anche il massacro ormai ha il suo bon-ton, i suoi ritmi, i suoi schemi prefissati dalla buona società, le lacrime di chiffon e il profumo, della morte, che non è più afrore da camera autoptica ma celebrazione gaudente di Vogue e Vanity Fair.
E' passata la tempesta; non avete più timore nel dichiararvi estaticamente avvinte dall'ultimo omicidio, non vi fermate perplesse ed ansimanti, col fiato mozzato e gli occhi incupiti, ad invocare la sapienza dell'oracolo Picozzi.
Ormai, un cadavere frollato rinvenuto tra le frasche ha quel retrogusto dolce di una esterna di Uomini & Donne, lo stesso candore virginale; siete state ben educate dalle sonatine malinconiche di Studio Aperto, dagli show di RAI2, dall'alternanza stordente e in accelerazione dei programmi pomeridiani, Barbara d'Urso il Grande Fratello le lacrime una madre che piange una figlioletta scomparsa o massacrata.
Davanti a questo circo, diventa difficile non ammettere, per quanto refrattari si voglia essere, che la cronaca nera ormai si è sublimata nel gossip e nella dinamica pornografica. Peter Sotos diventa Foucault, Dennis Cooper Deleuze; ciò che un tempo era piacere personale, diventa critica sociale, più o meno socialmente consapevole. La perversione viene metabolizzata e fagocitata, resa plastica, artefatta, masticata e risputata sotto forma di libri come questo.
Ma...
Per quanto si impegnino, per quanto vittoriose e tronfie siano, queste legioni di casalinghe continuano ad essere infastidite quando sotto il pizzo rosa si intravede la carne lacerata e nell'aria si spande il tanfo della merda, della putrefazione, quando la lacrima esce dal video e diventa una sofferenza reale. Questi libri vogliono produrre assuefazione e candore, per quanta merda adornino di profumo e seta non ce la faranno mai a negare il senso profondo della fine, della depressione, della sofferenza. Della sofferenza vera.
In quel punto in cui non esiste più voce chioccia e blesa, niente esterne, nè servizi patinati; quel punto in cui regna solo la morte. La morte totale, quel piacere che nessun Signorini, nessun Picozzi, nessuna casalinga, potrà mai alterare.

sabato 17 luglio 2010

La Terza Madre






Dario Argento preferisco ricordarmelo da vivo.
Come dite? Non è ancora morto? A giudicare dalle sue ultime "fatiche" cinematografiche non si direbbe...specifico, non sono mai stato un grandissimo fan argentiano, della sua cinematografia ho amato solo tre film, Profondo Rosso, Suspiria e Tenebre, limitandomi ad un generico apprezzamento di altre pellicole come Phenomena e Inferno; ma di certo non ho mai negato al regista romano un suo grande tocco personale, visionario, cupo, ammesso ed amato anche in America, in tempi non sospetti (ovvero prima che arrivasse Quentin Tarantino a raschiare il fondo del barile del nostro cinema di genere, tanto per darsi un tono esotico di fine conoscitore - adesso ce lo sorbiremo pure come Presidente di Giuria in una edizione del Festival di Venezia che a quanto pare sarà consacrata ai b-movies).
Un mio amico, argentiano di provata fede, quando Roma si chinò davanti al nero tappeto srotolato dall'amministrazione veltroniana per la prima assoluta del film La Terza Madre, strombazzato ai quattro venti come la parte conclusiva della trilogia delle Tre Madri inaugurata nel lontano 1977 con Suspiria, mi confidò la sua delusione con un tono talmente sincero ed accorato da farmi sospettare una disillusione crudele, feroce, la fine in frantumi di una venerazione di lungo corso; ed in effetti, il primo pensiero che mi baluginava in testa mentre i pessimi fotogrammi del film mi si palesavano davanti è stata un'amara consapevolezza, di una rovina retroattiva che si è stesa, come un sudario di vergogna, sui due film precedenti.
Infatti se Non ho sonno e il Cartaio si erano rivelati patetici esercizi di stile, molto autoreferenziali ma anche, fortunatamente, autoconclusivi, con questo la Terza Madre il problema d'insieme si sposta sul diretto coinvolgimento dei precedenti capitoli; e parliamo di due film che hanno fatto epoca e modulato un linguaggio preciso della "poetica" orrorifica di Argento.
Quello cupamente alchemico, sinuoso, ellittico, i cui film tradivano una eco misterica e allegorica, con una forta impronta di consapevolezza esoterica.
Bene, prendete tutto quanto di buono c'era in Suspiria e, parzialmente, in Inferno e buttatelo al cesso...
La Terza Madre si apre col più classico dei ritrovamenti archeologici, una urna chiusa da secoli e che dietro si porta una leggenda nera di devastazione e terrore, qui non c'è il Pazuzu di Friedkin, ma d'altronde non siamo in Medio Oriente ma nelle campagne viterbesi.
Un alto prelato, esperto di cose misteriose e di linguaggi occulti, si prende la briga di far decifrare le iscrizioni che adornano l'urna a due dottorande romane (roba poi che le dottorande nelle nostre università fanno al massimo le fotocopie e il ricevimento studenti, ma d'altronde Asia Argento non poteva di certo fare la professoressa ordinaria...); ovviamente, a tempo di record, l'urna inizia il suo lavoro di dannazione, facendo finire malissimo sia il prelato che la collega dell'Argento.
E la scena della fine, che dovrebbe risultare agli occhi atroce ma che invece è solo grottesca, della collega restauratrice già fa capire dove si andrà a parare; esibizione da soap opera con girato alla Cento Vetrine e simbolismo medievale degno dei Decamerotici, una bertuccia urlante antipatica ma talmente antipatica da farti tifare per la vivisezione una vecchia storpia che già capisci poi diventerà una figa nuda vestita solo con un peplum ricamato con iscrizioni magiche e qualche demone di plastica.
Asia Argento se la fa con uno che non si capisce bene chi sia; mezzo indagatore dell'incubo, mezzo esoterista e mezzo (come? tre metà? vabbè, è un film esoterico o no dopotutto?) restauratore. Tale Michael, il cui personaggio risulta talmente monodimensionale, ritagliato nel cartone e insipido da far sembrare Jimmy il Fenomeno la reincarnazione di Marlon Brando.
Michael capisce subito che le cose si stanno mettendo male, anche perchè la vecchia ricurva è diventata una florida pornostar con poteri stregoneschi e la sua resuscitata brama di potere si trasforma in una insensata carneficina per le strade di Roma, con stupri, ammazzamenti, accoltellati, gente che parla dalle cabine del telefono (ignoravo ne esistessero ancora a Roma) e viene presa a sprangate senza motivo, allora Michael che ha capito tutto ma non sa cosa cazzo fare decide di partire per il viterbese, ma invece di andarci per mangiare il pesce del Lago di Bolsena o bere l'Est Est Est di Montefiascone va a trovare il prelato che ha fatto nascere tutto sto casino.
Ovviamente, il prelato ha avuto un ictus e a fare gli onori di casa in terapia intensiva ci pensa un untuoso e rincoglionito prete che precisa subito di non avere intenzione di raccontare la vicenda a Michael, salvo poi attaccare un pippone di venti minuti sagacemente interpolato coi fumetti; tutta la leggenda legata alla Terza Madre praticamente ce la subiamo coi fumetti in bianco e nero, ma d'altronde si era capito che l'aura esoterica generale è alla Dellamorte Dellamore.
L'influenza della Madre delle Lacrime, per qualche arcana motivazione, si spande subito sulla Capitale creando un caos di inaudite proporzioni, tra folate demoniache e rincoglionimenti della polizia che invece di arrestare e fermare la gente che si scanna si dedica alla caccia ad Asia Argento, la quale poco prima era stata allertata telefonicamente da Micheal, disperato e braccato (in realtà, aveva giusto visto due specie di travioni, che dovrebbero essere delle streghe e allora urla "aiutoooooo" quando le due cattivissime trans-streghe lo guardano ridendo come nemmeno un caratterista di serie Z); praticamente fattucchiere di ogni parte del mondo si stanno dando convegno a Roma ed arrivano urlanti e brutali, irridendo i passanti.
Memorabile la scena, degna di "Sposerò Simon le Bon" o "Cercasi Susan Disperatamente", in cui un nugolo di streghe cotonate e con pettinature da video glam, guidate da una misteriosa giapponese gothic lolita brutta quanto la fame e con un evidente problema ortodontico, vengono approcciate da un ciccione che trascina un carrello e che chiede a loro, sghignazzanti, assassine, brutte e sporche, una informazione stradale...
Asia Argento allora è sempre più depressa, spaventata, delusa e sola; anche perchè sente delle voci. Ma invece di andare da uno psichiatra o in alternativa di sparare allo sceneggiatore, capisce di essere una parente della strega buona che si era opposta al dominio delle Tre Madri; la scena della epifania e della acquisita consapevolezza merita davvero, intensamente esoterica come "Pomi d'0ttone e manici di scopa". Perchè la madre svolazza in forma spiritica, con effetti speciali realizzati probabilmente col commodore 64.
Micheal, prima di scomparire, aveva tentato di contattare uno dei migliori esorcisti (aridaje...) della Chiesa cattolica, Padre Johannes (qualcuno poi mi spiegherà per quale motivo in Italia non c'è un personaggio che è uno con nome anche solo vagamente italiano...marketing internazionale? Questa roba ha un mercato?) che vive nell' (a)meno paesino di Monteleone, dove praticamente la gente è tutta indemoniata come nemmeno in un rave di Goa.
Padre Johannes, un poro Udo Kier con gli occhi perennemente strabuzzati un pò per le fatiche esorcistiche un pò perchè probabilmente non credeva alle panzane che doveva leggere sulla sceneggiatura, se la passa male; ma proprio male male. Prende medicine, c'ha la tosse, è stremato e sconvolto, perchè poi nel suo giardino pascolano e ruminano insensibili orde di indemoniati che fanno cose bruttissime.
Praticamente un out-take di Thriller di Michael Jackson, e il trucco di pongo.
Quando la Argento arriva al cospetto di Padre Johannes, seguendo l'inesistente scia lasciata da Micheal (e grazie ad uno degli inseguimenti più ridicoli del mondo; diventa invisibile dentro una libreria, spacca il collo alla strega gothic lolita con inaudita facilità), lo trova indaffarato a non morire grazie alle prescrizioni mediche; pure Padre Johanes attacca un angosciante pippone sulla fenomenologia della stregoneria, praticamente disegnando, per i non addetti ai lavori, il motivo per cui dovremmo considerare sto film come la prosecuzione ideale di Suspiria e di Inferno.
Praticamente, per quei due o tre che non lo avessero ancora capito, la Argento sarebbe la figlia della strega buona che aveva sconfitto la Madre dei Sospiri, quindi pure lei c'ha i poteri magici ed incarna l'unica speranza del mondo. Ma Udo Kier è sfortunato perchè si va a prendere un'altra medicina ma incappa nella sua governante che è indemoniata e lei lo tronca con una provvidenziale mannaia, e poi si apre la gola da parte a parte tra zampillini rossi di marmellata non prima di aver biascicato parole magiche e la richiesta per il permesso di soggiorno.
La Argento e una sensitiva sua nuova amica mezza lesbica (ma forse pure di più di mezza) scappano e pure qui la tensione è enorme, grande almeno quanto quella che regnava nell'Esorciccio; gli indemoniati caracollanti sono decisi a tutto e ruspanti come gli attori in un porno di Jessica Rizzo, così tra improbabili capigliature e mode uscite di scena da millenni, la Argento e l'amica fuggono e tornano a Roma dove cercheranno di mettersi in contatto con un paraplegico alchimista interpretato da un Philippe Leroy al minimo sindacale.
Però la sensitiva lesbica, e la sua amichetta, vengono troncate dalla Madre e dai suoi scherani, la Argento scappa. Ovvio.
Ci sono anche scene erotiche ogni tanto. Una tetta, una mezza figa pelosa. Roba da peplum girato a Pozzuoli nel 1963. Stesso gusto estetico. La recitazione in generale fa rimpiangere le esterne di Uomini & Donne, per intensità, immedesimazione, convinzione e trasporto emotivo.
Le scene "forti" dovrebbero essere lo strazio delle due lesbiche, l'ammazzamento con relativa cottura al forno del figlio di Micheal, lo stesso Micheal che diventato accolito della Madre delle Lacrime tenta di ammazzare, nonostante abbia già la gola tranciata, Asia Argento.
Fantastiche le fiamme fatte al computer che avvolgono il corpo di Micheal.
Altrettanto ovviamente pure l'alchimista architetto rincoglionito viene fatto a fettine e torturato durante una specie di festino esoterico-sadomaso, ma non prima di aver istradato Asia Argento; la quale naturaliter riuscirà a portare a termine la sua missione.
Non sia mai il film non possa godere di un happy ending.
Imbarazzante


giovedì 15 luglio 2010

Chance





Mi guarda reclinando leggermente la testa, come una lucertola intenta a prendere il sole - ma qui di sole non c'è traccia, solo carta da parati sporca e di pessimo gusto, penombra solustro di vedo/nonvedo, divanetti da privè dimenticato da dio, qualunque dio, e poi gemiti muggiti e lamenti di un giovedi prossimo al tracollo emotivo, so che qualunque empatia è resa distante irreale ghiacciata dico le dico dovrei specificare che ha una madre morta e la piange, la piange copiosamente mentre lascio il mio documento di identità nelle mani di un pingue portiere d'albergo.
Vorrei si estinguesse come una presenza, una presenza con cui fare i conti, una presenza che diventa assenza, e poi più nulla. Forse, nebbia. Poco prima di un assolato mattino.
Non ho interesse alcuno nella sua umanità, vera o presunta, nelle sue chiacchiere preconfeziomate e necessariamente abbellite; avverte la tensione, che non è carica erotica ma una lucidità esasperata tipica di chi sta per gettarsi nel vuoto, dal balcone, sulla strada mentre attorno le puttane i tram le pattuglie della polizia i negri gli immigrati pardon i migranti del cazzo i drogati le carambole del buco i turisti i duri i finti duri i deboli ed i finti deboli, i mercanti i lestofanti ladri e caracollanti sagome che sanno di piscio e grigio, cingono la sagoma annerita di questa pensione, ostello, hotel o quel che cazzo è.
Davvero.
Siamo irreali.
Sul serio. Come una rima stonata, riverbero di un'aria lirica.
La madre di Denise Pipitone, come un dungeon sadomaso e tante ma sempre troppo poche epifanie di latex e dolore esibito in televisione, ho conosciuto parenti di vittime, straziati i parenti, ma straziate pure le vittime, sorelle impazzite di delitti circensi fottute in gola da marocchini arrivisti aprono frutterie di comodo per poi trasvolare sulle carte del divorzio estinzione del debito d'amore, il migrante è furbo.
Lei ha perduto ogni residua chance.
Come la madre di Denise, che ancora si illude.
Che spera, prega e con voce tremolante, come una fioca candela di liturgia gotica, comunica dolore sofferenza patetiche infrazioni al codice della dignità - non ha più importanza il finale della storia, perchè ciò che importa è la storia in sè.
Sfumature, screziate purpuree venate di nero menano vanto di essere spogliarelliste artiste esotiche ma succhiano cazzo maghrebino nel calduccio insettivoro di pensioni da dieci euro l'ora, scorribande di blatte processioni di acari idiozia carnografica, non saranno i loro tatuaggi e i nomi falsi a salvarle.
Shampiste dalla e dell'esistenza peregrina, pellegrine di una cattedrale romanica incistata nel lato nord della Stazione Termini, ho solo un rimpianto ed è quello di non avere abbastanza da vivere per potermele succhiare tutte, tette di plastica in rigorosa esibizione, lampeggianti bluastri, una televisione sintonizzata su un canale morto, scia e rumore di aereo chissà dove si sta dirigendo, chissà se arriverà mai. Non ho una umanità da sbandierare, sesso promiscuo sempre e comunque, una relazione come sinonimo di una qualche complicità estatica ma dolorosa; l'empatia è un cazzo negro nel culo.
Si fa di cocaina, una striscia, un'altra, aspira, inala, si pulisce le narici come una consumata attrice.
Sorride.
Penso ci sia poco da ridere - non compiaccio le donne con cui mi accompagno, sono un egoista, lo sono sempre stato, e la solitudine ti permette di poter fare commenti osceni su una ragazzina venuta a Roma per vedere il Colosseo, mentre attraversa la strada mano nella mano con la madre, sovvengono alla mente ricordi di pedofili e mestieranti della carne, drogati sballati persi, corse nella notte sul raccordo senza traccia alcuna di una meta.
Egoista - mi spompina.
Egoista - sono immobile, la vedo succhiare, gemere, i capelli biondi le ornano la faccia sudata.
Egoista - non la tocco, le strizzo solo, di tanto in tanto, le tette.
Chance - che ha, fortunatamente, perso.
Chance - che un cavaliere azzurro la salvasse da una vita di disperato grigiore.
Chance - che si incazzi venendo a sapere che le sto sborrando in gola pensando ad una madre piangente.
Volti cianotici. Chiazze di vomito, e pus. Il cesso di un locale pubblico, a dieci metri da una scaletta che conduce alla Metro A, tra rapper guatemaltechi, controllori ATAC e taxi.
Perde quello che non ha. Che, forse, non ha mai avuto.
Non mi interessa.

giovedì 8 luglio 2010

Pornoprodromo; ancora su A Serbian Film





Un momento di grande rivelazione - non il Logos finalmente esibito, ma la deprivazione totale, abbacinante, un lampo che scuote la placida tenebra notturna e ti getta in faccia un lago rosso di sangue. Come nel vorticoso mulinare delle parole, feroci, disossate, disumane, espunte in fretta dal consesso della rispettabilità sociale che possiamo trovare tra le pagine di Sade, una (nuova) dimensione di isolamento e povertà emotiva, morale, esistenziale si fa largo nell'opera della guerra, e nell'opera sulla guerra.
La drammaturga inglese Sarah Kane, morta suicida in giovane età, nel suo primo fenomenale, e scandaloso ("disgustoso banchetto di sporcizia", per il critico del Daily Mail, Jack Tinker, sarcasticamente "omaggiato" dalla Kane nella sua seconda piece, in cui presta il nome ad un feroce e pazzoide medico in stile Mengele, attratto dalle mutilazioni e da un voyeuristico afflato di morte) atto di accusa contro la stagnante putrefazione dell'arte anglosassone (e non solo...), dal significativo titolo di "Blasted" (in italiano divenuto "Dannati") mette in scena una esplosione di brutale franchezza, un raggelante specchio dei tempi in cui nessuno può dirsi al sicuro- un pavido giornalista, dal carattere fintamente dominante, cinico ma poco scaltro, capace solo di prendersela con la sua amante, una donna insicura e mentalmente prostrata, sullo sfondo ombre tenui di delitti seriali, pornografia e massacri la cui eco sembra perdersi lontana. D'un tratto però la cronaca entra nella stanza d'albergo in cui i due stanno consumando il loro personale dramma di menzogne e violenza, prima un refolo disperato, successivamente un uragano impersonato da un soldato anonimo e senza nazionalità precisa (ma che capiamo perfettamente essere proiettato fuori dal ventre saturo di decadenza corruzione e morte del conflitto serbo-bosniaco); il soldato diventa l'incarnazione di una perenne cattiva coscienza, la voce tetra, monotona, ripetitiva ma decisamente efficace attraverso cui la violenza non ambisce ad essere rappresentata ma ad esserci.
Uno dei più organici e dolorosi tentativi di rendere un'opera d'arte esercizio concreto di un atto di violenza - e lo si capisce abbastanza agevolmente percependo la cesura che separa la prima parte del dramma, in cui la violenza è posticciamente e blandamente millantata dal protagonista, mediocre gi0rnalistucolo con una fissazione morbosa e professionalmente poco appagante per gli abusi sessuali e la cronaca nera, oppure dalla tensione sentimentale ed esistenziale della sua donna, incapace di opporre un risoluto no alle pretese sessuali del giornalista, dalla seconda parte, in cui il soldato irrompe portando con sè l'attacco frontale allo spettatore. Inculcando dubbi, e atrocità, chiedendo ripetutamente al protagonista (ma anche allo spettatore) se abbia mai esercitato vera autentica violenza; e la sua fredda lucida narrazione di atrocità belliche, a cui ha assistito o partecipato in prima persona, i neonati fatti a pezzil, le donne violentate e inchiodate alle assi delle porte, le esecuzioni sommarie, tradisce quella spinta a superare di slancio il nero dell'abisso. C'è un unico momento in cui il soldato ricompone le sue fratture interiori, i frammenti della sua anima, ed è quello in cui ripensa alla sua ragazza, brutalizzata ed uccisa dai nemici - è un istante, un istante di consapevolezza e dolore, di rivelazione.
Non a caso, primaria fonte di ispirazione della Kane sono stati la Bibbia (e non in senso religioso; quanto per la smodata e vorace tendenza a mettere in luce la carnalità della presenza di Dio, la ferocia, come voce a cui tendere per lasciarsi alle spalle la nomade disperazione, la solitudine dell'essere...il superamento dei limiti individuali per andare oltre il proprio desiderio, per riprendere ciò che Bataille notava nel profondo dell'opera sadiana e che Klossowski aveva eretto a prova decisiva della valenza metareligiosa del "canone" sadiano) e una emotiva, non meditata, lettura del Re Lear shakespeariano, opera questa in cui figura la radicale presa di coscienza di una antropologia autenticamente negativa ("mostro d'ingratitudine, l'uomo").
L'istante in cui lo spazio chiuso della stanza di albergo (torna la finitezza spaziale cara a Sade e ai suoi libertini, lo spazio recluso, cinto da torrioni, magma, disperazione, come il castello di Gilles de Rais, le cripte gotiche descritte da Valentine Penrose nel suo saggio sulla Contessa Bathory) esplode e deflagra, con potenza, con orrore. E' l'attimo in cui lo spettatore, catarticamente ma in maniera estremamente carica di sofferenza, percepisce che quella violenza non è didascalicamente messa in scena dalla Kane per fini lato sensu artistici, ma da lei vissuta e urlata in faccia allo spettatore.
A Serbian Film è un'opera dolorosa. Non gratuita, nel suo tentacolare e magmatico dispiegarsi di crudeltà, di sangue, di sesso non consensuale - non uno studio sul dolore e nel dolore, quanto dolore esso stesso. Non analisi (piùo meno metaforica) di violenza, quanto violenza esso stesso. Per l'occidentale abituato a pasturare con carnascialesche esibizioni di torture porn, il film serbo diventa l'ennesimo attacco alla cima di una sorta di guinness dei primati dell'estremo e del rivoltante; si finisce per darne una versione parziale, dimidiata, ambigua e soprattutto superficiale. Altrettanto scorretto sarebbe caricare il film di inutili orpelli sovrastrutturali, darne una lettura forzatamente e faziosamente "intellettuale": ho impressione invece che Spasojevic non abbia l'ambizione di fornire la sua particolare versione di torture porn, quanto di elaborare un suo personale atto di violenza.
Il pingue appassionato di horror americano ed europeo passa in rassegna varia carnografia, amputazioni, delirii di sangue, massacri, incesti e stupri, come sulla ruota panoramica di un luna park delle atrocità (rigorosamente in plastica), guarda televisione che alimenta continuamente l'eco lontana di terribili violenze, pratica giochi di ruolo o videogiochi in cui la violenza è continua, seriale, ripetitiva. Ma la sua esposizione alla violenza è sempre mediata, indiretta e fondamentalmente di matrice ludico-ricreativa; perchè questo appassionato non vive in società che, per quanto possano apparirci brutali, respirano ed incarnano, ontologicamente, una aspirazione totalizzante alla violenza.
I Balcani rappresentano l'unica area direttamente a contatto con il mondo occidentale ad aver sperimentato, in tempi recenti, un conflitto di rara ferocia; stupri, violenze, omicidi, massacri, bombardamenti, campi di concentramento, il tutto sia come attori che come vittime. Il giovane americano che impazzisce per Hostel o per Martyrs al sentir parlare di campi di concentramento va con la memoria alle sbiadite foto dei libri di storia, alla seconda guerra mondiale, non nutre quel contatto diretto, esistenziale, con la pratica estrema della violenza di Stato, con il rullo compressore di un carro armato che spiana abitazione e sogni, uccidendo in un colpo solo tutti gli affetti di una vita.
La Serbia ha ferite fresche. Una spina dorsale incrinata - anche dal mondo occidentale, che sotto la scusa tronfia dei diritti umani ha bombardato e massacrato Belgrado. L'italiano che oggi aspira ad una proiezione di A Serbian Film, è lo stesso, antropologicamente, che guardava in rewind i lampi verdi e le scie sagittali dei missili sparati a profusione sulla capitale serba, il francese che oggi cerca redenzione nel nuovo torture porn ha un concetto di violenza che arriva dai siti internet di pornografia estrema e che probabilmente non ha idea di quale rumore faccia una donna pugnalata nel profondo della vagina...
Abbiamo perso, se mai davvero ne abbiamo avuto uno, il senso della violenza, esercitata e subita, non sappiamo davvero soffrire perchè non sperimentiamo, nella nostra esistenza, una continua, sistematica, scientifica violenza.
Il film serbo ambisce invece a ricordarci cosa significa soffrire...

domenica 4 luglio 2010

The Horseman





The Horseman, di Steven Kastrissios, è un film australiano del 2008; da non confondere col quasi omonimo thrillerone pseudo true crime girato l'anno seguente da un sempre più imbolsito Dennis Quaid.
La sostanza del film è una solida ricerca della vendetta. In un quadro di attraversamento della terra di nessuno che è il mondo della pornografia non propriamente professionale.
E ne era passata di acqua sotto ai ponti da quando il buon calvinista Paul Schrader (Hardcore) aveva fatto immergere George C. Scott nel girone della produzione di pornografia clandestina, alla ricerca di una figlia dispersa e ingannata dalla malvagità dell'uomo - e se non c'è nulla di meglio di un calvinista armato di cattive intenzioni, soprattutto nel mostrare quanto sordida e immorale sia la pornografia (con toni che avrebbero mandato in brodo di giuggiole Andrea Dworkin e il senatore Meese), ci aveva pensato poi quel rincoglionito di Joel Schumacher a rovinare (quasi) tutto con quel polpettone insipido e bolso rispondente al titolo di "8mm- Delitto a Luci Rosse".
Come da titolo, un padre disperato e crudamente disilluso porta la sua personale apocalisse nel mondo sotterraneo di alcuni squallidi pornografi.
Ha delle domande da porre; e le pone nel modo più brutale possibile. Interrogatori con ami da pesca conficcati dove fa proprio tanto male, polpette macinate di carne umana, pestaggi, distruzione di ogni sentimento, e voglio segnalare lo squallore eccellente del video porno che apre dolorosamente gli occhi al padre. Anzi, probabilmente il punto stilisticamente più intelligente, intrigante ed elaborato, pur nella sua apparente semplicità, è proprio quel doloroso momento di cinema-nel-cinema, disvelamento raggelante di una sinistra verità; e così il padre viene a sapere che l'overdose di cui è morta la sua tenera figlioletta (le figlie morte sono sempre dolci, tenere e compiante, anche se nei fatti si trattava di tossiche puttane...) è stata pesantemente indotta e usata strumentalmente da alcuni laidi figuri soliti a trafficare porno più o meno estremo. Nel caso specifico una gang bang finita male; e le flaccide natiche esibite dai panzoni che violentano la ragazza valgono mille Macina di "8mm".

A Serbian Film





E uno snuff movie definitivo è anche al centro di A Serbian Film, "filmetto" che da mesi sta dilaniando gli appassionati con risse verbali, svenimenti negli USA e a Cannes (i film che si portano dietro leggende metropolitane generalmente sono pessimi, ma questo fa parziale eccezione), annunci di recensori che si rifiutano di recensirlo (su Nocturno Cinema, ad esempio) e aficionados che a mezzo forum si scannano sulla sempre aperta e dibattuta questione del lecito, del limite, della utilità intrinseca della metafora esibita ed esposta con compiaciuta brutalità.
Premettendo che di seguito si avranno degli SPOILER, il film narra la storia (?) di Milos, ex Rocco Siffredi balcanico ormai ritiratosi a quieta vita familiare; quieta ma finanziariamente disastrata, tanto che le uggiose giornate trascorrono tra malinconiche reminiscenze del passato, sesso con la moglie, il figlio di quattro anni che si guarda i dvd porno col padre protagonista.Un giorno però anche qui arriva l'ambiguo angelo del destino, sotto forma di una brillante e bellissima intermediaria che propone a Milos di interpretare un ultimo film che gli varrà un compenso stratosferico e la fine assicurata di ogni preoccupazione di ordine economico per moglie e figli.
Milos accetta ma ben presto capisce che il regista del progetto non intende realizzare un comune porno, ma un terrificante snuff movie - e qui inizia il delirio, perchè non pago del torture porn per quanto esplicito, A Serbian Film inanella una serie di atrocità che rendono in effetti Murder Set Pieces, Martyrs e August Underground della cacchina buona per il dopolavoro disney.

Un esempio? Aldilà degli stupri con decapitazione per sperimentare coito da rigor mortis , le atmosfere incupite decadenti e paramilitari che esplicitamente rimandano ai massacri bellici o scopate con donkey punch violentissimo o scene di atrocità belliche, il film diventa insostenibile per la violenza contro i bambini...e se già Murder Set Pieces aveva rotto il tabù cinematografico del "i bambini non si toccano", A Serbian Film va più in là con la grazia di un elefante obeso dentro una cristalleria di Boemia (un neonato appena partorito dalla madre e ancora sanguinante di placenta viene brutalizzato e violentato...e questa è solo una delle varie scene).
Alcune scene non esplicite, se possibile, risultano più disturbanti e ciniche della carnografia spicciola; su tutte l'angosciosa scena di incesto (inconsapevole) in cui il protagonista e il fratello poliziotto devono sodomizzare due attrici coperte da un lenzuolo e che i sodomizzatori non avranno modo alcuno di vedere mai. Peccato che non si tratti di attrici ma della moglie e del figlio (quello di quattro anni) del protagonista...
Naturalmente, è del tutto palese che al regista Spasojevic non interessava minimanente l'originalità; il film è un assemblaggio citazionista (in alcuni casi ai limiti del plagio) di centinaia di pellicole più o meno legate alla tematica del metacinema. Da Last House on dead end street a Il Cameraman e L'Assassino, passando per Man Bites Dog e perfino quella cagata assurda rispondente al nome di 8mm, c'è anche un (non so quanto voluto) rimando a Seven, di Fincher. Palesi omaggi al cinema di Brass ( i falli finti) che a volte si perdono dietro allegorie barocche ed estetizzanti, l'intera pellicola si muove su coordinate patinate, da metafora-della-violenza-nella-epoca-di-MTV, ma certo il tono generale è di un malevolo spinto, a tratti da psicopatici, nessuno, letteralmente, viene risparmiato.
I problemi sollevati da film simili sono enormi - anche perchè in Serbia, a prescindere dal discorso del vero o inventato finanziamento statale ricevuto, questo film viene commentato, dibattuto, analizzato e criticato non nelle nicchie maleodoranti del cinema gore o estremo ma sui mass media di rilievo, suscitando reazioni viscerali che oscillano dall'orgoglio nazionale ferito alla disamina della crisi della società serba (la metafora in fondo più facile) fino ad un compiaciuto cenno di approvazione per aver portato la Serbia al centro della comunità cinematografica estrema mondiale. E le persone che partecipano a questi autodafe collettivi non sono nerd occhialuti alla ricerca di emozioni virtuali forti, ma la popolazione nel suo complesso; teenager, studenti universitari, casalinghe, operai, avvocati, chiamati tutti in causa dalla allucinata visione di un film che rappresenta, volenti o nolenti, un epos di inaudita ferocia.
Un problema davvero consistente è quello dei limiti che un film dovrebbe darsi per non cadere nel sensazionalismo becero, spinto e fine a se stesso-è evidente che il rischio "luna park", soprattutto quando ci confrontiamo col torture porn in tutte le sue (in)finite varianti, è sempre in agguato. Ad alcuni il concetto di limite apparirà anche di matrice morale; è evidente, come in effetti fanno notare in molti, che mostrare la violenza carnale subita da un neonato o scene porno consumate dentro un asilo nido supera e di molto quella invisibile linea che divide provocazione, estro artistico da patologia clinica, e che quindi, proprio per la implicita gara a trovare aberrazioni sempre più pesanti, il prossimo film finirà probabilmente per mostrare autentiche uccisioni. Una questione che secondo me non si pone, soprattutto nella epoca di internet, visto che con minimo sforzo un qualunque giovane (e anche meno giovane) può comodamente guardarsi dal calduccio confortante della sua stanza spezzoni di ammazzamenti autentici o di crimini di guerra, frettolosamente uploadati su siti internet come il fu-Ogrish o circolanti più o meno liberamente tra torrent e programmi di filesharing.
Ma il limite che a me interessa è quello che separa il sordido dal ridicolo, l'allucinante dal trash; e devo dire che Spasojevic, almeno in questo, è bravissimo, e pur attingendo copiosamente dal calderone dei luoghi comuni riesce ad alternare vorrei dire brillantemente ultraviolenza esplicita ad atmosfere più meditate, ellittiche e sofferte (che aggiungono inevitabilmente orrore all'orrore). Per quanto la discesa all'inferno di Milos in alcuni tratti diventi palesemente incredibile e per quanto allo spettatore sia richiesto un discreto esercizio di sospensione della credulità, il magma putrescente di sperma, violenza, misoginia (ma forse più correttamente, misantropia...ogni singolo personaggio del film è un Mostro, a ben vedere e l'antieroe incarnato da Milos rappresenta una monade impazzita con cui a tratti siamo costretti ad empatizzare, ed è una empatia decisamente dolorosa) sovrasta e ingoia tutto.
Un altro problema non da poco è quello delle metafore; quando si affronta un tema delicato come il rapporto tra sesso/violenza e occhio dei Media, in una prospettiva dichiaratamente voyeuristica, l'errore tipico in cui si cade (vedasi tra i molti Natural Born Killers) è la fumettizzazione dei personaggi, i quali finiscono inevitabilmente per diventare monotematici e monodimensionali, palesemente ritagliati nel cartone. E il film stesso rischia di sfuggire dalle mani del regista - in A Serbian Film questo a volte succede, soprattutto quando Spasojevic pensa di essere la reincarnazione di Pasolini. La scena dello stupro (e conseguente massacro) sul letto, con la donna incatenata presa da dietro da Milos è un viaggio dritto dentro la struttura del Salò pasoliniano; solo che mentre Pasolini aveva saputo destreggiarsi tra atmosfere filosofiche sadiane (la finitezza degli spazi come impulso alla Fondazione, per dirla con Barthes, la Natura del Male, la crudeltà) e istinto alla denuncia sociale (sulle articolazioni del potere), il regista serbo ogni tanto gira pesantemente a vuoto, dando l'impressione di guardarsi l'ombelico in estasi sorridente.
La visione è comunque consigliata solo a chi la mattina si lava i denti con Total Abuse.

Life and Death of a Porno Gang





Torno dopo tempo immemore ad aggiornare questo blog e lo faccio dichiarando senza mezzi termini che questa è la settimana del cinema estremo serbo !
Ed era ora perchè finalmente i Balcani iniziano a liberarsi della inquietante sagoma, sempre meno stagliata contro orizzonti "underground", di Kusturica ed iniziano a riappropriarsi di quella curiosa, bizzarra, kitsch e malevola tradizione di filmati aldilà del bene e del male inaugurata a suo tempo dal surreale Sweet Movie di Dusan Makavejev (ma all'epoca nella economia generale della geopolitica delle nefandezze video esisteva ancora la Jugoslavia titoista).
Il primo film è l'interessante e genuinamente disturbante Life and Death of a Porno Gang, del promettente Mladen Djordjevic che già si era fatto notare e conoscere, se non altro dai malati di mente come il sottoscritto, per una pregevole visione (documentaristica) d'insieme sulla "fondamentale" scena porno serba ("Made in Serbia"), quella scena che risulta ancora oggi parecchio lontana dagli Hot d'Or cannesiani o dai Venus berlinesi, una scena porno genuinamente carsica che si porta dietro, come scintillante purulenta sanguinante stimmata l'aura del conflitto serbo-bosniaco-croato con dietro tutte le truculente storie di torture, stupri di massa, nefandezze variamente assortite che titillarono i sogni nerovestitti delle femministe americane della rivista MS e i vari Jim Goad e Peter Sotos femministizzati a festa per l'occasione. Djordjevic condisce un dissoluto trogolo porcilaio fumigante di sterco e truci astmosfere virate al sesso cupibondo vero film nel film creando il personaggio di un giovane regista, una discesa grottesca e molto kitsch nell'universo dei pornazzi underground, con una compagnia frettolosamente assemblata dal giovane regista fresco di laurea per girare il paese e redimere la sessuofobia dei contadini e dei distretti rurali con spettacoli hard dal vivo, messi in scena dalla raccogliticcia e grottesca compagnia composta da pornostarlette con eccessi di peso, ricchioni malati di AIDS, tossici da eroina - il primo problema è che il giovane regista protagonista del film non si è dato al turismo porno itinerante per scelta, ma per necessità, perchè a Belgrado l'aria si era fatta irrespirabile datosi che lui, da vero genio, aveva fregato dei soldi ad alcuni produttori per girarsi un tanto sospirato filmaccio torture porn ma i produttori, in realtà mafiosi ed ex criminali di guerra, non l'avevano presa bene. Secondo problema; gli zotici campagnoli non impazziscono di amore per le metafore (un uomo che si scopa la terra...) esibite tronfiamente ed ingenuamente dalla Porno Gang e così finiscono per addobbarli di mazzate assai spesso.
A questo punto, messi davanti a crepuscolari atmosfere da deliquio barthesiano, i componenti della Porno Gang iniziano ad avvertire il fastidioso senso della sconfitta, ben presto mutato in speranzosa follia quando un tedesco si palesa proponendo loro di girare un porno definitivo. Che però, si scopre assai presto, sarebbe uno snuff movie di rara ferocia...
E da qui si avvia una estremamente articolata e soprendentemente moderata riflessione sulla valenza del metacinema, argomento questo iper-abusato dai cineasti di tutto il mondo, soprattutto quando si chiama in causa il valore (non assiologico) della violenza esibita- ma la "poetica" di Life and Death è assai poco autoreferenziale e ancor meno compiaciuta, anzi. E' scarna, granulosa, sporca, tipicamente balcanica, bandisce qualunque accento grottescamente festoso che era appunto tipico del cinema di Kusturica e lo sostituisce con una cupio dissolvi che Eli Roth non raggiungerà nemmeno pagando duecento milioni di dollari; il viaggio qui cessa di essere metafora, i personaggi non si arricchiscono dalle esperienze maturate sulla strada, si perdono, si sdilinquiscono, mutano sostanza appiattendosi lungo le sinistre direttrici di una antropologia totalmente negativa.