venerdì 12 settembre 2008

I Distruttori; appunti su Sade e Virgili


La fragilità dello spirito corrode e permea di sé l’immagine del mondo, angoscia il prossimo, si accascia a terra chiedendo al vizio il permesso di poter migliorare lo status quo, somatizza i peggioramenti e guarda, con ansia e trepidazione, la lunga tremolante linea d’orizzonte, dove si attende che da un momento all’altro appaia il baluginio dell’apocalisse.
Non sono gli spiriti nobili a creare il capolavoro, a cesellare il Genio, a marmorizzare per la nietzschana gioia dell’eternità i frammenti dell’arte; al contrario, grettezza, ristrettezza ossessiva delle possibilità e delle prospettive, tedio, noia, incrostazione delle poche certezze morali, paradigmi rovesciati, ed appunto fragilità spesso tradotta in comportamenti patologici costituiscono il fondamento primo e forse unico della vera arte.
In Cronaca della Fine (Marsilio, 2003), lo scrittore e funzionario Mondadori Antonio Franchini, autore tra l’altro di pregevoli testi come Camerati e Quando vi ucciderete Maestro?, traccia un vivido, dettagliato ritratto “esistenziale” e letterario di Dante Virgili, controverso autore di La Distruzione; non ho usato il virgolettato a caso, sia detto subito. Quelle virgolette servono a comprimere e contestualizzare il senso profondo della vita di Virgili, un autore-uomo che non è mai esistito al di fuori dell’orizzonte (appunto, ristretto) dei corridoi mondadoriani, quasi come un ologramma baudrillardiano avvinto dalla unica preoccupazione di vedere il suo libro pubblicato.
Ed esattamente come nell’ologramma è possibile entrare in sogno per alterarne i profili e la fisionomia, così nella vicenda-Virgili è solo la ricostruzione bibliografica, filologica ed onirico-creativa che finisce per darci la cifra del Virgili stesso.
Virgili, il Virgili biografico, impiegato a Forlì presso la Fondazione Garzanti, il Virgili giornalista presso il “Roma”, il Virgili frustrato ed impenitente sadomasochista, quindi il Virgili-persona, semplicemente non esiste se non in combinato disposto con l’elaborazione della vicenda editoriale e con il frutto stesso di questa vicenda; la sua vita è una scarna notazione sul risvolto di copertina, niente foto, nessuna immagine, solo data e luogo di nascita, la precisazione di una sua precedente attività autoriale sotto pseudonimo.
Franchini ricostruisce la genesi di La Distruzione passando in rassegna le memorie e gli archivi, interrogando, intervistando collaboratori, colleghi, vecchi maestri, e da questa mise en scene corale nasce un affresco interpolato, coro polifonico sui corridoi editoriali, sulle dinamiche che portano alla pubblicazione in generale e nello specifico di un testo complesso e controverso come appunto La Distruzione, che vide la luce nel 1970 dopo anni di costipazione editoriale e di intensi dibattiti intra-moenia alla Mondadori e che, curiosamente, nonostante le polemiche interne, le lettere, gli scambi di opinione, una volta pubblicato scomparve nel nulla.
Virgili, nella narrazione, è un fantasma, un incubo, più che ricostruito sembra messo insieme alla Frankenstein, pezzo dopo pezzo, un pozzo nero sordido e più maleodorante di una fogna a cielo aperto; chiunque abbia avuto a che fare con lui lo ricorda con fastidio, con apprensione.
Lo stesso Franchini, che rifiutò materialmente a Virgili la pubblicazione di Metodo della Sopravvivenza, rammenta il rapporto morboso e semi-ossessivo instaurato tra l’autore e lui, ricorda le telefonate prolungate, gli squilli che echeggiavano tra i piani e tra i corridoi degli uffici senza che avesse il coraggio di rispondere, le corrispondenze intercorse, le frustrazioni espresse dall’autore, gli slanci emotivi, le rincorse disperate, i fallimenti (prolungati) ed i trionfi (effimeri).
Il mondo di Virgili, ci dice Franchini, è un mondo alla rovescia, in cui la possibilità del bene è solo una crepa nell’universalità del male; e proprio in questa sublimazione dello schifo, in questa suppurazione dei sentimenti, risiede il tratto distintivo e paradigmatico di tutti i grandi distruttori. Chi vede aldilà della tenebra immota, fantasticando fanaticamente di lucori rosso-carnicini, di quadri di insondabile oscenità, chi si deterge nella acque paludose della infamia, finisce con l’essere scaricato nella fogna della storia (come l’Eliogabalo artaudiano), nonostante probabilmente abbia dato il contributo più lucido ed analitico alla fenomenologia della (vera) natura umana.
La spersonalizzazione autoriale, lo sdilinquimento del dato umano e personale, la mimesi totalizzante tra vita ed opera è una caratteristica saliente dello scrittore che distrugge; non vi sarebbe necessità alcuna di scegliere il male, preferibile forse, in una prospettiva umanistica, sarebbe porsi aldilà di queste categorie morali, vivere e creare secondo paradigmi propri, ed invece il distruttore sceglie consapevolmente di rovesciare i pilastri su cui è edificata la società civile, non vuole sciogliere il pactum societatis, ma solo insozzarlo e infangarlo per mostrare ai dormienti la bellezza della trasgressione. Ed ogni trasgressione, concetto controverso e contraddittorio per eccellenza, implica la esistenza e l’accettazione di una norma da pervertire.
Tra le pagine composte dai distruttori, non vi sono chiaroscuri; in realtà, a ben guardare, non vi è nemmeno creazione letteraria stilisticamente apprezzabile. Unica cosa che è dato trovare, un borborigma caotico, sordo e ringhiante, colto nel momento in cui schiude le fauci grondanti di bava. Il mondo di cui parla Virgili è un mondo devastato, allucinato, psicotico, in cui il sesso si accompagna inscindibilmente alla violenza, in cui le emozioni servono solo per dare maggiore godimento ai carnefici, in cui la politica diventa estetica ed in cui ogni relazione è destinata ad essere tradita.
Come Sade, che certamente non era avvinto dalla preoccupazione del nitore formale e narrativo, Virgili non si interessa delle “belle lettere”; la costruzione ideologica di un percorso post-celiniano è frutto del dibattito altrui, delle conversazioni intercorse tra critici letterari e funzionari mondadori, ma come rileva lo stesso Franchini, Celine era uno scrittore, coi suoi codici, i suoi parametri, le sue urgenze, Virgili invece era preda del suo istinto. Un flusso senza fine, un oceano nero di odio e frustrazione che alterna stili diversi, linguaggi ora sperimentali ora classici, un dialogo interiore spezzettato dalla malattia e dalla incorenza dell’uomo che si cela dietro quelle righe; dire quanto di Virgili-persona vi sia tra quelle pagine è quasi impossibile, e di certo non più utile del tentare di capire se davvero Sade abbia messo in atto alcuni dei suoi propositi sadici.
Detto in poche parole; Virgili non vive tra i suoi libri, Virgili è i suoi libri.
Una identificazione totalizzante, che non ammette compromesso, tanto che le prime pagine di Cronaca della Fine sono dedicate al tentativo di far riemergere un dato biografico oggettivo di Virgili; e lo stesso Franchini non arriva ad alcuna conclusione, perché ammette che l’opera virgiliana finisce per incarnare una sua propria esistenza, alternativa o meno poco importa.
Non ha senso chiedersi se Virgili sia stato davvero un volontario delle SS, non più di quanto potrebbe averne lo stabilire quanto profonde fossero le ferite inferte alla servetta Rose Keller da Sade.
Virgili, come Sade, disprezza se stesso, ed è ossessionato non dal sesso ma dalla possibilità di enucleare in modo convincente modalità di distruzione del genere umano; Virgili agogna una nuova guerra, tanto che uno dei suoi scritti si chiama La Terza Guerra Mondiale, passa in rassegna conflitti, atrocità, bombardamenti, violenza sadica, spera nel conflitto nucleare. Sade invece, ossessivo ed ossessionato, descrive minuziosamente torture, dolori, sofferenze, giochi di rara crudeltà.
La struttura di La Distruzione è un crescendo che lascia poco alla sensibilità del lettore; si è preda e vittime di questo io narrante che finirà per identificarsi con Adolf Hitler, un Hitler sconfitto e morente che pure vaticina sul futuro e “vede” i conflitti prossimi venturi dal profondo abissale della sua tomba-bunker. Allo stesso modo, Sade, per usare le parole di Maurice Blanchot, aveva saputo fare della sua prigione l’immagine della solitudine dell’universo; la sua narrazione è cruda, stilisticamente ripetiva, quasi mantrica, implica una anaffettività completa, e per quanto i personaggi siano descritti e si muovano in terza persona, si vede l’ombra cupa di Sade intenta a muoversi con pesantezza demiurgica tra le vicende di sangue.
Sia Sade che Virgili (come Hitler, d’altronde) sono degli sconfitti; Sade trascorre gran parte della sua esistenza in carcere, recluso ed istituzionalizzato, sconta una frustrazione crescente, la limitazione coattiva degli spazi e degli orizzonti lo portano a sperimentare forme di esaltato e caotico misticismo (quasi uno stato di trance) di cui le pagine de Le 120 Giornate di Sodoma sono ideale manifestazione.
Quando Klossowski, in Sade Prossimo Mio, paragona la voce sadiana a quella del santo anacoreta Benoit Labre, divenuto famoso perché si cibava dei suoi stessi pidocchi, è assolutamente nel giusto; entrambi sono accecati dall’oggetto del desiderio, da un orizzonte immoto ed immenso che si perde oltre l’immaginazione stessa, esattamente come gli Stiliti o come San Francesco o come San Giacomo. Ripercorrere le vite dei Santi può davvero metterci in guardia su come alcuni meccanismi mentali operino.
Sade e Virgili sono stati degli sconfitti, e dei fanatici, esattamente come i Santi cristiani, impossibilitati a raggiungere la congiunzione col principio di divinità e quindi tentati/coadiuvati dal demonio, lunghe estenuanti tentazioni raccontate in tutti i minimi dettagli quasi con tendenza pornografica.
Come sottolinea Bataille, forse l’unica opera sadiana con intento smaccatamente “letterario” è Eugenie de Franval, per il resto si assiste ad una urlata e disordinata commistione di filosofia, ripetizione semi-rituale e delirio. Sade non narra, non scrive, ma ulula, guaisce come un cane battuto, la sua furia si completa nell’insensata conclusione de Le 120 Giornate, un testo che ha un suo incipit logico, delle iniziali descrizioni letterarie, un abbozzo di trama e che poi invece decade e scade nella brutalità accelerata, una velocità assurda ed immane che trascende ogni possibilità di comprensione.
Dicevo; non importa sapere se davvero Virgili sia stato nelle SS.
Virgili, aldilà di tutto, ha somatizzato quell’episodio storico e bellico, ha introiettato il peso della sconfitta e di un mondo perduto e non può quindi, fantasma alienato disperso in terra nemica, gioire per cose che reputa appartenenti alla sfera umana; vuole situarsi oltre, vuole distruggere per ritrovare la sua libertà e ricongiungersi all’agognato mondo nazionalsocialista, vero o ipotetico che questo poi sia stato..
I suoi Himmler, i suoi Goebbels, sono come i libertini di Sade; una proiezione destoricizzata, avulsa dal reale contesto e delineata lungo linee e paralleli del tutto soggettivi. Poco importa di quelli che verranno dopo, scrivono i coniugi Goebbels e certamente lo stesso Hitler condivide, perché i migliori saranno caduti; ma Virgili viene dopo e deve scontare quella maledizione, e quel bunker di roccia e cemento inghiottito dal vortice di fuoco, dai missili sovietici e dal rimbombare cupo dei panzerfaust, diventa quasi una cella egizia dentro cui cova la più temibile delle maledizioni. Virgili è colpevole di essere venuto dopo, la colpa di vivere, lui lo sa e lo dice chiaramente, tanto che non vorrebbe certo salvarsi quando immagina ecatombi varie.
Di più; non vuole nemmeno che di lui, della sua memoria, della sua figura resti traccia. L’ultima riga de La Distruzione recita; “la mia stessa morte Mut zum Abgrund come non fossi mai nato”.
Lo stesso Sade, nelle sue disposizioni testamentarie raccolte e tramandateci da Apollinaire, si perita affinchè della sua esistenza non rimanga traccia alcuna, fornisce precise disposizioni affinchè la sua tomba venga coperta da querce e da altri alberi, volendo eliminare per sempre la vista di quella tomba e per tramite della tomba, della sua memoria. “Come io mi lusingo che la mia memoria scompaia dalla memoria degli uomini”, dice.
Entrambi confinati nella loro condizione di prigionieri, sia Sade che Virgili non possono fare altro che sperimentare la sublimazione frenetica dell’odio; solo odiare li rende vivi, quel pulsare cattivo e che imperla di sudore la fronte, quelle visioni abbacinanti d’inferno da descrivere didascalicamente, quasi a voler erigere un sistema filosofico piuttosto che un capolavoro letterario. Tanto che Klossowski tenterà di delineare delle similitudini tra la filosofia hegeliana e lo spirito sadiano, pur nella diversità assoluta di coerenza logica.
Nietzsche notava che non è la forza a rendere gli uomini superiori, ma la costanza di un alto ideale; né i libertini sadiani, né i personaggi di Virgili possono dirsi animati da alti ideali, e nemmeno dotati di costanza e di perseveranza. Sono laidi, cinici, sfrenati, gretti, descritti in modo da suscitare piena ripugnanza, ma soprattutto sono volubili e terribilmente incostanti. Proprio perché sia Sade sia Virgili vedevano e consideravano in quel modo essi stessi, a prescindere dalla realtà fattuale.
Come scrive Franchini a proposito di Virgili, “leggendo si capiva subito che l’autore non era né uno di quei versatili professionisti né uno di quei pacifici depravati che attingendo ad una loro propria interna segreta controllata attrazione per l’orrore, sono capaci a seconda del caso e delle circostanze, di ricostruire dal di dentro la psicologia di un nazista, di un terrorista, di un serial killer…leggendo chiunque poteva capire che quello scrittore quell’uomo doveva essere lui stesso il mostro”. E nonostante nelle pagine successive emerga un ritratto umano di Virgili decisamente meno crudo e sadico di quanto si potrebbe pensare (soprattutto nel capitolo conclusivo, in cui si trovano dei lati della personalità dello scrittore bolognese decisamente sorprendenti), questa notazione di Franchini è lucida ed esatta; perché come ho detto più sopra, non si può prescindere nel parlare del Virgili-uomo dall’analizzare la furia della sua opera.
D’altronde la vita di Sade non fu particolarmente scellerata, non certamente più perversa di quella del nobile medio del suo tempo; anzi, in una certa misura, il Divin Marchese si rivelò una persona di buon cuore, attento alle esigenze altrui, prodigo di consigli e di attenzioni. Addirittura non si vendicò della suocera, che pure gli aveva recato indicibili tormenti e sciagure, quando ne ebbe occasione. Ciò nonostante, Sade è un mostro. E’ lui stesso a voler tramandare la vulgata della sua mostruosità morale; non esistono quadri, dipinti, affreschi che lo raffigurino, ma solo alcune miniature una delle quali fu rubata (curiosa coincidenza) da un milite delle Waffen SS durante l’ultimo conflitto mondiale.
Farsi passare come mostri, paradigmi di un male assoluto, è stato sia per Sade che per Virgili un utilissimo escamotage per raggiungere una liberazione, quasi quella mohksa promessa ai suoi fedeli dalla religione hindu; costruendo faticosamente, e nel sangue, un sistema di lerciume, di sofferenza, di martirologio profano ed affogando poi se stessi in quella palude riuscirono a sperimentare magari solo parzialmente una autoaffermazione. Più facile sarebbe stato seguire un sentiero nietzschano di indifferenza per i valori dogmatici, per il bene e per il male; ma in quel caso, non avrebbero avuto riconosciuti i loro sforzi e non sarebbero stati compresi. Ed in una qual misura accettati. In fondo, ogni carnefice ama la sua vittima e quando la uccide, uccide una parte di se stesso.
Non mancano, come acutamente rileva Franchini, “casi analoghi di teorici della ferocia e della oltranza ideologica, caratterizzati spesso, sul piano fisico e personale, da manifestazioni anche accentuate di fiacchezza e mestizia”; non è una mera questione di palliativi e catarsi, di frustrazione sperimentata e vomitata con esito liberatorio attraverso moduli narrativi. Non mi riferisco a quella liberazione, che non potrebbe prescindere dalla realtà effettiva.
La liberazione è quella dalla condizione di prigionieri. Una sindrome di Stoccolma esistenziale che fa combaciare la ristrettezza delle prospettive e degli orizzonti con una piena focalizzazione del proprio Io; tanto che un altro grande Distruttore, Albert Caraco, nel suo Post-Mortem, arriva a scrivere “il mio giudizio volge all’apoteosi e io mi lascio catturare dalle visioni che suscito, sono prigioniero e me ne felicito come non mai”.
Per esserne consapevole, consapevole di quella felicità, ha comunque dovuto scriverlo, cristallizzare quelle impressioni e quelle emozioni a mezzo di scrittura su carta, altrimenti si sarebbe limitato a percepire dentro di sé il ringhio sordo di un’anima morta.
Virgili e Sade hanno la stessa urgenza, cercano la medesima “felicità”; il primo è ossessionato dalla pubblicazione, vuole vedere stampato il suo libro, tanto che arriverà poi nel caso di Metodo della Sopravvivenza a farsene rilegare e stampare alcune copie in proprio. Non è la solita ansia da esordiente, e lo si capisce soprattutto nella parte conclusiva quando Franchini parla della sua conoscenza diretta con lo scrittore bolognese.
Il secondo invece “piange lacrime di sangue” quando il manoscritto de Le 120 Giornate va perso a seguito dei tumulti della Bastiglia; sarebbe certo esperienza emotivamente devastante per qualunque letterato, non ne dubito, ma per fare un esempio basterà qui ricordare la vicenda del manoscritto del poema “Il più lungo giorno” (considerato il nucleo fondante dei Canti Orfici) di Dino Campana, manoscritto consegnato a Soffici e Papini e che questi persero. Campana soffrì moltissimo di quella perdita, fino ad esserne esasperato ed esacerbato,. ma ciò nonostante riscrisse il tutto (e curiosamente oggi si considera la riscrittura come decisamente superiore all’originale, che fu ritrovato negli anni settanta). Proprio perché era un letterato e conosceva la disciplina del sistema.
Al contrario Sade, che non è un letterato o che almeno tale non vuole essere, si sente perso, solo e nudo davanti al dio rovesciato che egli stesso ha partorito, riscrivere tutto non gli passa nemmeno per il cervello, non ne ha voglia né possibilità.
Il motivo è semplice; la creazione letteraria in Sade e in Virgili va di pari passo con le loro esistenze, è un processo lineare, per quanto moralmente contorto, e la mancanza del prodotto creato è una sorta di profonda ferita. Un vulnus spirituale pesantissimo.
Non c’è una logica precisa in questo, mi sembra evidente; è il caos a vigere nel modo più puro ed assoluto. Per dirla con il Caraco di Breviario del Caos, “nel caos in cui sprofondiamo vi è più logica che nell’ordine, l’ordine di morte in cui ci siamo mantenuti per tanti secoli e che si disgrega sotto i nostri passi automatici”.
E questo ci porta a parlare della sovrastruttura ideologica legata ai due autori; perché in effetti non è mai mancato un dibattito squisitamente politico su entrambi. In fondo Sade visse i fermenti della Rivoluzione Francese, Virgili invece è considerato autore dell’unico romanzo apertamente nazionalsocialista del panorama letterario italiano, e quindi di materiale infiammabile se ne trova a bizzeffe. Tuttavia sarebbe risibile limitare il campo di azione ad una qualche ideologia realizzata e/o “reale”, perché come si è detto ci troviamo al cospetto di due nichilisti individualisti che la loro politica se la costruiscono e se la giocano nel corso del processo creativo.
Non è quindi una questione politologica, ideologica in senso stretto, di adesioni o di convinzioni espresse o non manifestate. Importa poco sapere cosa Sade pensasse di Robespierre o per quale partito il vero Virgili simpatizzasse.
Ciò che invece, a mio avviso, riveste importanza, è l’assoluta, dal loro punto di vista coerente, trascendenza degli opposti. Virgili in primis è stato accusato, da sinistra, di revanscismo intellettuale e politico, di dare dignità alla sozzura politica, mentre da destra lo si è perlopiù squalificato dicendo che presenterebbe una versione parodica e forzata del nazionalsocialismo, come appunto paradigma di un male incancrenito.
Tanto gli uni quanto gli altri partono da un piano logico-argomentativo del tutto inaccettabile; non hanno capito, o forse non si sono sforzati di capire, che il male accettato ed elevato a supremo signore da parte di Sade e Virgili è frutto del senso immane della sconfitta e della mancanza di libertà. Non una conseguenza della loro ideologia, ma discendente direttamente dalla rovinosa caduta di quella ideologia.
In questo aveva perfettamente ragione Gianfranco de Turris che in un coraggioso, ed isolato, articolo apparso su L’Italiano manifestò apprezzamento, e genuina comprensione, per le motivazioni sottese a La Distruzione.
Perché il libro di Virgili non manifesta un nazionalsocialismo storicizzato, contestualizzato, rigoroso e accademico, manifesta invece un nazionalsocialismo interiore, personale e soggettivo, interrelato ontologicamente alla sua esistenza. E da ciò emerge il senso del disgusto, che Franchini riprendendo le parole di Parazzoli cita più volte, il senso assoluto di una vertigine di isolamento, anomia e morte.
Circondanto da un mondo che non riconosce come suo, Virgili va alla deriva. Esattamente come il Caraco di Post-Mortem, quando in conclusione di libro arriva tragicamente a domandarsi “Ho vissuto, io? Non lo so proprio, la mia vita non è stata altro che una pagina non ancora scritta e, vicino alla cinquantina, tutto quel che me ne resta sono solo dei fogli imbrattati di inchiostro”. E Virgili non invoca forse un curioso “tornare al 1945”, messo nero su bianco a pagina 204 de La Distruzione ?
Ideologicamente nessun uomo sano di mente e coerente, legato al nazionalsocialismo, agognerebbe di tornare all’anno della sconfitta totale, mi sembra ovvio e palese; spererebbe di poter tornare al 1933 o ancora prima, per vivere l’intera epopea hitleriana. Non certo nell’anno in cui la Germania e l’Europa, per dirla con Drieu La Rochelle, se ne va spazzata via ai quattro venti…
Ma è questo il punto; Virgili si percepisce come non.-esistente perché chiamato a scontare il peso allucinante della sconfitta. Preferisce farsi tumulare sotto i bombardamenti alleati su Dresda o nella disperata difesa di Berlino, vorrebbe consumarsi la carne e lo spirito tra le volute di fumo e fuoco che sovrastano i profili austeri del Reich agonizzante, sconfiggendo così la maledizione che grava sulle sue spalle.
Virgili, il Distruttore, è figlio di una Distruzione.
Forse una delle più catastrofiche che il genere umano ricordi. E a ciò assomma la damnatio memoriae di cui si è fatto oggetto il regime hitleriano, non solo sconfitto militarmente, ma processato a Norimberga e certificato nei libri di storia come simbolo universale di infamia.
Il Mostro è vittima di quel clima. Diventa Mostro perché altri ce lo hanno fatto diventare. E adesso lui si comporta di conseguenze, se ne bea, ne gode.
E tutta la sua vita, la sua non-esistenza, diventa una lussuriosa, pesantissima cronaca della fine.

giovedì 11 settembre 2008

LHC



Non posso nascondere il mio fastidio per l'inutile e pretenzioso esperimento realizzato a Ginevra, quella sterile girandola di particelle e protoni frantumati tra loro in un caleidoscopio fluorescente per ripercorrere la fenomenologia in formula fisica dell'origine della vita; bosone di Higgs, energia, cocktail di atomi, volti celebranti e festosi, brindisi, addirittura intellettuali che non saprebbero spiegare la differenza intercorrente tra i quattro esperimenti tentati messi lì a far tappezzeria per rendere la Fisica meno asettica meno algida e più "poetica".
Un bel quadro di marcescente pretenziosità.
Avevano minacciato conseguenze nefaste, la putrefazione del mondo nell'arco temporale di 4 anni, la fine di tutto in corrispondenza con la fine del calendario Maya tanto per colorare di esotismo esoterico l'intera faccenda, una sorta di vorace buco nero a fauci spalancate intento a inghiottire e digerire l'inutile mondo; sputare verosimilmente no, con buona pace del severo aforisma cioraniano. Devo dire che non mi sarebbe dispiaciuto, non l'idea della morte in sè, visto che difficilmente avrei potuto gustarmi il collasso della società umana essendone io vittima al pari di tutti gli altri (a meno di non ritenere plausibile la possibilità di una apocalisse cronologicamente differenziata), ma avrei gradito che l'inesorabile mannaia del tempo ci costringesse tutti a vivere davvero, almeno per 4 anni, lasciandoci alle spalle tutte le becere e trite convenzioni, le maschere sociali, la frustrazione anomica, la depressione, la paura di urtare la suscettibilità altrui, le sovrastrutture faticosamente erette nel corso dei millenni.
Una Apocalisse ricostituente, e degnamente salvifica; in 4 anni avremmo potuto assaporare il senso profondo della esistenza, dedicarci ai nostri piaceri, a coltivare le passioni e gli interessi per troppo tempo castrati nel nome della perfetta integrazione sociale. La certezza di non avere futuro ci avrebbe riscattati dall'illusione di averne uno; il ricatto morale della schiavitù moderna si basa infatti sulla reiterazione sistematica e disumanizzata di un fallace, e plastico, "amore per la vita". Ma guardiamolo in faccia questo sedicente amore per la vita, questa promessa di un futuro migliore; disperdiamo tutte le nostre migliori energie, tutto il nostro tempo, dietro i simulacri di una posizione sociale, siamo costretti a ingoiare non uno ma cento rospi, scolarizzazione coattiva, buone maniere, educazione, ricerca ossessiva di uno status, modelli posticci messi a bella posta come una carota per attizzare le brame interiori dei cittadini, famiglia pavloviana, disintegrazione della propria specifica individualità. E quando siamo vicini al raggiungimento dell'agognato status, se ci voltiamo indietro non possiamo che essere assaliti dalla bile nera della malinconia, perchè capiremo che abbiamo buttato via tutta la nostra esistenza...
Questo buco nero sarebbe stata la stella cometa di un nuovo inizio, di una resurrezione spirituale e dinamica e poco importa che il nuovo mondo avrebbe avuto tempo determinato.
Certo, si potrebbe dire; trarre insegnamento dall'episodio e vivere ogni giorno come fosse l'ultimo. Lo diceva pure Moana Pozzi. Filosofia spicciola, mi vien da dire. Perchè già Nietzsche avvertiva che l'individuo per realizzarsi davvero, circondato come è dal liquame umano, deve superare in potenza il frastuono dei milioni di uomini che lo imprigionano; e quindi sarebbe inutile, sommamente inutile, coltivarsi le proprie autonome passioni, quando poi ogni giorno ci grondano addosso le peggiori deiezioni prodotte dalla società. Deiezioni che ci riconducono ad una dimensione socializzata, collettivizzante e massificata, e che smettono di farci essere individui.
Solo la tabula rasa, la promessa di una fine immane, potrebbe davvero liberarci.
E allo stesso tempo è conferma e monito la morte per suicidio di una sedicenne indiana, Chhaya, preda del sensazionalismo escatologico più che di una effettiva percezione della apocalisse ventura; martellante, la plastica mediatica le si era conficcata nella mente e le aveva fatto credere che fosse un dato fattuale quel buco nero vorticante pronto a porre la parola fine all'epopea umana.
Non si deve amare la morte. Solo i preti amano la morte. Si deve amare la vita. La vera vita; e se questa vita avrà come prezzo l'estinzione del genere umano, tanto meglio.

mercoledì 10 settembre 2008

Fine Pena Mai


"Non serviva il carcere per farmi scontare il rimorso di quello che ho fatto, il rimorso ce l'ho sempre dentro di me, sempre"

Non è facile avere un simile grado di dignità; vincere la sofferenza non imposta da un giudice o dalla sempre presente opinione pubblica, ecce homo devoluto all'accettazione delle tue responsabilità, ma imposta proprio da nervi, carne, sangue, palpitazioni furenti che ti colgono nel pieno della notte, quando sei lontano dai tuoi affetti dalla tua casa da ciò che potresti definire il tuo mondo. Non è facile, per alcuni non è proprio possibile; per me non lo sarebbe, avessi dovuto passare un decimo di quello che ha passato Lui sarei finito col togliermi la vita. Semplice e diretto, nemmeno stoico ma proprio vigliacco; ammetterlo non mi costa nulla, gliel'ho detto chiaramente perchè parlare con Lui era come parlare con me stesso e non sta mai bene fingere con se stessi. Tra una birra e l'altra, risate, varie chiacchiere, ed intanto mi si ghiacciava il sangue nelle vene, come se l'inferno avesse deciso di fare capolino dal ventre della terra.
Alberghiamo deserti? Può darsi, ma alcuni di noi trovano la duna, altri finiscono per mummificarsi sotto spessi strati di sabbia rovente, calcificati nei pianori alcalini, screpolati fatti a pezzi, consunti dal peso di ciò che hanno fatto, vagabondi per l'intera sofferenza col rimpianto di essere stati sul lato oscuro dell'homo faber. Carnefici, perchè per la legge quello sono. Ma carnefici anche di loro stessi, delle loro aspirazioni, dei loro sogni ormai infranti, rimpianti, recriminazioni. Non servono quattro baracche di cemento e sbarre per nettarsi la coscienza, per essere uomini migliori o redenti. Per il vero uomo, la fine della pena è sempre il mai. Questo me l'ha insegnato Lui e di questo gli sarò sempre grato.

Serial Killer



Ogni volta la domanda è inevitabile; ce n'era davvero bisogno?
In linea di massima, quando parliamo di libri, ritengo che l'abbondanza sia migliore e preferibile alla scarsità, ma uscendo dalla teoria generale e addentrandoci nell'oggetto specifico vien quasi da rimpiangere i desertici giorni delle vacche magre. Perchè è vero che sui serial killer non sapremo mai abbastanza e che ognuno di loro rappresenta un universo autonomo, da esplorare analizzare e studiare, ma è pure vero che ogni possibile approccio è stato sviscerato, enucleato, messo su carta e poi reso numero ISBN in qualche catalogo; ed allora, o si escogita qualcosa di nuovo e si dice finalmente il non-detto (quale? E' questo il punto) oppure sarebbe meglio tacere ed evitare di ingolfare i già ingombri scaffali delle librerie.
SERIAL KILLER, del duo Schechter-Everitt, è un consistente tomo (477 pagine), venduto a prezzo non particolarmente popolare (22 euro; ma sono riuscito a trovarlo a metà prezzo nella sala occasione della Mel Bookstore di Roma, tentate pure voi) e pubblicato nel Giugno del corrente anno dalla casa editrice Arcana; Harold Schechter è un nome decisamente noto agli appassionati del crimine seriale, professore universitario, entusiasta analista della cultura popolare, si è distinto per un approccio al case-study funzionalmente interrelato alle ramificazioni più oscure dell'underground SK, dedicando una parte cospicua dei suoi testi alla descrizione di cd, film, items, quindi evitando un tono accademico troppo stucchevole.
Come è questo libro? Dal punto di vista strutturale è una sorta di dizionario, in progressione alfabetica; ci sono profili di singoli serial killer, parafilie, episodi particolari, non troppo diversamente dal miglior libro di Schechter pubblicato in Italia (FURIA OMICIDA, edito da Sonzogno). Il problema in fondo sta lì; c'era già il libro pubblicato da Sonzogno, la visione d'insieme è grosso modo simile, le analisi ovviamente non si discostano, e per questo Serial Killer diventa quasi una replica, un fastidioso deja-vu. Naturalmente, se non avete acquistato l'altro potete pure tentare (nonostante tra i due, io continuo a caldeggiare Furia Omicida).

martedì 9 settembre 2008

Kent Klich - confessioni di un voyeur


La disperazione è una terra desolata, un lungo cammino che si inerpica tra bidonville e volti di miseria. Facile trarne emozioni a buon mercato, decisamente più difficile mantenere un equilibrio tra compiacimento e compassione mercificata.
Il fotografo svedese Kent Klich, miracolosamente verrebbe da dire, riesce a mantenere questo delicato equilibrio; ha realizzato due libri significativi in cui si esplora la relazione che intercorre tra droga e desolazione umana; uno, The Book of Beth (Aperture), raccoglie la vita di una tossicomane svedese di nome Beth, vari scatti in bianco/nero che documentano l’inferno esistenziale della ragazza, i rari momenti di emersione dal dolore quotidiano, la cristallizzazione del ricordo, della prostituzione, le lacrime, la lagnante automutilazione, squallidi interni di altrettanto squallide case popolari, alveari di devastazione e miseria morale.
Seguiamo la sua crescita, la sua decadenza, come una Anne Frank dispersa tra le nebbie metropolitane del freddo nord, la vediamo mutare da ragazza a donna, nel turbinio drammatico del fallimento più completo; uno studio analitico delle posture, delle espressioni, delle emozioni tradite dal volto incartapecorito, le lacrime amare e la solitudine di un appartamento squallido, una esistenza atomizzata e priva di consistenza corporea
Una sorta di Christiane F scandinava, meno compiaciuta, meno underground, ma certamente più toccante.
L’altro libro di Klich degno di attenzione è il drammatico Children of Ceausescu (umbrage) ; negli ultimi anni la Romania è divenuta terra promessa di pedofili e fotografi umanitari, decisi i primi a ficcare il cazzo in qualunque buco a disposizione i secondi invece a riscattare l’abisso di depravazione attraverso fotografie e testi e fondi ricavati devoluti ad associazioni che lottano contro malattie infettive, denutrizione, povertà, ed è piuttosto divertente immaginare queste orde di depravati e di artisti, gli uni inconsapevoli degli altri, scivolarsi addosso tra i bar e le strade del centro cittadino di Bucarest, i volti zingari, i sorrisi di fame, i capelli rasati a zero, le puttane e le richieste di sesso, gli scatti fotografici che tanto gli artisti quanto i pedofili, ciascuno con la sua peculiare motivazione, porteranno con loro una volta che l’aereo Tarom si sia lasciato alle spalle la planimetria cittadina rigidamente socialista.
In Children of Ceausescu, il tema centrale sono i miserandi orfanatrofi di Stato, luoghi bui e sordidi, veri lager dentro cui i bambini di strada, molto spesso affetti da AIDS o da ritardo mentale, vengono stipati, incatenati, rinchiusi e celati allo sguardo dei capitalisti e dei turisti occidentali, una lunga fila di bambini incancreniti, fisicamente e psicologicamente annientati da una non-vita di mercificazione, incontro prematuro con droghe sintetiche, abusi, stupri, sesso con pedofili di varie parti del mondo, e li vedi questi bambini, li vedi i loro occhi spenti, iniettati di sangue, non sorridono, e se qualche operatore sanitario cerca di farli ridere a beneficio della fotocamera sai che quel sorriso è solo una nuova ferita inferta in uno strazio già abbondante.
Non ci sono regali, coccole, amore che possano riesumare un barlume di umanità e di speranza. Questi ragazzini, anche se si muovono, anche se rincorrono un pallone nel cortile cinto da una palizzata da gulag, anche se di tanto in tanto guardano in alto verso il cielo spento coperto da una rada foschia, sono morti. Morti in attesa di capire cosa significhi la morte.
Negli scatti di Klich vedi ogni singola ferita, ogni solco nella pelle e nella carne, le pustole, il pus, la calvizie imposta dall’AIDS, le contorsioni dolorose, le feci, le poche lacrime che sono rimaste in quegli occhi secchi.

La Ballata del Crack



Addossate al muro graffitato, voi troie sembrate tutte uguali.
Dico sul serio; in sovrappeso, truccate male, vestite con abiti che definire dozzinali sarebbe riduttivo, pettinature improbabili, capannelli di carne messa male, chiacchiericcio inutile di banalità esistenziali e problemi con la giustizia, potete pure illudervi che qualche padre di famiglia ridotto all’isteria casalinga da una moglie orrenda scelga la vostra fica per una trasgressione rapida ed economicamente negoziabile, sentirvi per ciò dotate di una qualche intrinseca utilità, e magari cercare di scucire un extra promettendo prestazioni più particolari, se il cliente è un coglione attratto dal “sesso estremo”, oppure millantando un cambio di vita o l’operazione per salvare vostro figlio, se il cliente è affetto da complesso del buon samaritano.
Ma prese una ad una tornate ad essere delle persone, e la questione cambia radicalmente.
Crack Whore Confessions è una serie pornografica americana che schiude nuove prospettive al concetto di mercificazione, concetto fin qui generalmente fermo al contratto in base al quale pagare una troietta per insozzarla su schermo; gli ideatori di CWC sono evidentemente annoiati dalle sequenze stereotipate di introduzione, intervista, pompino, scopata in fica ed in culo, più inevitabile conclusione a base di sperma in volto o in bocca, sequenza che costituisce l’intima sostanza della industria porno internazionale e che, effettivamente, può andar bene per qualche imbecille convinto tutto sommato che il cinema hardcore sia comunque un cinema tout court.
Anche io, come i gestori di CWC, sono mortalmente annoiato dall’idea che il porno debba avere a che fare per forza con la fica, come se quella crepa femminile fosse il centro del mondo.
Prendere una troia dalla strada e porla in una situazione che prescinda dal suo commercio usuale è già un buon punto di partenza, e dice molto più sui gusti del cliente che non su quelli della puttana; se poniamo a fondamento della prostituzione, e dell’acquistare le prestazioni sessuali di una troia, il concetto di atto sessuale, carne come surrogato della masturbazione, ricettacolo di sperma e frustrazioni, un semplice, mero, rapido scaricarsi le palle, non faremo che sottovalutare il potere di una serie come questa. Ma se invece partiamo dal, per me necessitato, presupposto che ogni singola puttana sia una persona con una vita devastata alle spalle allora la questione muta sostanza e si fa molto più interessante; lasciamo da parte i canoni estetici, le bionde californiane siliconate e le casalinghe finto-amatoriali, le loro imbecillità naive, le pretenziose sterzate femministe, l’intellettualità porno che si avvita su se stessa come un elicottero prossimo a schiantarsi al suolo, e prendiamo ciò che queste donne hanno da offrire.
Se poi ci concentriamo sull’esistenza del cliente, sulle sue motivazioni, vedremo che anche questo è un campo ricco di intriganti scoperte.
Inventarsi una giustificazione con moglie, figli, amici, colleghi di lavoro per poter sgattaiolare fuori dalla rispettabilità sociale, farsi un giro tra i neon fluorescenti del distretto alternativo adocchiando le puttane, le vetrine colme di dvd, riviste, omosessuali latenti in classico impermeabile interessati ad un po’ di sana azione tra le sale ombrose dei club e dei peep show, fermarsi ad un bar per bere un drink, guardando le evoluzioni di una spogliarellista a cui il futuro non ha riservato alternativa migliore.
Una tragica routine fatta di codici, regole non scritte, lampeggiamenti furtivi, approcci distratti e la solita richiesta tariffaria, scegliere con apparente cura la fisionomia delle troie; cosa ti va questa sera ? Una slava, una negra, una tossica, una messicana, un trans ?
Il supermarket della carne addossato a fatiscenti strutture post-industriali, capannoni dentro cui cresce rigogliosa l’erba e decine di pneumatici accatastati che costituiscono una torre di Babele, i graffiti, le serate di rave che rovinano la piazza ai puttanieri, le stelle che brillano nel cielo perennemente cupo e che segnano, inesorabilmente, il simbolo di chi non riesce ad uscire dal circuito dell’autocommiserazione; invece dovreste tutti smetterla di considerare la trasgressione come un attimo di emersione dall’apnea sociale che il posto di lavoro o la famiglia vi impongono e scegliere le puttane secondo criteri più funzionali, più prosaici, passarle in rassegna come schiavisti, guardarle, concupire non le loro tette o le loro bocche ma i segni evidenti e tangibili della loro disperazione.
In Crack Whore Confessions, il regista-attore intervista le ragazze che accettano di farsi riprendere; carrellata di casi umani, donne senza denti, alcune ancora invischiate nella tossicodipendenza, altre appena riemerse e desiderose di guadagnare dei soldi che possano tenerle lontane dalla tentazione di rubare per fumare cristalli di crack, le loro idiozie, le loro scuse, i loro ragionamenti sono devastanti ricordi del tempo trascorso nelle case del crack, nei ghetti, a vendersi per pochissimi spiccioli, a massacrare poveri cuccioli di cane con serrati colpi di bastone solo perché quell’abbaiare infastidisce le orecchie rese iper-ricettive dall’abuso di droga.
Nessuno acquista questi video per il quoziente sessuale e dire che queste puttane possano succhiare il cazzo meglio delle starlette siliconate sarebbe un mero esercizio di stile, un qualcosa di assolutamente privo di senso o valore; i corpi rovinati, le dentature saltate vanno bene per i primi minuti, ma il vero punto di forza sta nelle chiacchiere, nel loro accettare di essere riprese e nel mettere a nudo, letteralmente, il loro dolore esistenziale, le loro patetiche esistenze nutrite di un continuo fallimento.
Ideale compendio di queste scene può essere il libro Crack Pipe As Pimp (Lexington Books), curato da Mitchell Ratner, una investigazione socio-antropologica condotta tra i casi più disperati delle crack-houses; come tanti novelli Krafft-Ebing, gli autori dei saggi che compongono questo libro si limitano a raccogliere il flusso di coscienza schizoide di vari personaggi, tutti rigorosamente reali, dai nomi pittoreschi come Negro, Kingrats, Skeezer. Un mondo oscuro di scopate in cambio di una dose, risse animalesche, stupri di gruppo, fogne abitative diventate inferni architettonici; la storia migliore è certamente quella di Rose e Ronney, due teneri piccioncini infetti dall’AIDS e resi violenti, irascibili e paranoici dal consumo smodato di cristalli, li seguiamo nel loro mesto vagabondare tra i bassifondi di una qualunque metropoli americana, e quando non sono impegnati a fottere o a rubare per pagarsi i loro vizi li vediamo torturare cucciolotti di cane, generalmente attraverso estrazioni forzate dei denti o bastonature feroci. Il tono generale del testo è malevolo e crudo, lontano da ipotesi di saccenza accademica, il gergo è scurrile e deriva direttamente dalle bocche dei protagonisti, Ratner si guarda bene dal censurare, rimuovere, obliare, preferendo invece concentrarsi in un accorpamento di casi, umanamente e psicologicamente simili; così vediamo persone in vari stadi di tossicodipendenza e di umiliazione sociale, vari comportamenti ricondotti non tanto a spiegazioni sociologiche quanto a manie esistenziali.

sabato 6 settembre 2008

Nan Goldin - la dipendenza dalle emozioni


Amo la fotografia di Nan Goldin.
Personale, triste, vagabonda, di atmosfera urbana, permeata di profonde emozioni, specchio perfetto e limpido dell'anima della fotografa, intersezione immaginifica di esistenze, fallimenti, derive umane, bar e peep show, travestiti, abuso di droga, violenza familiare, la sofferenza della solitudine, appartamenti dimenticati e incistati nel fianco di alveari cementificati, luna park con siringhe infisse sulle giostre, confusione sessuale, volti sporchi, volti stralunati, volti perduti anche quando apparentemente carichi d'amore, volti devastati dalla droga e dalla malattia, scatti che non fingono, scatti che dicono molto sull'artista e molto sui soggetti fotografati, oggetto di un desiderio e di una paura con cui non si è mai venuti a patti.
Nan Goldin ha sofferto. E molto. Innegabile.
Il suicidio della sorella. L'infanzia problematica, e isolazionisticamente condotta nel tentativo di cristallizzare i pochi attimi felici. Una casa povera, dispersa in uno di quei sobborghi che portano alla mente le atmosfere alla Furore di Steinbeck. Ritratto di una famiglia americana, verrebbe da dire, gotico metropolitano dalle sfumature post-moderne, storie di viaggi e di ritorni e di treni che si disperdono nel ventre sibilante della notte, distributori di benzina, neon rossi e tremolanti.
La Goldin, prima di studiare all'accademia delle belle arti, ha realizzato un notevole corpus di scatti istantanei in bianco/nero, senza raffinate soluzioni tecniche ma dettati da una vorace ricerca interiore; la fotografa ha immortalato chiunque le si sia avvicinato nel corso dei suoi anni, anni problematici va detto.
Il suo trasferimento a New York segna l' avvicinamento alla scena sex-oriented e al punk; assiste a concerti, defenestrazioni sociali, degrado, prostituzione, le esperienze di Times Square, droga e abuso di alcolici, lei stessa ne è vittima, succube, fino alla quasi nullificazione. Gran parte dei suoi amici e dei suoi collaboratori muoiono, di over-dose, di AIDS, tremende forme di morte-in-vita, lento emotivamente doloroso disfacimento durante il corso dell'esistenza. Sperimenta col colore, e l'impatto dei suoi scatti ne beneficia; gli ambienti si rendono claustrofobici, ristretti, perchè la Goldin conferisce ad ogni sua foto la sensazione di una immediatezza urgente e viscerale, si ha l'impressione che rubi le sue foto, vampirizzi gli improvvisati modelli. Anche se in alcuni casi si tratta di articolate ed accurate messe in posa.
Le sue esibizioni si legano funzionalmente alla decadenza del tessuto urbano di New York. Il Punk è davvero morto? Nessuno potrà dirlo, ma certamente gran parte dei soggetti fotografati dalla Goldin lo sono; il peso della morte della sorella e di cento mille altre morti, costringono la Goldin ad una sistematica introspezione.
Ciò che adoro è proprio l'aderenza totalizzante del suo patrimonio emozionale ed esistenziale alla poetica artistica, non finge, non costruisce sovrastrutture ideologiche o fintamente intellettuali. Trovi la disperazione di Kent Klich, l'afrore baccanalesco di un Antoine D'Agata, le luci virate e vorticanti di una Olivia Gay, i contesti socialmente deprivatidi uno Stephen Shames, ma come valore aggiunto la vita stessa della Goldin. A volte capita di eleggere un artista a paradigma e a summa a cui paragonare l'opera di altri artisti; a me è capitato, durante l'esibizione di Nobuyoshi Araki tenutasi a Roma lo scorso inverno, di citare gli scatti della Goldin in maniera continua.
Tra quei saloni, colloquiando intensamente con A3bla, che la fotografia la pratica ma soprattutto la vive e in cui scorgo le stesse esigenze della Goldin pur con differenze strutturali legate alla formazione diversa, mi sono reso conto che le cascate di polaroid di Araki conciliavano in me quell'overload emozionale, quella ricerca palese e sofferente che anche la fotografia della Goldin è sempre stata in grado di originare. Non a caso i due hanno collaborato, mi dico.
Pur se la Goldin resta una spanna sopra Araki. Più sentita. Più dolorosa ed incupita. Più vera. Per quanto pure Araki faccia della immediatezza il fulcro della sua opera, la Goldin resta insuperata.
Trasmette emozioni a ruota libera, sangue che pulsa nelle vene. Come un Bacon prestato allo scatto fotografico, anche in lei si trova la pesantezza (a tratti insostenibile) della vita.

martedì 2 settembre 2008

Locus Solus



Noia urbana a tappezzare la scenografia, pile intere di bottiglie impolverate, vecchie riviste di caccia e di tassidermia storioni mummificati scheletriti bottiglie di whisky formaldeide insopportabile tanfo di chiuso di polvere di muffa di solitudine, lungo la parete settentrionale corrono i cavi della corrente elettrica una presa da muro non particolarmente funzionale manda scintille azzurre un tripudio di fuochi d’artificio, nessun rumore, il battito di un cuore forse.
Impagabile atmosfera crepuscolare nella penombra artificiale, confortevole utero di isolazionismo e deprivazione, sensi sconfitti galleggiano tra gli anfratti e i chiaroscuri di questo labirinto.
Un corpo. Disteso su di una branda. Le mani legate, un collare al collo.Donna. Florido seno nudo esposto alle gioie della vita. Anche se per paradosso di vita ormai non ne rimane.
Lingua a penzoloni, bluastra, bavetta incrostata sul mento, occhi vitrei proprio come lo schermo piatto di un vecchio televisore adagiato ai piedi della branda.
Fai fatica ad immaginare i suoi ultimi attimi, la sua lenta prolungata agonia, il sacchetto della spazzatura ficcato sulla testa per impedirle di urlare e di respirare, alternanza sadica di aria e di mancanza di aria paradosso di una ontologia criminale sodomizzata nel culmine del parossismo, stuprata senza pietà senza dignità senza traccia di trasporto emotivo o morale, respirare assaporare i pochi istanti in cui il sacchetto viene tolto gustare l’aria viziata dello scantinato come fosse salubre aria di montagna pura ed incontaminata mancano i ruscelli ma ci sono filature di rame e alcuni poster porno che si conficcano nella iride disperata della donna vorrebbe clemenza pietà ma ciò che le esce dalla bocca è solo un confuso e patetico borborigma una richiesta di misericordia non particolarmente convinta boccheggia come lo storione essiccato boccheggia e piange perché il pianto non tramonta mai, violentata negli spasmi dell’agonia, è stata torturata, i capezzoli seviziati con morsetti un coltello dalla lama non particolarmente appuntita mollette sulle labbra della vagina un segno sul collo una corda tesa e poi rilasciata nella tragica parodia del gioco col sacchetto, violentata a ripetizione senza sosta senza forma alcuna di umana compassione, il dolore che aumentava che si faceva esponenziale torrenziale prolungava l’orgasmo del maniaco omicida, insulti offese scherno feroce e crudele, prendersi gioco della vittima come atto di dominio supremo.
Spilloni. Conficcati. Nel. Collo.
Aiuto, aiutatemi.
La voce. Non ti chiedi come fosse. Civettuola, stridula, strozzata dal terrore e dal pianto oppure fiera, altera, bella piena. Una voce graziosa ed aggraziata. Non ha importanza. Il volto. Il trucco sfatto. Fiumi di lacrime e di mascara. Rossetto. Le ha scritto puttana sulla fronte, proprio col suo rossetto, come nella migliore tradizione del porno misogino. E’ un labirinto di solitudini, quando si incontrano nascono misteri; la televisione sarà lieta di parlarne, non ometteranno i particolari più brutali, più lascivi, più squallidi.
Ripercorreranno la vita del cadavere, pardon della donna; rinvenuta in una discarica, in una fogna, a testimoniare l’universale considerazione di cui godono le donne. Sacchi della spazzatura, liquame sub-umano. Reclamare la parità dei sessi e l’amore universale le battaglie in aula di tribunale e poi finire qui, mangiata dai topi dai vermi e dai gabbiani, nel fetore immondo della decomposizione industriale.
Barboni che pisciano che collassano che si sbronzano barcollando alticci e sudici puzzano quasi quanto l’intero complesso come tutta questa mondezza accumulata uno poi vede la mano femminile spuntare da un cumulo di sacchi neri e urla perché per quanto sia sbronzo ed in rotta con la lucidità capisce che cosa significa quella scena.
I lampeggianti della polizia. Analisi patologiche, scena del crimine, investigazione di elevato profilo qualitativo parolone criminologiche imparate pagando tasse universitarie ed insultando qualche grassa segretaria, frustrazione non per l’assassino in libertà ma per le scarpe nuove macchiate di fango e guano, che odore, che odore del cazzo si dicono i poliziotti mentre scorrazzano attorno al cadavere isolando la scena e facendo rilevazioni alcune impartite dai loro superiori altre di puro buonsenso, la spersonalizzazione della vittima non è fenomeno che riguardi solo gli assassini provate voi a dover raccogliere carne maciullata provate voi a far finta di dover essere straziati e allora si prendono questi morti come fossero quarti di vacca avariati, senza grossa premura se non quella imposta dalle indagini e dalla conservazione delle prove ma nessuna premura in senso di compassione e trasporto emotivo ecco cosa intendevo.
Domande di rito, i flash dei giornalisti, domande ancora più di rito, un’ulteriore violenza sessuale sarà consumata dal medico legale, dal lucore smorto della sala autopsie dalla freddezza ieratica dei bisturi e dei seghetti dalla carne aperta dallo sterno fino al collo, bargigli di pelle e di intestino festoni srotolati grondano fin sul pavimento domani ci sarà da pulire registra passo passo l’intervento e le scoperte, i danni sessuali di cui il maniaco è stato buon esecutore, se ti piace il dolore troia hai avuto quel che faceva per te pensa una voce e non sai non capisci se sia la voce del medico o del maniaco o di qualche poliziotto, sadomaso all’ennesima potenza altro che club altro che fetish altro che cataloghi del piccolo torturatore, avere il santino di Lawrence Bittaker nel portafogli e la maglietta con il volto di Ian Brady sopra, il dominio il dolore la malata frustrazione eretta a sistema di godimento, il piacere da raggiungere ad ogni costo.
Solitudine. Di. Una. Brughiera. Solitudine.
Di.
Una.
Cantina.
Come la casa dei coniugi West, il porno bondage omicida e gli incesti altro che pornografia tedesca e circuiti clandestini ex-sovietici, scheletri cadaveri violenza sessuale di rara crudeltà, coppia devoluta unicamente alla soddisfazione egotica, oh che spettacolo da Inferno dantesco le urla le luci rosse le corde niente Shibari niente nodi finemente elaborati solo tanta lussuria nessuna body art per rallegrare l’aria della festa del party nessuna musica elettronica goticheggiante, non c’è migliore musica dello strepitare delle vittime in agonia.
Brady, il suo pugno minaccioso rivolto al cielo contro Dio. Sadiano, nel suo disprezzo e magnificamente contraddittorio; la brughiera, la nebbia, l’atmosfera da pub inglese, non proprio una cornice per glorificarsi nel migliore dei modi, ma i suoi gusti. Quelli si. I diari. Le foto di Hitler, i suoi pensieri. Articolate visioni sadiane, di quella mantrica consistenza da libro sacro, ripetitivo fino allo sfinimento, noioso ma liberatorio ed ascetico, un Erotismo post-batailliano.
L’assassino ha una missione, si dice. Lo dice lui stesso rivolto a se stesso, mentre il medico legale continua ad inscatolare parti del cadavere e pensa a cosa regalare alla moglie per natale e i barboni hanno ripreso a vagolare come sagome di disperazione tra le vallate di spazzatura ed i poliziotti sono alle prese con qualche furto o rapina ed hanno dimenticato lo strazio dell’omicidio, timbri il cartellino per una giornata sempre nuova sempre diversa nel luna park lombrosiano.
Essere orrendo. Essere atroce. Dimenticato da Dio, anche se un esperto strapagato dovrà spiegare al pubblico gaudente come faccia Dio a dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa, Dio che tutto può, che tutto vede e che verosimilmente tutto ricorda, però dimentica per magia (nera) un qualche suo figlio. Bizzarri giochi del caso, destini che si incrociano e perdono velocità sul lungo periodo, morte, più morte, sempre più morte, un genocidio sessuale ecco cosa ci vorrebbe scala industriale della concupiscenza e della lussuria, non basta una volta due volte la reiterazione purtroppo ha dei limiti fisiologici imposti dal tempo e dalle capacità individuali ma pensate quale suprema estasi la messa in piedi di un progetto totalizzante di orgia sadica, un sadomaso da cui non uscire vivi o meglio con la possibilità di non uscire vivi, qualcosa che irrida strutturalmente la pochezza dei moderni piaceri del “sesso alternativo”.
Scavare alle fondamenta di una casa e rinvenire crani umani e tibie e peroni e grovigli di carne putrefatta e vermi e pensare che un tempo, anni prima, quello sfacelo quei sacchi pieni di spazzatura umana non era altro che una florida ragazza piena di vita e di aspirazioni, la malattia mentale non deve essere frenata perché, semplicemente, non esiste, ma esiste la moralità dell’omicidio che è sempre moralitàm del piacere assoluto e l’assassino se ne frega delle vostre convenzioni del chiedere permesso e mi scusi potrei il condizionale è abolito per sempre.
Per.
Sempre.
E’ inutile vivere se non si ha uno scopo, uno scopo dignitoso. E il piacere è il più alto degli scopi.
Andare. Partire. Cosa ho perso? Cosa abbiamo perso? E dove siamo?
In fondo ad un abisso in cui ogni attimo è una eternità, il ghiaccio cioraniano non si scioglie nemmeno davanti alle calamità sismiche e al riscaldamento globale, emozioni confuse e caotiche alla deriva come iceberg atlantici, cuore profondo, sangue ma non di morte, sangue interno alla vene, la vita scorre frenetica cittadine abbandonate e dimenticate ti vorticano addosso le luci la sanità mentale può portarci lontano ma non abbastanza per questo il Lucifero della scienza moderna ha inventato la malattia mentale e le colonne d’ercole della farmacologia e una psichedelia della sessualità orgasmo e morte eros e thanatos decrepita fisionomia marmorea di una statua mai realizzata cippo funebre del più grande serial killer, strade intitolate a Peter Kurten e Ted Bundy, che ci importa delle loro vittime? Cosa rimane se non la gloria di questi uomini perfettamente autorealizzati ?
Hai.
La.
Testa.
Piena.
Di.
Merda.
Così scrisse un affezionato, effluvi di consunzione nelle sue accorate parole esperto sedicente tale di sadomaso di sottomissione me lo immagino a pontificare di scat e filmografia germanica DinoProduktion e viaggi ad Amsterdam tra canne, acidi, vetrine puttane spettacoli fetish feste alternative e ricerca di una posizone di una qualche posizione sociale e sessuale, master padrone ragazza schiava troia chiamami padrone tuo signore già chattando su msn mentre lei stira i panni e fa finta di compiacere dicendo oh si mio padrone sono a terra nuda mentre invece sta impilando le tshirt e cambia l’acqua ai termosifoni e lui il genio del sadismo di plastica si compiace della sua potenza poi però trova qualcosa di brutto di osceno di cattivo e allora scrive quelle parole, le butta in faccia all’oggetto della sua esecrazione, e quando incontra le sue slave le mette in guardia dalle bestie della Rete dai maniaci dai debosciati che potrebbero spingersi troppo oltre, che potrebbero varcare le colonne d’ercole del poco piacere spingendosi ad affrontare la navigazione nell’oceano della lussuria, oh no, stai attenta perché io so cosa fare e cosa voglio fare ma il sadomaso non è malattia mentale non è crudele frustrazione, e piange in metafora e la sua slave cercava l’amore confortevole tra le sue braccia e così padrone e schiava vissero felici e contenti mentre l’orco si aggira per il web e allora lo si esorcizza con qualche epiteto insultante, risibile va detto e non molto preoccupante.
Povero mondo.
Povero mondo del cazzo.
Quando moriremo tutti, sarai finalmente libero.
Per il momento, continua a coltivare i tuoi figli migliori.